Acquaneve
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Book preview
Acquaneve - Paolo Agostini
633/1941.
Amen
La prima volta che ho tagliato un torace mi tremavano le mani.
È stato all’ospedale di Tel Aviv, trentacinque anni fa e ricordo benissimo il rumore del bisturi da dissezione mentre tranciava lo sterno fino all’osso pubico. Ricordo che, fra la nebbia dei miei occhi socchiusi a forza, si infilò la penosa vista dell’aorta ormai vuota di sangue di un uomo dall’apparente età di quarant’anni.
Dove va a finire l’anima?
Questo mi domandai quel pomeriggio e questo mi domando oggi, adesso, durante la mia ultima autopsia.
Gli studenti in sala operatoria saranno almeno venti ma la telecamera sta rimandando le immagini nelle aule universitarie di mezzo mondo. La mano stranamente mi trema come tanti anni fa, ma non voglio, non posso lasciare un brutto ricordo tremante del chirurgo che sono stato.
Io ho imparato tutto sulla fine.
Ho imparato perfettamente dove va a finire la passione, la malinconia, la gioia, tutto. Per esempio conosco dove vanno a finire la cattiveria ed il delirio di onnipotenza: rimangono appiccicate come pietre sulle pareti del colon, che assume una consistenza dura ed una colorazione nerastra. Anche il dolore riconosco subito: il dolore finisce nei denti, sì. Uno che ha sofferto molto lo riconosci dalla fila perlata di denti che assumono l’andamento sgualcito e sconfitto delle curve nel deserto.
Ma tutti i miei studenti sanno che è il cuore che mi ha tenuto vivo in questi anni. Si, il cuore. Ogni volta che sto per estrarlo loro si girano dall’altra parte, fanno finta di parlare, una scusa qualsiasi, perché perdo sempre una lacrima quando lo tengo fra le mani e loro non vogliono mettermi in imbarazzo. Anche oggi guardo il miocardio con tenerezza prima di toccarlo e lo riconosco subito. Eccone un altro mi dico, è un cuore leggermente spostato. Ho imparato negli anni che se una persona ha amato nella sua vita un’altra persona e la stessa vita li ha tenuti separati, il muscolo del cuore non si trova esattamente nella sua sede naturale ma si sposta di qualche centimetro, proprio come se volesse raggiungere fisicamente l’altro cuore. È una ferita che ho imparato a leggere ma che non ho mai imparato a perdonare.
Ma questa è stata l’ultima volta, ho finito, non soffrirò più.
Ripongo il forcipe dentato, scambio un saluto da lontano con qualche collega ed esco.
Fuori c’è il sole, i miei nipotini mi stanno aspettando sul lungomare, sto bene ed ho ancora qualche anno davanti a me per capire dove va a finire l’anima. A volte credo che stia nel respiro, che l’unica gentilezza che possiamo fare per tener viva la nostra anima sia respirare. Si, a volte credo proprio che stia nel respiro, perché è l’unica cosa che in quei corpi non ho trovato più: il respiro.
Io ero contento, lei era contenta, non facevamo male a nessuno
C’è un vecchio che incrocio ogni tanto vicino a casa mia.
Venerdì scorso mi ha fermato e mi ha messo in mano una lettera scritta con mano malferma ma il cui testo è molto chiaro.
"Caro signor Paolo - il tabaccaio mi ha detto che lei si chiama così - le affido questa mia confidenza, che non è nè bella e nè brutta ma vera.
Ho ottant’anni e sono vedovo da 10. Da quando è morta mia moglie ho fatto tutto quello che ci si aspetta da una brava, sensibile persona della mia età. Ho portato i miei nipoti al parco, ho letto moltissimo, pensi che ho finito La Recherche, ho ascoltato il Requiem in Re minore K 626, mi sono iscritto ad un corso di pittura, ho fatto del volontariato, ho addirittura imparato a fare la pastiera.
Negli ultimi mesi però non avevo più nessuna voglia.
Ho continuato a fare lunghe passeggiate, a parlare con i negozianti del Borghetto ma non trovavo una ragione per alzarmi il mattino.
E’ stato a quel punto che mi sono rotto il femore.
Non ero più autosufficiente ed allora le mie figlie, che vivono a Varese e Asti, mi hanno messo in casa una badante.
Mi hanno detto che questa signora era di Sibiu, in Transilvania, in pratica era rumena.
Ioana, questo il suo nome avrà avuto una quarantina d’anni. Capelli neri, aveva un corpo robusto ma morbido, grosse tette e belle labbra coperte da un rossetto rosso. Camminava ancheggiando ed indossava dozzinali jeans strettissimi o vestiti aderenti con generose scollature (mi scusi signor Paolo se sono impreciso ma non mi intendo di vestiti).
La casa è diventata un inferno.
Fumava in continuazione e teneva la musica alta. Parlava sempre al telefono e quando non parlava stava su facebook o messaggiava. Iona non amava fare le pulizie e non era capace di cucinare per cui mangiavamo sempre