Quando eri qui con me
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Quando eri qui con me - Rocco Roberto
Venezia")
1.
Un istante, la durata di un lampo, un colpo d'occhio, un flash che illumina un corpo prima che sia fotografato, immortalato per sempre in una foto. Un secondo. Meno di un secondo.
La ragazza giaceva inerme per terra, sull'asfalto, catapultata a un paio di metri dalla coupé blu. L'auto rossa l'aveva letteralmente travolta sfrecciandole contro, senza arrestare la sua corsa impazzita, facendola roteare sulla cappotta.
Riccardo non l'aveva più vista di colpo: il suo corpo esile e slanciato era letteralmente volato in aria, come un manichino, come in una scena lontana dalla realtà, all'ordine del giorno dei film d'azione. Incredulo, tremante, corse fuori dall'auto. Corse verso quel corpo inerte sul ciglio della strada.
Era girata su un fianco, i capelli dorati sparpagliati sul viso. Rivoli di sangue serpeggiavano sul volto colando lungo le tempie, a linee frastagliate. Quasi in posizione fetale, le braccia in avanti, le dita semichiuse, come serrate nel tentativo di volersi aggrappare a qualcosa. Solo una zeppa restava calzata al piede destro. L’altro versava scomposto, nudo, sull'asfalto rovente.
Riccardo estrasse di colpo il cellulare dal taschino della polo. Tremante, fece scivolare il pollice sulla tastiera. Ansimava. Balbettò al centralino del 118 che c'era stato un incidente, una ragazza investita, nei pressi degli uffici postali. Ricacciò l'apparecchio nel taschino e si inginocchiò sul corpo inerme.
La sdraiò delicatamente sulla schiena. Le sollevò con delicatezza il capo, proteggendolo dalla durezza e dal calore dell'asfalto con la sua mano. Le liberò il volto dai ciuffi insanguinati. Prese a tremare più forte, davanti a quegli occhi chiusi, lo zigomo destro illividito, le esili labbra socchiuse.
Ludo! Ludo! –
In preda al panico urlava il suo nome, come se lei fosse a qualche isolato di là, come se fosse salita su un treno ormai in partenza che lui non riusciva a raggiungere. Come se la stesse incitando ad affacciarsi, a guardarlo una volta ancora.
Ludo svegliati ti prego, Ludo, no... Ludo! –
Riccardo piangeva, singhiozzava come un bambino sperduto, le labbra contratte, tremanti, strette in una smorfia di dolore. A tratti sollevava lo sguardo, impaziente di veder sfrecciare l'ambulanza, la cui sirena già sentiva in lontananza.
Con un sussulto Ludovica riguadagnò il suo sguardo. Come in un brivido il suo corpo indifeso fu scosso tra le sue braccia forti, così rassicuranti.
Apri gli occhi ti prego! –
Le palpebre della ragazza cominciarono a tremare, a sbattere ripetutamente. Si spalancarono di colpo, scoprendo due iridi verde smeraldo, colme di lacrime. Riccardo le sorrise carezzandole il volto. Lei richiuse le palpebre un istante, poi tornò a fissare gli occhi azzurri di lui che lasciavano trapelare gran preoccupazione.
Un traffico di emozioni in realtà affollava la mente dell’uomo. Si chiedeva in primis come era potuto succedere tutto ciò, da dove era sbucata fuori quella vettura, cosa stava accadendo a Ludovica ma soprattutto non poteva fare a meno di pensare a come erano potuti arrivare a quel punto. Soprattutto, iniziava a farsi spazio, nella sua mente, l'ipotesi che, forse, era lui il responsabile di tutto quello.
Ti...ho... ti ho ama... –
Le parole della ragazza, balbettate, strozzate in gola, lo distolsero da quei pensieri.
Sttt... – la interruppe Riccardo, piangendo, serrandole le labbra con l’indice – non fare sforzi, lo so, lo so che mi ami, lo sai che ti amo... –
Devi... vai! –
No! Tu sei pazza, non ti lascio qui da sola, non ti lascio... – la interruppe ansimante.
La ragazza insistette, a fil di voce.
Sta calma, l’ambulanza arriva, sta calma... –
Gli occhi della ragazza liberavano lacrime amare, perché sentiva a ogni istante le sue forze abbandonarla. Le sue labbra, tuttavia, si andavano distendendo in un tenue sorriso.
Non c'è...tempo... più... – sussurrò sollevando la mano vacillante per raggiungere la guancia di Riccardo e accarezzarla. – Grazie… –
La mano di Ludovica ricadde pesantemente sul suo corpo. Si abbandonò definitivamente tra le braccia di lui, esalando, con quel grazie sussurrato, un ultimo respiro, impercettibile, inclinando il viso leggermente, quasi a voler cercare una carezza, l'ultima, di quella mano che le accarezzava il capo. Tra le braccia dell’uomo che amava era ormai un corpo vuoto, senz’anima.
Prese a singhiozzare più forte Riccardo. Si accasciò su quel corpo morto. Lo strinse, ne sentì tutto il calore che pian piano si dileguava.
Pianse. Un pianto disperato, rauco, spezzato a tratti da respiri affannosi, accompagnato dall'urlo della sirena che si faceva sempre più forte.
Si staccò da Ludovica solo quando l’ambulanza sopraggiunse. Scivolò sull’asfalto indietreggiando. Sedette a pochi metri di distanza. Se ne stava lì intontito, mentre le praticavano l'ultimo disperato tentativo di rianimarla con un massaggio cardiaco.
Niente più lacrime. Solo un volto luttuoso, incredulo, pallido. Bianco come il lenzuolo che vide gettare sul corpo di Ludovica.
Cos’è successo? E' lei che ha chiamato? – gli domandò un'infermiera.
Era come se la donna stesse parlando da sola. Riccardo teneva gli occhi fissi sul lenzuolo bianco, spalancati. Rivide quel volto sofferente, insanguinato. Quelle parole gli risuonavano ancora nella testa: ...vai...non c'è tempo...
. Persino in procinto di salutarlo per sempre aveva desiderato che la lasciasse a morire da sola, lì sull'asfalto, piuttosto che compromettersi.
Sì, ero io...ero io... – riconobbe con voce affranta, quasi come ridestandosi.
Cos’è successo? Era qui quando è avvenuto l'incidente? Ci sono segni di frenate sull'asfalto, ha assistito all'accaduto? – ribatté la donna.
Ero...sì, qui...ero qui... quella… la mia auto... ero in sosta perché... – "perdonami amore mio", si disse fra sé – ...sentivo qualcosa di strano… nel motore...un rumore... –
E quindi era qui prima che la ragazza fosse investita? – incalzò lei.
Mmm... sì, sì... ero fermo… mettevo in moto... poi... l'auto, un pirata... perché l'ha catapultata per aria… ha continuato a correre come un pazzo... la conosco... –
Conosce la ragazza? –
Sì! La figlia di un collega... Martinelli... Ludovica Martinelli. –
Fece un lungo respiro.
Dobbiamo chiamare qualcuno, un parente. Abbiamo già provveduto a chiamare un'agenzia di pompe funebri ma è bene che qualche familiare sopravvenga qui sul luogo. Ha per caso un contatto? –
Sì, ma... forse, preferisco farlo io... faccio io! –
Tremava. Smanettò sulla tastiera del telefono con uno sguardo a dir poco afflitto. Lo teneva all'orecchio senza riuscire ad arrestare il tremolio, mentre si asciugava gli occhi con la mano libera. Respirava a fondo.
Si chiedeva perché toccasse a lui quel crudele ruolo. Trovò risposta nella sua coscienza. Forse una punizione divina o semplicemente il fato, il destino che gli si ritorceva contro per quello che aveva vissuto di più tenero e importante con la figlia dell’uomo che stava chiamando.
Pronto? – esordì dall'altro capo del telefono Leonardo Martinelli.
Leo? –
Riccardo respirava profondamente per mantenere il controllo delle sue emozioni.
Sì? Chi è scusi? – domandò l'uomo.
Sono Riccardo, Leo... ascolta... –
Riccardo? No, dai non mi dire che hanno chiamato dalla fabbrica? Non mi riducono mica le ferie eh? Me ne sbatto della produzione e della loro presunzione nel manipolarci come marionette e... –
No! Leo, non c'entra il lavoro, ascoltami... – cercava le parole giuste ma invano. Poi, risoluto, scoppiò: – Leo devi raggiungermi, non molto distante da casa tua, vicino gli uffici postali, Ludovica... –
Pausa ingombrante.
C’è stato un incidente! –
Cosa? Ch’è successo? Che s’è fatta? Sta bene? Chi è stato? – era un vortice di interrogativi sovrapposti.
... tranquillo, tranquillo... – mentì a malincuore, – dai vieni... sono qui... –
Leo riattaccò senza un cenno di assenso.
A distanza di cinque miseri minuti Riccardo riconobbe la sua figura slanciata: procedeva ansimante in direzione dell'ambulanza. Si alzò dall’asfalto e gli corse incontro non appena si accorse che l'uomo aveva preso a correre avendo scorto, forse, il lenzuolo bianco, rigonfio sull'asfalto. Lo fermò, con difficoltà, ma lo fermò, circondandolo con entrambe le braccia. Leo gridava, si dimenava in quella presa stretta come una bestia agonizzante, ferita a morte, desideroso soltanto di sapere che il cadavere che giaceva sotto quel drappo non avesse un volto a lui noto.
Mi dispiace! – gridò piangendo il collega.
No, non è possibile! –
Leo si agitava, scuotendo il capo, cercando di svincolarsi dalla presa di Riccardo. Questi lo lasciò andare seguendolo e sorreggendolo.
Insieme si avvicinarono al cadavere di Ludovica, circondati da una coppia di carabinieri e da un paramedico. Accasciandosi sulle ginocchia, Leonardo sollevò energicamente il lenzuolo, come se fosse stato per davvero convinto di vivere un incubo, desideroso che il momento in cui avrebbe svelato quel corpo avrebbe coinciso con la fine del sogno, con il momento stesso in cui si sarebbe alzato di scatto dal letto, nel bel mezzo della notte, madido di sudore, per scoprire che tutto era stato solo un brutto scherzo del suo inconscio. Proprio il suo inconscio scatenò il grido disperato e roco che elevò nell'aria torbida di un afoso ferragosto.
2.
In auto l’aria era ancora pregna dell'odore fresco che Ludovica si portava dietro, quel suo profumo alla vaniglia che lo faceva impazzire e che al contempo costituiva spesso motivo di una dura diatriba tra loro.
Restò ancora qualche minuto nell’abitacolo, prima di rientrare. Rilassò le spalle abbandonandosi sullo schienale del sedile. Fissava il cielo. Ne contemplava le soffici nubi bianche, informi, che macchiavano la distesa celeste. Chiuse gli occhi un istante. Sospirò.
Sentì ancora le labbra della ragazza strette in quel bacio tenero ma deciso. Sentì ancora la sua guancia liscia distendersi sotto l’influsso della sua carezza. Sentì ancora il suo profumo invaderlo mentre usciva dall’auto con quei suoi grandi occhiali da sole da signora, quelli per i quali la prendeva in giro, accusandola bonariamente di aver scelto un simile modello per elevare la sua età apparente e ridurre così il divario generazionale. Sentì ancora il tonfo della carrozzeria contro il suo corpo fragile.
Riprese a piangere. Amava quella ragazza. Quanto era stata intenso il loro amore in quei dieci mesi!
Si sentiva pronto a tornare indietro, se avesse potuto, a rinunciare a tutto quello che li aveva uniti, pur di evitare che quel destino infausto si compisse.
Piangeva ancora, amaramente, la testa faccia a faccia al volante, la fronte contro gli avambracci incrociati, avvilito dal pensiero che non l'avrebbe più rivista sorridere, di quel sorriso delicato, ma caldo e coinvolgente. Piangeva al pensiero che non avrebbe più goduto della sua compagnia terapeutica, seppur concentrata in brevi lassi di tempo, quelli che poteva concederle. Pianse sentendosi colpevole di un crimine che in realtà non aveva commesso.
Quando si fu ricomposto lasciò l'abitacolo. Il cellulare squillò. Un’occhiata fugace allo schermo. Rifiutò la chiamata. Recuperò fiato. Varcò il cancelletto che dava nel portico della palazzina. Salì a piedi, raggiungendo il suo appartamento. Inserì la chiave nella serratura. Girò.
Insomma! Si può sapere dov'eri finito? –
La voce di una donna lo raggiunse fino alla soglia, sicura, intensa, calda. Non era ancora entrato nell'appartamento.
Ti stavo appunto chiamando, mi hai persino rifiutato la chiamata! –
Riccardo entrò in salotto. L’occhio cadde sul tavolinetto al centro della stanza, su una foto. Lui e sua moglie il giorno del loro matrimonio, diciassette anni prima.
Passeggiò nervosamente tra i due divanetti e il tavolino. Rischiò di travolgerlo. Respirava profondamente, senza smettere di procedere a passi imprecisi, finché si ritrovò faccia a faccia con sua moglie, in una gigantografia di una loro foto. La famiglia intera a un matrimonio, in una cornice di legno massiccio, antico. Lui e sua moglie al centro. Ai loro lati rispettivamente Cristina, primogenita sedicenne, e Luca, dodici anni e un vasto curriculum da combina guai.
Come se avesse preso uno schiaffo in pieno volto, riprese a camminare, spostandosi verso il camino, passando in rassegna, sulla mensola, la sfilza di fatine, gnomi ed elfi che sua moglie collezionava. Fu quasi sul punto di incamminarsi per la scala a chiocciola a un angolo della stanza, per rifugiarsi nella zona notte.
Dal corridoio stretto che portava alla sala da pranzo, la voce che lo aveva accolto tornò a tuonare. Continuava imperterrita a riprodursi, in un monologo senza risposta.
Riccardo raggiunse il divanetto di fronte al camino. Sedette stancamente.
Oh, ma mi senti? Ti ha dato di volta il cervello? –
Carla fece la sua comparsa, raggiungendolo dallo stretto corridoio, nel suo grembiule da casalinga improvvisata, con su stampate una miriade di fragoline rosse. Impugnava minacciosa un forchettone da cucina e lo squadrava con occhio inquisitorio dall'alto del suo metro e settanta. I capelli ricci, neri come petrolio, erano arroccati sulla nuca, stretti da una pinza. Gli occhi neri e intensi contrastavano con le labbra rosee ben pronunciate. Aveva da poco aggiunto un anno ai suoi primi anta
e conservava ancora molta eleganza nei modi e nell'abbigliamento.
Ferma all'angolo del corridoio osservava suo marito. Sul viso dell’uomo un'espressione che gli aveva visto in volto solo quando lei aveva avuto un aborto, durante la prima gravidanza, in seguito a un incidente in auto causato da un suo colpo di sonno. Si era creato mille sensi di colpa, addossandosi la responsabilità della spiacevole conseguenza. Ne era uscito poco a poco. Solo allora Carla capì che qualcosa lo turbava.
E' successo qualcosa per caso? – chiese un'ultima volta, scocciata.
Riccardo le rivolse uno sguardo fugace. Capì che doveva trovare la forza per mettere da parte il dolore che lo infuocava dentro.
Carla... è assurdo... una disgrazia, Leo, sua figlia, è... –
Sospirò e rifletté qualche secondo prima di pronunciare il termine esatto.
– É morta! –
É morta? Oh mio Dio, com'è successo? Così giovane... –
Anche Carla restò scossa dalla notizia.
Investita... io... io c'ero, ero lì e... oh... avresti dovuto... vedere, cavolo, è schizzata su, in aria... – gli sfuggì un brivido e una lacrima.
Carla lo raggiunse, sedendosi di fianco a lui. Lo abbracciò, gli carezzò il volto. Ascoltò, con la fronte aggrottata e le ciglia inarcate dall'incredulità, la testimonianza di suo marito, in parte vera, in parte alterata: aveva accompagnato i ragazzi dai nonni, poi un giro in centro con Adriano, un passaggio a quest'ultimo, verso casa di amici, nelle vicinanze del luogo dell'incidente, poi il rumore strano all'auto e di là l'incidente.
Carla si immaginò al suo posto. Capì lo stato di turbamento in cui versava. Per una volta non se la sentì di pretendere nulla da lui, che la riempisse di complimenti sulle prelibatezze preparate, che le dedicasse tutto il pomeriggio di quel ferragosto per una volta soli, senza il lavoro, senza i figli di torno, che di loro volontà si erano dileguati raggiungendo i nonni in campagna. Lo condusse per la scala a chiocciola tirandolo per una mano con aria greve. In camera lo persuase a spogliarsi, aiutandolo a indossare dei pantaloncini di cotone. Lo mise a letto e lo esortò a riposarsi un po', provando a liberare la mente dalle scorie di ciò che aveva vissuto. Gli promise che una volta sveglio gli avrebbe servito il pranzo e lo avrebbe accompagnato a far visita a Leo per dare un ultimo saluto a quella ragazza prematuramente scomparsa.
Riccardo era ancora sotto shock. Non oppose resistenza: si lasciò rimboccare la coperta di cotone bianco sul dorso e richiuse stancamente le palpebre sui suoi occhi. Sentì le labbra calde di sua moglie stringersi sulla sua fronte. Si abbandonò a quello stato di spossatezza che aveva cominciato a costruire dimora nel suo animo dal momento in cui quel corpo delicato che aveva stretto con così tanto amore, così tanto trasporto tra le sue braccia, era stato letteralmente travolto, scaraventato per aria, davanti ai suoi occhi, davanti a lui così inabile, così incapace di fermare quell'incubo, di tirarcela fuori. Lui così vittima, assieme a lei, di un infausto destino.
3.
Carla attese ancora qualche istante. Era in quello sgabuzzino, nell'atrio che dava nella scalinata dell'appartamento. Origliava già da un'ora.
Quando li vide arrivare, mano nella mano, incamminarsi furtivi per le scale, era già fuori di sé. Non poteva più indugiare: o allora o mai più.
Sbucò fuori. Salì le scale cercando di recuperare fiato, di calmarsi. Era spossata, stremata dall'idea che quel corpo, quelle labbra, quell'uomo, che reputava suo, fossero adesso di un'altra. Come una ladra, aprì furtivamente la porta del suo appartamento. La richiuse piano. Appena fu dentro scorse una scarpa, una décolleté nera, lucida, rovesciata nel salotto, ai piedi della scala a chiocciola che conduceva alle stanze. Pianse. Carla pianse ricacciando i singhiozzi in gola, per non farsi sentire. Non avrebbero mai potuto sentirla. Piuttosto era Carla che non poteva non sentire loro. Ne percepiva i sospiri, i gemiti di piacere, provenienti dalla sua stanza da letto.
"No, il mio letto! No..."
Quanta rabbia le faceva saperli nel suo letto, quello in cui aveva concepito i suoi due bambini, quello in cui qualche ora prima lei stessa dormiva accanto a lui.
"Ora!"
Era fuori di sé. Andò in cucina, aprì il cassetto sotto il lavello, estrasse decisa un grosso coltello, quello con cui Riccardo spesso l'aiutava ad affettare il pane, lama larga. Si sfilò le scarpe per non far rumore, tacco basso, largo. Le posò furtivamente sotto il tavolo di vetro. Si portò in punta di piedi per la scala. Attraversò il corridoio, schiena al muro. Scivolò fino alla porta della sua stanza, della loro stanza. Era aperta. Non un attimo di più.
Riccardo era supino sul letto, nudo, la schiena leggermente sollevata. La ragazza era su di lui, cavalcioni. Spesso si incrinava sul petto dell’uomo, lo baciava, mentre lui le accarezzava i capelli biondi.
Un urlo, acuto, matto, isterico, lungo. Un'incitazione bellica all'assalto. Carla si scaraventò contro di lei. La afferrò per le braccia. La spinse verso un lato della stanza, dove la testa bionda della ragazza incontrò fatalmente lo spigolo dell'armadio d'ebano.
La ragazza giaceva inerme sul pavimento. Riccardo era ammutolito. Non era riuscito a far nulla se non starsene con le labbra spalancate dall'incredulità, dallo stupore, dalla paura, sorretto indietro sui gomiti, sugli avambracci distesi sul materasso. Non era riuscito a trattenere il corpo di quella ragazza innocente tra le sue braccia. Era rimasto immobile mentre sua moglie gli montava su stringendo le gambe contro i suoi fianchi.
Bastardo! – urlò Carla ormai senza lacrime.
I suoi occhi erano arrossati, incerchiati dall'ira.
Chi è quella puttana? Chi è? Chi cazzo è? – urlava inferocita mentre lo minacciava col coltello puntato al petto.
Riccardo prese fiato. Sbatté le palpebre più volte, di seguito. Balbettò qualcosa.
Cc... Carla... posa... posa quel... posa qu... –
Chi cazzo è? Da quanto? Eh? Da quanto è che te la scopi, eh? – lo interruppe.
Da... dd... da poco... da un po'... –
Da un po' quanto? Dimmelo! - urlò, avvicinandogli la punta gelida della lama alla gola.
No! Aspetta... aspetta... da un po', da un po'... –
Era un disco rotto ormai. Non riusciva a dire altro. Come spiegarle che era ormai da dieci mesi che vedeva Ludovica, che la amava?
... da alcuni mesi! –
Le sue parole caddero come un macigno addosso a Carla. Mesi.
Quanti!?! –
… –
Quanti cazzo!?! – coltello sempre più vicino alla gola.
Riccardo tirò un lungo sospiro.
Sei! – irruppe mentendo, senza più esitazione. – Sei mesi, cazzo, sei! –
Maledetto! – e impugnò il coltello con più decisione, portandolo in aria in un secondo.
Ti prego non farlo! –
Carla aveva già la mano con cui impugnava l'arma-stoviglia pregna di sangue. Zampillava da ogni parte. Riccardo non sentiva dolore. Sua moglie si era autoinflitta, affondando il coltello nel suo ventre. Ripiegò la testa di ricci neri in avanti. Rilasciò dalla bocca dei grumi di sangue che raggiunsero il petto già imporporato di Riccardo.
Cacciò un no
disperato, in lacrime, con cui si sollevò dal letto madido di sudore, spalancando gli occhi, per rendersi conto, nel giro di pochi secondi, che era stato solo un incubo.
Ricadde coi gomiti e gli avambracci sul materasso, proprio come si era visto poco prima. Realizzò che era stato tutto un sogno a partire dal momento in cui sua moglie aveva forse sospettato che lui la tradisse e si era quindi appostata nell'atrio. Tuttavia, quello che, ricordava, precedeva tutto ciò, restava parte della dura realtà. Quel corpo esile e slanciato roteante per aria non era stato frutto di una proiezione onirica del suo inconscio.
Abbandonò la testa sul cuscino intriso di sudore. I suoi capelli neri erano umidicci. Portò