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L'erba del diavolo
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L'erba del diavolo

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About this ebook

In un paese sospeso sui monti della Sardegna, durante una tormenta di neve, un misterioso ospite si reca nella casa di un assassino, recando un dono di morte. Quella notte l'assassino muore e, nell'esalare l'ultimo respiro, gli sembra di vedere sopra di lui S'Ammuntadori, uno spirito maligno, che gli sorride beffardamente. Don Paoletto, il giovane parroco, comprende che qualcosa di orribile è avvenuto in quella povera casa e lui dovrà scoprire cosa. Il lettore verrà catapultato nel terribile passato di quel paesello, in cui il senso dell'onore e della vendetta pare segnare il destino stesso degli uomini, senza che loro possano opporsi. Lo stesso Don Paoletto dovrà fare i conti con il suo passato, mentre un burattinaio muove implacabile i suoi fili. A fare da cornice, la storia stessa dell'Isola, con le sue tradizioni (L'Ardia, il culto dei morti; la festa per l'uccisione dei maiale) e le sue credenze (le surbiles; l'Erchitu e tante altre).
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateNov 25, 2019
ISBN9788831649056
L'erba del diavolo

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    L'erba del diavolo - Leonardo Tilocca

    padre

    Prefazione

    Lo stramonio comune o anche erba del diavolo è una pianta di aspetto molto gradevole ma altamente velenosa a causa dell'elevata concentrazione di potenti alcaloidi, in particolare la scopolamina.

    Era il dicembre del 1975. Lo stramonio contenuto nella boccetta e disciolto in un liquore che ne addolciva il sapore, così da non renderlo oltremodo sgradevole al gusto, lo uccise in maniera atroce, con la paralisi dei polmoni. Antiogheddu Moro era stato assassinato. Pareva avesse lottato con il diavolo, tanto era il terrore che gli si leggeva nel volto.

    È questo l’inizio, o forse l’epilogo di una strage. Un odio incandescente che nasce dagli intrighi dell’animo, che trascina, travolge e spezza, in un’orgia di sangue, vite di uomini, donne e bambini. Il deserto dei sentimenti è qui, a Nuoranis, un paese sardo di circa mille anime avvolto da una spessa coltre di neve e fumo. Un paese di montagna, di pastori, greggi, vecchie case, strette viuzze, con i vecchi sull’uscio di casa, emblema di solitudine, sentinelle senza speranza di un mondo immutabile. Qui il senso della strage, l’incontenibile e furente carica di odio e rancore che cancella la pietà.

    La morte di Antioco Moro riapriva le ferite che avevano segnato per anni il paese e chi lo abitava. Don Pauleddu, così era chiamato il giovane parroco di Nuoranis, decise di indagare su questa morte, un evento che lo aveva oltremodo colpito e reso sempre più inquieto, infatti, era convinto che qualcosa di orribile fosse accaduto in quella casa.

    Ogni morte per mano assassina reca con sé qualcosa d’innaturale, una violenza all’ordine divino, ma quell’uomo dava l’impressione di aver visto qualcosa di ancora più̀ grave, che andava oltre la malvagità̀ umana.

    Bobore Manca rimase immobile, come se il tempo si fosse fermato. Era rientrato in paese dopo molti anni passati in carcere per l’omicidio di Vincenzo e Raimondo Mereu e la morte dell’amico Antioco riaprì ricordi, squarciando il passato, riportandolo ad una fredda mattina di molti anni prima. La morte di suo fratello Giovanni, del servo Bustianu, la vendetta, il carcere.

    Il diavolo lo guardava divertito, consapevole che era stato travolto anche lui da quel mondo, anche a lui era stato richiesto il suo tributo di sangue.

    Ma dietro ogni mano che uccide, ogni atroce delitto, c’era un abile tessitore di intrighi.

    Può̀ un uomo pensare di evadere da sé stesso, da quello che è, ed essere un altro? Ma se lo fa, Dio abbia pietà di chi attraversa la sua strada, perché́ è il diavolo stesso a guidarlo.

    Cap. 1 Nuoranis

    Nuoranis, dicembre 1975

    Il paese, circa mille anime, era avvolto da una spessa coltre di neve. Il fumo saliva lentamente dai pochi camini già accesi. Qualche pastore, a fatica, si muoveva tra le viuzze del paese per poi inerpicarsi lungo uno dei sentieri che conducevano ai pascoli di montagna. Don Pauleddu – così era chiamato Don Paolo, il giovane parroco di quel paesello – osservava dalla finestra lo spettacolo offertogli dalla natura, con lo spirito reso inquieto da uno strano presentimento. Pareva avvertisse che qualcosa, cui non riusciva a dare consistenza, fosse destinata a interrompere quella calma irreale.

    Come una risposta ai suoi pensieri, una coltre di nebbia spinta dal vento risalì il canalone, posto nella parte bassa del paese, come anima viva, attorniata ai lati da bizzarri arabeschi, si posò sulla piazza del paese, come per deporvi ciò che portava in grembo, e poi continuò sino a perdersi nel monte sovrastante. Quel paesaggio idilliaco, nella sua calma irreale, era stato toccato da qualcosa – almeno così pensava Don Paolo – destinato a riaprire le ferite che avevano segnato il paese e chi lo abitava.

    Il paese era suddiviso in vicinati, segnati da confini impercettibili al forestiero, su cui dominava un maniero, la cui maestosità non era stata scalfita dal passare del tempo. Ai suoi piedi vi era la parte antica del paesello, Castigu, con le vecchie case, tanto a ridosso delle strette viuzze che il sole pareva non dovervi entrare. I vecchi, seduti all’uscio di casa, erano l‘emblema della solitudine, sentinelle senza speranza di un mondo immobile che pareva sospeso nel tempo. Pareva vi regnasse la rassegnazione a un destino che benevolo non era mai stato. Il ripetersi delle giornate era tale, anche nell’intimo delle persone, che ieri poteva essere oggi e anche domani. Nessuno scossone o tumulto ad agitare quelle coscienze ed era bene che fosse così, perché di buono niente ci si poteva aspettare dall’esistenza.

    Quei viottoli scoscesi, lastricati di pietra dura, nera come la morte, convergevano come affluenti impetuosi e mai domati, unica fiamma di vita di quel posto, verso la via principale del paese, sa Carrela manna, da cui prendeva nome il vicinato. Lì vi erano i zilleri, bar spartani che agli occhi dei giovani rappresentavano la vita adulta, ma erano anche il tribunale in cui chi aveva diritto di parola – e tale era solo chi poteva accedervi, sicché ne erano esclusi donne e bambini, del cui giudizio ben poteva farsi a meno – giudicava ora questo ora quell’altro, nessuno escluso, dando così a ciascuno il suo status. Non uno status sociale, beninteso, il quale è già nelle cose, ma uno status morale, l’essere degno o meno della posizione che si ricopre in quella società. Un giudizio, cui nessuno sfugge, dal medico del paese al più misero pastore. Lì si giudica se il giovane è un buon pastore, come tale degno di rispetto, o se è roba da nulla, da trattare con sufficienza, destinato come tale a subire i soprusi della natura e degli uomini, entrambi privi di pietà nel mondo della campagna. Sentenze senza appello, marchi indelebili, tali da forgiare la realtà stessa e da accompagnare per la vita gli uomini su cui cadono.

    Un altro vicinato, Pianu, si estendeva, quasi adagiato, su una collina, accarezzato dal sole e all’apparenza quasi sonnolento, beato di quella carezza che pareva tenerlo lontano dalle tensioni del paese, legate al mondo oscuro delle campagne. Iniziava, nella sua parte più elevata, ad accompagnare il paese verso la montagna, da cui però lo separava uno stradone, su cui passava anche la corriera, un confine che pareva invalicabile, al pari della piccola fontanella posta all’inizio del viottolo che dalla piazza del paese introduceva al vicinato, prima quasi un cunicolo per poi allargarsi pian piano, quasi a voler tener fuori una malvagità che pareva aleggiare come una cappa sul paese. Era il rione dei contadini e da lì, attraverso un canalone, che per la sua cupezza contrastava con la pacatezza del vicinato, quasi non gli appartenesse, si andava verso gli orti. Forse il paese, chiuso in sé stesso da quando era nato, voleva difendersi dagli estranei, impaurirli, anche per quel viottolo, che i contadini di Su Pianu attraversavano allegramente ma che i forestieri guardavano con paura, scorgendo tra le ombre disegnate dagli alberi e dai fiorenti cespugli la vera natura del paese.

    L’ultimo vicinato, Cussorza, era addossato a un dirupo, segnando fisicamente il confine più vero con i pascoli di montagna. Poteva anzi dirsi che era una parte di montagna che il paese aveva fatto propria, non per tener fuori la barbarie che vi regnava, ma per portarla dentro di sé, quasi non potesse farne a meno o rinnegare sé stesso, riconoscendo che era quella la sua vera natura. O forse quella natura gli era necessaria, doveva farne parte per potergli sopravvivere. Le case, di freddi blocchi di granito grezzo, erano più solide delle altre, quasi avessero un peso invisibile da sopportare, primo baluardo alla tempesta. I pastori che lo abitavano non avevano la mentalità di chi abitava Castigu, rassegnata alla vita. Erano mossi da una rapacità innata, talvolta fine a sé stessa, unica via per affrontare l’esistenza.

    A tenere uniti i vicinati, così distanti tra loro, vi era la grande piazza. Era il cuore nobile del paesello che, avendola al centro, appariva come un grande anfiteatro naturale. Sulla piazza si affacciava la chiesa con la casa del parroco, leggermente rialzata e con così ampia visuale da poter spaziare su quasi tutto il paese, la caserma dei carabinieri, la casa del medico con l’ambulatorio, la farmacia e, cosa più importante, il bar dei signori, frequentato dai possidenti del paese. Da lì si diramavano le vie principali del paesello, la via che conduceva a Su Pianu, poi Carrela manna, che attraversava il rione omonimo e, all’altezza di un’altra fontanella, finiva in Castigu, un’altra via, considerata parte della stessa piazza, quasi interamente occupata dalla casa municipale, da cui si inerpicava Cussorza e che, dall’altra parte, terminava con lo stradone, confine ultimo di Su Pianu.

    Era un brutto anniversario, che la messa in ricordo del giorno prima aveva reso vivido. Un giorno di dicembre di tanti anni prima, Bobore Manca, ormai ventenne, era rientrato a casa intorno alle nove, dopo aver accudito il bestiame, preoccupato di non avere notizie del fratello. Aveva spalancato la porta e si era trovato di fronte una scena terribile. Il fratello Giovanni, di alcuni anni più grande di lui, era riverso a terra, con la fronte coperta di sangue, nerastro e raggrumato nella parte centrale, in concomitanza di un’ampia ferita da taglio, provocata da una mano assassina. Aveva gli occhi innaturalmente spalancati e la mano destra protesa in avanti, quasi in uno sforzo, come se avesse voluto indicare qualcosa a chi lo avesse rinvenuto.

    La mano, almeno questa era l’impressione, era rivolta verso la credenza. Una delle ante, posta nella parte superiore, nella quale venivano custoditi i documenti importanti, era aperta. Un rapido esame consentì a Bobore di capire cosa mancasse: l’atto di vendita della tanca di Sa Rejna. L’immensa proprietà, retaggio dell’Editto delle chiudende, quando per diventare proprietari terrieri era sufficiente chiudere un terreno – sino a qual momento di tutti – con un muretto a secco, era entrata nel patrimonio di famiglia non molto tempo prima. Non era un atto notarile, ma una semplice scrittura privata, come si usava allora. Con quell’atto, Eugenio Demontis, che nel paesello tutti chiamavano Il Marchese, erede di una famiglia di proprietari terrieri, cedeva a Demetrio Manca, padre di Bobore, la tanca di Sa Rejna, donatagli dal padre Augusto, dietro un corrispettivo da pagarsi in più anni.

    Quella proprietà da sempre aveva incendiato gli animi degli abitanti del paesello. Infatti, aveva costituito per secoli una fonte di sostentamento per tutta la comunità. Faceva parte di quei terreni comuni di cui pastori e contadini, a turno, beneficiavano, così da avere un’esigua ma certa fonte di sostentamento. Con le chiudende finì tutto, pochi si appropriarono di molto, e tra questi vi era la famiglia del Marchese, e molti non ebbero più niente, diventando ancora più poveri di quanto già non fossero.

    La famiglia di Demetrio Manca pascolava quei terreni da almeno vent’anni. Al Marchese, oltre a un modesto canone di affitto, spettava parte dei prodotti dell’attività di Demetrio, la quale consisteva nella cura di un gregge di circa duecento capi e di alcuni orti. Uno scambio favorevole, il quale aveva consentito a Demetrio, non un semplice mezzadro, di acquistare una certa agiatezza. Questo aveva dato vita a invidie da parte di alcuni compaesani. In particolare, Vincenzo Mereu, cugino di Demetrio, anche lui in rapporti col Marchese, aveva mal digerito la preferenza accordata dal Marchese a quest’ultimo al momento della vendita. Vincenzo aveva presentato un’offerta molto vantaggiosa, che prevedeva il pagamento in contanti di buona parte del corrispettivo. Ciò nonostante Eugenio aveva preferito Demetrio, in virtù di un rapporto di fiducia che si era consolidato nel tempo.

    In realtà, ciò che legava il Marchese a Demetrio era più che una preferenza personale. Lo stretto rapporto tra i due era stato consolidato da un favore, se così vogliamo chiamarlo, fatto da Demetrio al Marchese: una falsa testimonianza – almeno così si vociferava – che probabilmente aveva evitato a quest’ultimo il carcere. Il Marchese, infatti, si era invaghito di una giovane del paese, Antonietta, domestica presso la sua abitazione. Una sera di giugno, verso le nove di sera, un passante udì alcune detonazioni provenire dalla casa del Marchese. Subito dopo vide un’ombra uscire rapidamente dal portoncino posto sul retro e dileguarsi nella notte. Antonietta era stata assassinata. I sospetti erano destinati a cadere sul Marchese, il quale, convocato nella caserma dei carabinieri, si difese sostenendo che al momento in cui il testimone aveva udito gli spari si trovava presso l’abitazione di Demetrio, il quale confermò, con dovizia di particolari, il suo racconto.

    L’omicidio fu attribuito a un ladro. La stessa famiglia della vittima sembrava convinta della estraneità del Marchese alla vicenda, tanto era il rispetto che nutrivano nei suoi confronti. Eppure, il sospetto non si era mai sopito, aleggiava nell’aria; talvolta veniva allo scoperto nelle chiacchiere dei zilleri, i bar del paese, in particolare quando il vino scioglieva le lingue. Qualcuno non era insensibile a quelle chiacchiere. Giovanni Manca conosceva molto bene i fatti che avevano portato alla morte di Antonietta. Anche lui, infatti, come il Marchese si era invaghito della giovane, peraltro ricambiato. Poiché era a conoscenza delle attenzioni del Marchese nei suoi confronti aveva cercato di dissuadere Antonietta dal continuare a frequentarne, quale domestica, la casa; ma senza successo.

    Giovanni Manca era un ragazzo alto, sicuro di sé, esuberante, sbruffone come pochi e con un modo di fare così gioviale che gli attirava le simpatie sia dei ragazzini che delle giovinette – tra cui Antonietta – per le quali non mancava mai di mettersi in mostra. Era sempre pronto al riso e allo sberleffo, cosa che la vittima di turno – e immancabilmente qualcuno era destinato ad avere questa parte – di certo poco gradiva, ma che di solito gli attirava le simpatie degli astanti. L’agiatezza, conquistata dal padre, lo metteva al riparo da quei problemi che da sempre affliggono la vita della povera gente – e questa era la condizione naturale in quel paesello – sicché era circondato, pur non avendone alcun merito, da un alone di rispetto e ammirazione, lo stesso che veniva tributato ai maggiorenti del paese, i prinzipales, di cui ormai faceva parte il padre Demetrio.

    Bobore Manca era tal quale suo fratello nell’aspetto fisico, ma ne differiva nel carattere a tal punto da non potersi dire che fossero fratelli. Per una qualche ragione, nota soltanto a lui, aveva un’aria di austerità che mal si conciliava con la sua giovane età. Pareva – ma è solo un’impressione – che, diversamente dal fratello – che vedeva la ricchezza del padre come il naturale riconoscimento alla loro capacità di stare al mondo – dovesse dare un qualche senso a quella ricchezza, come se la stessa non potesse appartenere a chicchessia, ma solo a chi, come lui, avesse la saggezza necessaria a possederla. E, forse proprio per questo, il diavolo lo guardava divertito, ben sapendo che quel mondo, prima o poi, avrebbe richiesto il suo tributo di sangue e in quel momento lui avrebbe rinnegato la sua tanto sospirata saggezza.

    La sera dell’omicidio, convinto che il Marchese non si trovasse in casa, Giovanni era andato a trovare Antonietta. Da una finestra socchiusa aveva visto i due prima abbracciarsi teneramente e poi baciarsi con passione. Il mondo gli cadde addosso. Accecato dall’ira, aveva estratto la pistola che portava sempre con sé e, dopo aver scavalcato la finestra, aveva esploso due colpi in rapida successione verso Antonietta, senza curarsi del Marchese, il quale rimase impietrito, senza dire una parola.

    Quasi istintivamente si era chinato verso Antonietta, che giaceva a terra ormai priva di vita. Gli aveva accarezzato i capelli, rendendosi conto forse solo in quel momento di ciò che aveva fatto. Immediatamente dopo era uscito in strada dal portoncino posteriore e si era diretto verso la campagna. Era lui la figura indistinta intravista nel buio dal testimone, il quale, subito dopo, corse verso la caserma dei carabinieri. Un unico pensiero, insieme al dolore per aver perso Antonietta, accompagnava Giovanni. Non subire le conseguenze di quell’insano gesto. Non ne avvertiva la malvagità, ritenendolo necessario in ragione di ciò che era accaduto, e per questo non doveva pagare in nome di una giustizia che non avvertiva sua.

    Il Marchese, ripresosi dallo spavento, non andò subito a denunciare l’accaduto ai carabinieri ma corse a casa di Demetrio. Erano in buoni rapporti da anni, ne riconosceva il valore, e voleva consultarsi con lui. Andare direttamente dai carabinieri, avrebbe costituito uno sgarro per un balente1 vecchio stampo quale era Demetrio. E lui ne temeva le conseguenze. In cuor suo sapeva che Demetrio non avrebbe mai abbandonato il primogenito al suo destino, tantomeno per una ragione come quella. Gli balenò pure che lui stesso avrebbe potuto pagarne le conseguenze, poiché si era intromesso nella storia d’amore tra Giovanni e Antonietta. Eppure, in quel momento, non poteva fare altrimenti.

    Quel pensiero lo agitava mentre muoveva a passi veloci verso la casa dei Manca. Se era tutto vero, l’amore per Antonietta, l’omertà di Demetrio, cosa lo spingeva veramente verso quella casa e non verso la caserma? Solo il rispetto per quell’uomo? O era altro? Dovette ammettere a sé stesso che era la paura. Gli serviva la sua protezione. Non poteva sapere cosa avrebbe fatto Giovanni. Lì non lo aveva degnato di uno sguardo e non era certo per rispetto nei suoi confronti. Lo aveva considerato un vile che mai avrebbe osato fermarlo. Sbollita la rabbia che allora aveva indirizzato verso Antonietta, cos’altro avrebbe potuto fare?

    Il cuore gli batteva in gola, quando a un certo punto, ormai prossimo alla sua meta, si fermò di colpo. Il rossore che gli colorava il volto aumento d’intensità nel pensare che solo lui aveva visto Giovanni, per di più nella sua stessa casa. E se lo avessero incolpato dell’omicidio? Qualcosa di peggio della stessa vendetta avrebbe potuto abbattersi su di lui. Il respiro parve venirgli meno. Non pensava più ad Antonietta, niente era a lui più lontano, come quando un dolore più grande ne annulli un altro che tanto ci aveva angosciato. Realizzò in quel momento che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di salvarsi.

    Quando entrò nella casa dei Manca era ben consapevole che la sua richiesta di giustizia altro non era che quel poco che poteva buttare sulla bilancia per riscattare la sua stessa salvezza.

    Cap. 2

    La morte di Antiogheddu Moro

    Nuoranis, dicembre 1975

    Quel silenzio fatato a un tratto venne spezzato dalle urla in lontananza di un uomo, che a Don Paolo parve essere Efisio Mele. Correndo a perdifiato, quasi saltando lungo la via coperta di neve adiacente al Municipio, gridava in continuazione, con tutta la forza che aveva in corpo: Hanno ucciso Antiogheddu, hanno ucciso Antiogheddu. L’urlo del pastore era così intenso che sembrava potesse abbracciare l’intero paese, ancora avvolto nel silenzio ovattato che gli aveva donato la notte nevosa. Lo risvegliava alla vita, annunciandogli la morte.

    La porta della caserma dei carabinieri, situata nella piazza principale del paese e ben visibile dalla casa del parroco, si aprì. Due carabinieri andarono incontro all’uomo, che era proprio Efisio Mele, proprietario di un piccolo gregge che pascolava nelle vicinanze del paese. Antioco Moro, che tutti chiamavano Antiogheddu, gli aveva chiesto di portargli, al rientro dalla campagna, un po’ di latte e questi ogni mattina era solito lasciare il latte dinanzi alla porta di casa, in una gavetta. Dopo un breve conciliabolo, seguiti dal maresciallo, che nel frattempo li aveva raggiunti, si diressero tutti insieme verso la periferia del paese, nella sua parte più alta, dov’era la casa di Antiogheddu.

    Dimmi come hai scoperto il cadavere, disse il maresciallo, mentre a fatica camminavano per raggiungere la casa, Qualcosa ti ha insospettito? Nel fargli le domande, con fare indifferente, lo scrutava con attenzione, pronto a carpire qualsiasi segno del volto, un’esitazione nel rispondere o qualsiasi altro segnale rivelatore, non potendosi escludere che l’agitazione di Efisio, piuttosto che essere dettata dal terrore per il macabro ritrovamento fosse dovuta a un suo coinvolgimento nella vicenda.

    Da qualche giorno porto il latte appena munto ad Antiogheddu. Per questo dovevo passare a casa sua. Non ho visto fumo – è una cosa che avevo notato sin dalla parte alta del paese – poi, quando sono arrivato dinanzi alla casa, ho notato che le persiane erano ancora chiuse. Non è mai accaduto e, sapendo che Antiogheddu – il quale era solito alzarsi comunque molto presto – non stava bene, ho bussato, prima alla porta, poi alla persiana che dà sulla camera da letto. Non è arrivata nessuna risposta, nonostante abbia insistito. Allora ho chiamato la sorella, che abita lì di fronte, e dopo avergli detto le stesse cose che ho detto a voi, lei ha aperto e abbiamo fatto la macabra scoperta, concluse Efisio, facendosi il segno della croce.

    Cosa avete visto? chiese il maresciallo, mentre già si vedeva la casa. Efisio non aveva avuto mai a che fare con la giustizia e il maresciallo lo conosceva solo di vista e per il saluto che si è soliti rivolgere a chi si incontra per la strada. Ormai avanti negli anni, era uno di quei pastori che, non avendo fatto altro nella vita, trascinano la loro esistenza, sin quando le gambe li sorreggono, dietro un gregge, non importa quanto grande sia, come se non farlo li estraniasse dalla comunità, quella che pulsa di vita, prima di relegarsi al rango di anziani. Niente lasciava supporre un suo coinvolgimento e il suo sguardo perso nel nulla riportava l’immagine di un uomo che si era sporto sull’orlo di un abisso di paura e non riusciva ancora a sottrarsene. Quale morte poteva toccare così profondamente l’animo umano?

    Antiogheddu era nel suo letto, con un coltello ancora stretto nella mano, e pareva avesse lottato con il diavolo, tanto era il terrore che gli si leggeva nel volto. Nel dirlo, Efisio venne scosso da un brivido. Ogni morte per mano assassina reca con sé qualcosa di innaturale, una violenza all’ordine divino, ma quell’uomo dava l’impressione di aver visto qualcosa di ancora più grave, che andava oltre la malvagità umana.

    Antiogheddu era morto quella notte ed era stato ucciso, ma non nel modo che pensava il buon Efisio.

    La sera prima, il freddo avvolgeva la casa e il fatto che fosse venuta a mancare la luce, in conseguenza della furiosa bufera di neve che imperversava dalle prime ore del pomeriggio, destinata a placarsi solo alle prime luci dell’alba del giorno successivo, rendeva opprimente il trascorrere della serata, sicché Antiogheddu aveva deciso di andare a dormire nonostante l’ora non fosse tarda.

    Come gli era stato suggerito dall’inaspettato ospite che quella sera aveva visitato la sua casa, inaspettato perché quel tempo da lupi sconsigliava l’uscir di casa, prese la boccetta che gli era stata recata in dono, contenente un liquore, non gradevole al gusto, circostanza di cui era stato preavvertito, ma particolarmente efficace per i deliqui che da qualche tempo lo affliggevano. Pensava, infatti, che il suo dimenticare continuo fosse dovuto a improvvise perdite di conoscenza, non attribuendone certo la causa alla pazzia che lo aveva colto.

    Non era un medicinale ma ben sapeva che talvolta la medicina popolare sortiva effetti di gran lunga superiori a quelli garantiti dai medici. Non ne conosceva gli ingredienti e, del resto, a poco gli sarebbe servito, considerato che il potere di quella pozione era nelle formule magiche recitate dal suo ospite. Lo stesso accadeva quando Tzia Filomena, una vecchina saggia e benvoluta da tutti, veniva accompagnata nell’attesa della vendemmia in questa o in quella vigna, all’alba, senza che nessuno, né lei né i suoi accompagnatori, profferissero parola, per non annullare l’incantesimo, e pronunciava con voce impercettibile le sue parole magiche, tramandate da tempo immemorabile, e nessun uccello si accostava più agli acini maturi.

    La notte Antiogheddu avvertiva con sempre maggior frequenza una forte sensazione di soffocamento, quasi gli mancasse l’aria per respirare e, dopo averne casualmente parlato con una vecchina sua dirimpettaia, si era convinto che ciò fosse dovuto a s’ammuntadori, un essere malvagio che di notte copriva le vittime col suo corpo impedendogli di respirare. Per questa convinzione, la sera era ormai solito mangiare direttamente dalla pentola con cui

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