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Uomini e lupi
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Uomini e lupi

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Fantascienza - romanzo (241 pagine) - Qualcosa di terribile è successo nel mondo. E quel che ne resta soffre il giogo di una strana dittatura. FINALISTA PREMIO URANIA 2018


Solo nel suo letto d'ospedale, dove è stato ricoverato in seguito a un tentativo di omicidio, l'architetto Iago Ragnarsson trova un libro che parla di lui. Chi lo ha lasciato? Chi lo ha scritto? Ma soprattutto, come fa l'autore a conoscere tanti dettagli, del suo passato e forse del suo futuro?

In un futuro distopico in cui qualcosa di terribile è successo nel mondo, e quel poco che ne resta è sotto la ferrea dittatura del partito dei Morrigan, Iago scoprirà di essere coinvolto in una lotta in cui tutti cercano di sfruttarlo a proprio vantaggio.

Un romanzo originale, ricco di spunti di riflessione ma sorretto da una trama che cattura il lettore fino all'ultima pagina.


Andrea Cattaneo, nato nel 1979, lodigiano, è appassionato di design grafico, lingua, letteratura e cultura giapponese, innovazione tecnologia e astronautica. Ha scritto per Player Magazine, ha partecipato alla rivista online Speechless, fondato il webzine Medeaonline e collabora con Lega Nerd. Con il romanzo Loser (Linee infinite, 2016) ha vinto il Premio Lago Gerundo, mentre con Uomini e lupi (originariamente intitolato Babele) è arrivato in finale al Premio Urania. Altri racconti sono stati pubblicati in riviste e antologie da Nike, GDS, Out.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateNov 26, 2019
ISBN9788825410662
Uomini e lupi

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    Uomini e lupi - Andrea Cattaneo

    Out.

    Chiunque disprezzi la propria vita è padrone della tua.

    Seneca

    1

    I corvi si alzano in volo

    Per la cronaca, sono le sette di sera del primo settembre 2037. Non dovrei essere dove sono, ma ci sono. Lo so io e lo sa anche il capocantiere giapponese che mi precede sulla piattaforma di ferro a trenta metri da terra.

    Uno stormo di corvi appollaiati sulle travi nude sorveglia la costruzione. Tra me e il vuoto c’è solo una rete di protezione di plastica. Guardo in basso e mi vedo proiettato in un tuffo scomposto verso terra.

    L’ammetto, l’idea di morire non mi piace, non tutto in una volta sola. Quelli votati all’autodistruzione come me fanno così, si consumano in segreto un centimetro alla volta.

    Mi aggrappo al parapetto, punto i piedi, inspiro ed espiro. Il mio analista dice che inspirare ed espirare è un ottimo sistema per combattere l’ansia. Non è vero.

    Il solito dolore lancinante mi stritola il petto, di solito comincia al mattino quando mi sveglio tossendo come un tisico, poi passa quando accendo la prima sigaretta della giornata e non torna fino al giorno seguente. Il capocantiere si volta e mi guarda incuriosito.

    Il sole scende all’orizzonte. I fari ad alta potenza del cantiere si accendono di colpo. Il giapponese dilata le narici, ha il cranio rasato, ha paura proprio come me, glielo leggo negli occhi.

    Cos’è questa sensazione che provo nei suoi confronti?

    Empatia?

    Impossibile.

    La propaganda dice: noi siamo noi, loro sono loro. Nella piramide sociale loro stanno sotto e obbediscono, noi sopra e comandiamo. Dobbiamo controllarli con la violenza perché ci odiano e vi vogliono morti, la loro stessa esistenza mette a repentaglio la tua vita e quella dei norreni di Kadlin, bla, bla, bla.

    Cerco di concentrarmi sul capocantiere, ma non ci riesco. Sono in questo pasticcio a causa dell’arroganza, tra i tanti il mio peggior difetto.

    Sono le sei e mezza di sera del primo settembre 2037 e il capocantiere è in piedi davanti a me: – Architetto, ho bisogno di parlarle.

    La verità è che ho concesso troppo ai manovali e adesso, se mi vedono sul cantiere a consultare gli esecutivi sul tablet con il mio gruppo di lavoro, si permettono di rivolgermi la parola.

    La sicurezza si è lamentata, i miei collaboratori si sono lamentati. Però non ho tempo per questo genere di seccature, preferisco ignorarle, non dovrebbero riguardare un architetto.

    – L’armatura non va bene – dice il giapponese fissandomi le scarpe.

    – Devi parlarne all’ingegnere, non a me.

    – Non so spiegarlo a voce, deve vedere. È importante.

    – Ho detto che devi parlarne all’ingegnere.

    – Ho detto che è importante.

    A questo punto perdo le staffe, lo minaccio, ma lui non arretra. – Andiamo a vedere questi cazzo di ferri – sbraito e ci dirigiamo verso il montacarichi.

    Sono quasi le sette, siamo su un’impalcatura e il giapponese mi domanda: – Tutto bene?

    Un tempo gli uomini come lui erano dei in una terra dall’altra parte del mare, poi è venuta la crisi, i bombardamenti di microonde e tutto il resto. Così il giovane dio giapponese è diventato un umile capocantiere.

    Sto tremando, ho la gola secca e mi manca l’aria.

    È una crisi di panico in piena regola. Di solito durano poco, le faccio passare con gli ansiolitici, l’alcool, il fumo, qualsiasi cosa funzioni. Purtroppo però sull’impalcatura non ci sono ansiolitici, non c’è nulla ad eccezione di me e del capocantiere.

    Cosa succede se svengo?

    Guardo in basso e stringo i denti, allento il colletto rigido della camicia.

    Calma, rifletti, concentrati, controllati.

    La propaganda dice, siamo una razza superiore, niente ci deve spaventare, il mondo è nostro. Tutta roba saccheggiata ai nazisti, maestri di dittatura.

    – Architetto – dice il capocantiere. – Venga a vedere.

    Il palazzo che stiamo costruendo è edificato fino all’ottavo piano, vale a dire che il nono è solo una selva di tondini di ferro pronti per essere agganciati ai ferri del decimo.

    Raggiungo il giapponese, lui mi indica un tondino.

    – L’armatura è perfetta. Mi stai facendo perdere tempo.

    Non parla. Sposta il peso da un piede all’altro, respira con affanno, deglutisce, ha capito di essere fottuto.

    I ruoli si sono ristabiliti: io comando, lui obbedisce anche se siamo all’ottavo piano di un cantiere aperto, anche se qui non ci sono né guardie, né giudici.

    Mi sistemo gli occhiali da sole sul naso, stringo la giacca che svolazza come una bandiera. Voglio scendere, voglio fumare una sigaretta, voglio rintanarmi nello studio, voglio passare almeno una giornata senza dovermi difendere.

    Faccio un passo indietro.

    Sono le sei e trenta del mattino del primo settembre 2037, sono in bagno, mi accendo una sigaretta, faccio scorrere l’acqua calda nel lavandino e mi preparo a rasarmi. I capelli stanno diventando grigi, ho gli occhi cerchiati e la faccia piena di rughe di uno che è sul punto di tirare le cuoia.

    Quanto potrò resistere ancora?

    Infilo camicia, jodhpur grigi, stivali al ginocchio, giacca di khadi nera e la fusciacca, sono pronto per la recita quotidiana.

    Prendo il battello e salgo al secondo piano.

    Oggi è vuoto, di solito è carico di passeggeri norreni.

    Una scritta sul pavimento dice: posti per pre-naturalizzati e naturalizzati, in parole povere a negri, ebrei, terroni, scimmie gialle, minorati dalle ex colonie d’America e in generale barbari del cazzo.

    Il petto mi fa un male del diavolo e mi sento mancare la terra sotto i piedi. Non saprei dire con precisione quando tutto è cominciato, mi pare di stare male da sempre.

    Consulto uno psichiatra di nascosto perché non voglio che si sappia in giro che sono schizzato. Il mio analista sostiene che non riesco a ricordare l’inizio della mia malattia perché l’ho rimosso. Tutto qui.

    In studio, tra i colleghi architetti e i miei dipendenti, si è diffusa la diceria che sia violento. In parte dipende dalla nomea di papà, in parte da un’altra cosa.

    – Lei è alto quasi due metri e pesa… quanto? – mi ha domandato lo psichiatra durante la nostra ultima seduta. – Una novantina di chili? Reprime in continuazione la rabbia, la gente si accorge di avere davanti una bomba sul punto di esplodere. Ha sempre vissuto solo, mai avuta una relazione duratura e anche questo conta, non crede? Le piace la solitudine?

    – Non mi piace dipendere da qualcuno.

    – Chi era la persona che l’ha delusa così tanto?

    – Nessuno.

    – Di sicuro lei non trasmette l’immagine dell’uomo fragile che è in realtà. Tiene alla larga chiunque cerchi di avvicinarla, ma soffre perché nessuno l’avvicina. L’aver preso a pugni l’architetto Bankisson ha contribuito molto alla sua fama.

    – Non sono un violento.

    – È violento come tutti gli animali braccati. Ha un segreto da nascondere.

    – Senta, mi prescriva gli ansiolitici.

    – Lei sa di poter fare male, sa che, se molla il freno, potrebbe anche uccidere. Ha mai desiderato la morte di qualcuno?

    – Posso avere i miei ansiolitici?

    – Quelli fanno parte di una terapia, non sono pillole magiche che fanno sparire i problemi. Se non vuole farsi curare, la terapia non funziona. È lei che decide.

    La mia decisione è stata fargli un occhio nero, ed è per questo che il mio record d’insonnia dura ininterrotto da mesi.

    – Sono pronto – dice il giapponese e sorride come se la notizia dovesse in qualche modo farmi felice.

    – Pronto per cosa?

    Mi carica come un toro colpendomi con la testa allo stomaco, mi artiglia la giacca tirando con tutte le forze.

    Gli occhiali mi scivolano sul naso, cadono sulla piattaforma.

    Il giapponese li frantuma calpestandoli con gli scarponi.

    L’afferro per le spalle, cerco di immobilizzarlo.

    Il capocantiere gira la testa da una parte all’altra come una trivella contro il mio stomaco, ha il collo e la nuca coperti di sudore e il cranio lucido. Però, rispetto a me, è piccolo, sembra un bambino che tenta di spostare una quercia.

    – Smettila!

    Il giapponese spinge con disperazione.

    Da ragazzo giocavo a rugby, mi capitava di dover fronteggiare in mischia avversari grandi il doppio di me. La regola è semplice: se vuoi spostare quelli grossi, prima devi far perdere loro l’equilibrio.

    Lo colpisco alla schiena, un pugno, un altro, un altro ancora. Le sue ossa fanno crac. Si piega, mi colpisce al fianco.

    Non ho scelta, lo devo buttare di sotto.

    – Dobbiamo sbrigarci – dice lui.

    – Lasciami.

    Indietreggio, infilo il piede destro in una corda abbandonata, perdo l’equilibrio, cado. Finisco con la schiena contro la protezione di plastica che si deforma, non regge il mio peso più quello del giapponese. La protezione si strappa.

    Succede tutto come in un esercizio di giocolieri.

    Lui molla la presa e sparisce dal mio campo visivo.

    Io precipito sbracciandomi alla ricerca di un appiglio che non c’è. Sento un sibilo allontanarsi, penso alla corda nella quale sono inciampato e alla gola di una puleggia.

    Uno strattone arresta la mia caduta.

    Il dolore è fuori sincrono, quando arriva polverizza tutto.

    Ondeggio appeso per la gamba destra come un pendolo, vedo avvicinarsi alla mia faccia la sezione di un tondino e un istante dopo il ferro affonda nel mio occhio sinistro. L’oscillazione continua in senso opposto, il tondino esce dal cranio portandosi via l’occhio.

    Il dolore è di nuovo fuori sincrono. Esplode un’atomica nella mia testa e il fall-out sbriciola tutto interrompendo le comunicazioni. In un momento imprecisato del dopo-bomba guardo in basso e vedo il capocantiere sei piani più giù. I ferri di richiamo di un pilastro gli spuntano dal petto, sono tinti di sangue.

    Vedo gocciolare il sangue verso terra.

    Il sole tramonta all’orizzonte.

    I corvi si alzano in volo.

    2

    La pianta è la generatrice

    La faccia mi pulsa come se dovesse esplodere. Sento fitte di dolore ovunque. Sono morto?

    Riapro l’occhio che mi resta e mi ritrovo disteso su un cumulo di sabbia. Sono circondato dai muratori. Tento di alzarmi ma le gambe non rispondono, la destra è un fascio pulsante di dolore.

    In tanti anni sui cantieri non mi era mai capitato di vedere i muratori così da vicino, oggi sono tutti qui per vedermi crepare. Ci sono uomini di tutte le razze, dagli asiatici agli americani, africani e francesi, persino gli italiani e mi fissano incuriositi.

    Sento dei colpi di mitragliatore. I muratori scappano.

    – Allontanatevi – urla qualcuno, poi sento abbaiare il mitra. Riconosco il raschiare degli anfibi contro il terriccio, gli uomini della sicurezza mi raggiungono. – Architetto, si sente bene?

    Domanda stupida.

    Sento le sirene di un’idroambulanza avvicinarsi, ma non so più se sono reali o se me le sto immaginando. Non voglio più vedere nulla, lascio scivolare la palpebra sull’occhio sano.

    Mio nonno, sul letto di morte, si ostinava a dire che il tumore non l’avrebbe ucciso. Mia nonna, che lo accudiva da mesi, mi guardava e piangeva in silenzio. Mio nonno andò avanti così per un paio di settimane poi, di colpo, venne l’insufficienza respiratoria e la morte.

    – Lei ha paura di mostrare agli altri le sue emozioni – dice il mio psichiatra.

    Ha un occhio nero che gli abbellisce la faccia. Per qualche strana ragione non mi ha denunciato e continua a seguirmi.

    – Le fa male l’occhio?

    – Tantissimo – risponde ridendo. – Torniamo alla sua paura di mostrare le emozioni.

    – Senta, sono qui perché fatico a dormire.

    – Quello è un sintomo, il problema è a monte.

    – Forse non voglio risolvere il problema, voglio solo eliminare il sintomo.

    – Tipico del suo modo di pensare, ma il trauma va rimosso.

    – Quale trauma?

    – Mi dica una cosa, ha problemi di memoria?

    – No.

    – Ricorda tutto con facilità: impegni di lavoro, compleanni, libri, film, nomi delle persone che le sono state presentate?

    – A volte sì, a volte no.

    – È un po’ vaga come risposta, qual è la discriminante?

    – L’importanza, tendo a scordare le cose futili.

    – Sta selezionando i ricordi. Ha cominciato a occultare le cose anche a se stesso. Quelle futili, sono le cose più pericolose.

    – Pericolose per chi?

    Tento di aprire l’occhio buono. Per la prima volta penso all’occhio sinistro e alla cavità che lo ospitava. La ferita si sta richiudendo, è come se due placche tettoniche si saldassero in mezzo alla mia faccia. All’interno della ferita, diversi chilometri sotto la carne viva, c’è una massa carica di elettricità pulsante.

    – Volevamo ucciderla noi – dice il mio collaboratore accorso a soccorrermi. – Non è giusto.

    Con uno sforzo apro l’unico occhio che mi rimane.

    – Largo – ordina uno sconosciuto con la divisa dei paramedici. – Fate largo.

    Sono in tre, mi spostano, mi mettono sotto la schiena qualcosa di morbido pieno di microsfere che aderisce al mio corpo.

    – Uno. Due. Tre.

    I paramedici fanno scivolare sotto di me una spinale che mi stringe come una macchina di tortura medievale. L’occhio buono si richiude da solo, la mia testa rimbomba come un gong colpito da un battitore folle.

    Perdo i sensi e quando mi risveglio non so più dove sono.

    Mio dio, ho perso un occhio.

    – Le farà male – dice qualcuno.

    Ha ragione. È come se mi stesse strappando la gamba destra e la mia attenzione si sposta tutta sull’arto martoriato che pretende la secessione dal resto del corpo. Mi hanno sfilato gli stivali, sento esposta la pelle dall’inguine al collo.

    – Quanti anni ha architetto? – mi chiede una voce femminile.

    – Cosa?

    – Quanti anni ha?

    – Non lo so.

    – Come si chiama?

    – Iago.

    – Iago e poi?

    – Non lo so.

    Buio in sala.

    I paramedici si mettono a strillare ordini.

    Si riaccendono le luci.

    Sopra di me vedo gli archi a crociera e i costoloni dell’ospedale Geirhild o, come si diceva una volta, il nuovo Niguarda, siamo nei sotterranei dove finiscono le idroambulanze quando vanno al pronto soccorso.

    – Condizioni del paziente? – domanda qualcuno, ruoto l’occhio e vedo un dottore con la faccia da pesce spada.

    – Testa del femore destro fuori sede, occhio sinistro enucleato da corpo estraneo.

    – Molto bene – commenta il dottor Pescespada. – Non si preoccupi architetto. È un onore poterla curare in quest’ospedale, l’ha progettato con il compianto Bankisson, vero?

    Urlo.

    Entriamo nell’ascensore. Al quarto l’ascensore ci saluta garbata e noi schizziamo in corsia. La puzza di anestetico, urina, sangue, sudore e morte mi riempie le narici.

    I paramedici sollevano la spinale dalla lettiga e mi adagiano sul tavolo della sala operatoria, mi liberano dalle cinghie.

    – Uno. Due. Tre.

    I denti mi battono per il freddo che va e viene a ondate.

    – Adesso facciamo un’anestesia generale – dice un tizio con la mascherina sulla bocca. – Così non sentirà nulla.

    Le voci dello staff medico si allontanano, si confondono con altri rumori che fatico a distinguere.

    Sento lo sciabordare dell’acqua.

    Vedo una barca.

    Sono in piedi su una banchina e il sole al tramonto mi disturba la vista.

    Mi schermo con una mano.

    Una donna sulla barca mi fissa, è poco più di un’ombra, ha lunghi capelli neri, un vestito intero, estivo, stampato con fantasie floreali.

    Muove le labbra.

    – Non capisco.

    Aguzzo la vista e vedo un anello di luce, qualcosa di nero, il lembo di un camice forse, o una mascherina.

    La luce gira su se stessa.

    La donna sorride.

    Il serpente muove il proprio corpo immerso nell’acqua della brocca fino a formare un otto.

    Mi sveglio in un letto che non è il mio, puzza di detersivo industriale. La testa mi rimbomba come un autodromo nel bel mezzo di una corsa di camion. La mia gamba destra è immobilizzata e sono bendato. Dove c’era il mio occhio sinistro ora c’è un oggetto sferico che sembra un grosso sasso levigato. Il resto della faccia cerca, senza successo, di inglobare il sasso richiudendo la ferita.

    Mi accorgo di non essere solo, c’è qualcuno rintanato nella mia grotta senza luce, sento il suo respiro. Mi torna in mente una vecchia fotografia che Bankisson teneva nel suo studio, una nidiata di boa albini, stretti in un intrico di spire lucide, tutti presi a stritolare una capra.

    – Come si sente, architetto? – riconosco la voce, è quella del dottor Pescespada. – Abbiamo ridotto la lussazione all’anca e la testa femorale non ha subito danni, per il momento possiamo escludere il rischio di necrosi. Per sette giorni terremo la gamba in trazione, il che significa che dovrà rimanere assolutamente fermo a letto. Trazione compresa, la terremo qui da noi un mesetto, giusto in tempo per sistemare anche la vista, poi la manderemo alla riabilitazione. La sua gamba ha subito diversi traumi piuttosto gravi a livello muscolare ma, con la riabilitazione, vedrà che recupererà una buona mobilità. Per quanto riguarda l’occhio sinistro purtroppo non abbiamo potuto recuperarlo, abbiamo dovuto procedere a un’enucleazione completa e all’inserimento di un’endoprotesi. Se il ferro fosse penetrato un po’ più in profondità, ora non saremmo qui a parlare, è un uomo fortunato.

    – Immagino di dovermi accontentare di questo.

    – Deve evitare qualsiasi sforzo alla vista e quindi rimarrà bendato per quei trenta giorni di cui dicevamo, poi deciderà con un protesista oculare come procedere. Per ora pensi solo a riposare, l’ha scampata bella.

    Tento di sorridere perché, in fin dei conti, quell’uomo dal pessimo tatto mi ha salvato la pelle.

    Il fermaporta di sasso che mi hanno messo in testa al posto dell’occhio perduto, lubrificato da chissà quale disgustoso liquido, ruota di una frazione di millimetro su se stesso.

    I boa albini si stringono attorno alla capra.

    – Potrei avere una sigaretta? – domando al dottor Pescespada.

    – Penso proprio di no – dice il dottore. – L’ospedale le ha affidato un’infermiera personale, la signorina Hassel.

    – È un onore poterla assistere – dice una voce femminile, è quella del secondo boa albino. – Mi chiami Eireen.

    Eireen non usa profumi, ha un odore piacevole. Quando si avvicina per rimboccarmi le coperte è facile distinguerla dalla puzza di disinfettante che ha addosso il dottor Pescespada. Me la immagina una ragazza giovane, un cucciolo di boa albino.

    Sento versare dell’acqua in un bicchiere. Una mano piccola si posa con gentilezza dietro la mia nuca e mi solleva la testa.

    – Che diavolo sta facendo?

    Sento il bordo di vetro di un bicchiere contro il labbro inferiore e capisco. Tento di bere e tossisco tutta l’acqua.

    – Il prossimo riuscirà a berlo – dice il cucciolo di boa.

    – Bene – interviene il dottor Pescespada. – La lascio alle cure dell’infermiera Hassel. Per qualsiasi cosa mi faccia chiamare. Sono onorato di averle prestato soccorso, non avrei mai voluto avere sulla coscienza il più grande architetto di Kadlin. – Pescepada saluta e se ne va.

    – Bene – dice Eireen schiarendosi la voce. – Se ha bisogno di me sono seduta proprio qui, di fianco al suo letto.

    – Perché non va a prendersi un caffè? La chiamo se ho bisogno, non può lasciarmi solo per un po’?

    – Per ora no, vedremo quando starà meglio. Deve pensare solo a guarire.

    – Così ha trovato chi la accudisce – dice il mio psichiatra. – Ora dipende dal cucciolo di boa, un risvolto ironico, non trova? Forse, mentre noi due parliamo in questo suo sogno, il cucciolo di boa si sta stendendo accanto a lei per prenderle le misure. La Berserk vorrà sapere tutto, non potrà più nascondere il suo segreto.

    Mi sveglio di colpo.

    – Ti potrei dire un sacco di menzogne sulla tua nascita per farti credere di essere speciale – dice una voce di donna che non sentivo da anni.

    – Ailis?

    Sento distintamente il rumore di una pagina sfogliata.

    – Però – dice Ailis. – Dato che in questo libro ho deciso di raccontare solo la verità, ti dirò solo che tu nascesti all’una di notte del 25 agosto del 1993 all’ospedale cittadino. Assieme a te nacquero altri dieci bambini quella notte, di voi undici solo tu saresti sopravvissuto alla guerra di indipendenza.

    3

    Il lupo in fondo al pozzo

    Sulla panca, accanto a me, c’è un libro:

    Ti potrei dire un sacco di menzogne sulla tua nascita per farti credere di essere speciale, però, dato che ho deciso di raccontare la verità, ti dirò che nascesti all’una di notte del 25 agosto del 1993. Assieme a te nacquero altri dieci bambini, di voi undici solo tu saresti sopravvissuto alla guerra di indipendenza.

    Poso il tascabile. Mi lascio scottare la faccia dal sole.

    Tutto si è risolto senza impicci. Mi ero fatto male, è trascorso talmente tanto tempo che non ricordo più il dolore, sono guarito. Sì, ma cosa si è risolto?

    La terrazza del mio rifugio, con le sue pareti intonacate a calce, somiglia a quelle case che si trovavano sulle isole del Mediterraneo. A Kadlin non esiste niente di simile. Ho fatto bene a sbarazzarmi del mio appartamento, non avrei sopportato ancora a lungo le pareti in cemento a vista, con il passare del tempo somigliava sempre più a una camera mortuaria.

    Stiro le gambe e mi lascio solleticare dall’erba le piante dei piedi. Mi schermo gli occhi con la mano e vedo gli ulivi in grandi vasi di terracotta.

    A un paio di metri da me c’è un tavolo. Sul tavolo c’è una brocca di vetro piena d’acqua, sulla sua superficie esterna si è formata la condensa. Riempio un bicchiere, mando giù l’acqua tutta d’un sorso, ma la sete non passa. Ripeto l’operazione più volte fino a vuotare la brocca, poi torno a sedermi sulla panca.

    – Che caldo – dico tanto per spezzare il silenzio.

    Guardo la brocca ed è di nuovo piena.

    Un sibilo richiama la mia attenzione, proviene da un ulivo. Un cucciolo di boa albino si arrampica sul tronco. Sul tavolo c’è un altro boa, si sta immergendo nell’acqua della brocca. Il libro è a terra, aperto. Sul libro c’è scritto:

    Ho deciso di raccontare in questo libro solo la verità. Potrei farti credere di essere speciale, invece ti dirò solo che tu nascesti il 25 agosto del 1993, all’una di notte. Assieme a te nacquero altri undici bambini quella notte, solo tu saresti sopravvissuto alla guerra di indipendenza.

    Walter Gropius diceva, la mente è come un ombrello, funziona meglio quando è aperta.

    Mi alzo e raggiungo un balconcino con una ringhiera di ferro battuto che si affaccia su una voragine. Mi frugo nelle tasche, prendo

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