Ladro di mutande
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Ladro di mutande - Michele Sarrica
Self-Publishing
NOTA DELL’AUTORE
Anni Sessanta, gli anni del boom, del miracolo economico. A Palermo, nei paesi della provincia, in Sicilia, come in tutta la penisola, si costruiva, abusivamente. Chi possedeva un pezzetto di terreno, innalzava templi nel deserto, casermoni che nulla avevano a che spartire con delle comuni e civili abitazioni e il tutto avveniva abusivamente. A questi neo-costruttori si aggiunse anche il protagonista del racconto. Possedeva un fazzoletto
di terra vicino al mare, dove la famigliola andava per la Pasquetta e per qualche altra festa comandata, tanto per poter dire di aver trascorso delle giornate all’aria aperta, nella loro proprietà. La più grande delle tre figlie frequentava l’università. Le altre due erano ancora delle liceali.
Il padre e la madre si erano sposati un po’ avanti negli anni a causa della guerra. Lui, fresco fidanzato, era rimasto al fronte per più di tre anni. Dopo essere scampato ai russi, ai greci, ai somali e alla reazione dei tedeschi, proprio a causa della liberazione venne fatto prigioniero dagli anglo-americani. Inevitabilmente, subì tutte le contraddizioni e le angherie che una guerra si porta dietro come inevitabile fardello. Dopo i tre anni al fronte, trascorse circa un anno nei loro campi di concentramento degli Alleati, senza far nulla. Vitto e alloggio totalmente a carico dei vincitori. Un premio al suo attaccamento alla vita e ai valori in cui credeva con assoluta cecità: obbedienza, sacrificio, fratellanza, amore per la patria. Ma questa è un’altra storia più pietosa.
La famiglia fin da quando si era costituita abitava in paese, nella vecchia casa della nonna materna. Due stanzette, una cucina-soggiorno con piccolo balconcino dove si trascorreva buona parte delle serate estive. La causa principale di quella decisione di costruirsi una casa in campagna scaturì proprio dalle difficoltà oggettive di vivere in quell’angusto spazio. La mancanza di un pur minimo di privacy rinfocolava il suo unico e grande desiderio di possedere una casa tutta sua, spaziosa, luminosa, circondata dal verde. Per realizzare tale progetto avrebbe fatto di tutto. Il suo desiderio si era trasformato in sogno e il suo sogno in costante persecuzione. Non appena riuscì a mettere da parte una minima somma rispetto ai diversi preventivi ottenuti per costruire una casa, chiamò il suo giovane figlioccio, un manovale che si autodefiniva muratore, e gli diede l’incarico di costruire la sua casa. Non appena vennero innalzate le colonne di cemento e chiuse le pareti, l’uomo decise che finalmente era arrivato il momento di traslocare.
La nuova abitazione, che con spocchioso orgoglio lui chiamava villa
, in quanto circondata da campagna e da terreno incolto, era situata all’estremità del paese. Le vie di comunicazione erano dei viottoli, polverosi in estate e fan-gosi in inverno. Da noi si chiamano trazzere
, buone per transitare muli e pecore. Malgrado l’evidente precarietà, nessuno ebbe il coraggio di contraddire la sua decisione anche perché tutti erano coscienti del fatto che nessuno avrebbe potuto fargli cambiare idea. Nemmeno la moglie, l’unica persona al mondo che poteva permettersi il lusso di contraddirlo, riuscì, con i giusti modi e nei momenti più indicati, a fargli intendere l’impossibilità oggettiva di vivere in quel mostro di cemento non ancora degno di chiamarsi casa. La famiglia si trasferì nella nuova residenza di campagna e così ebbe inizio la loro vita agreste.
Vivere all’aperto, inizialmente, piacque un po’ a tutti, almeno di giorno, quando splendeva il sole e la natura mostrava il suo volto migliore: piante, fiori, profumi di zagara e di terra. Ma di notte, quando anche i colori diventavano ombre nere e i rami somigliavano a scheletriche braccia di mostri, ogni piccolo rumore sembrava uno strano scricchiolio provocato dal passo felpato di fantasmi cattivi o da gentaglia pericolosa e malintenzionata. Ciò che di giorno suscitava buonumore, la notte diventava il loro peggior nemico: un incubo! Ma il vero incubo iniziò quando dal filo di ferro, dove la madre sciorinava la biancheria, cominciarono a sparire delle mutandine. Erano tre giovanissime sorelle e di quella biancheria intima non ne mancava mai in quel filo teso tra il ramo del gelso e un cavicchio piantato sul muro della casa. Le ragazze notarono che a sparire erano sempre le loro mutandine, mai che da quel filo mancassero le mutande extra large della madre o i mutandoni del padre. Iniziò, così, la caccia al maniaco. La paura aumentò e la loro vita in campagna divenne insopportabile. Non vi anticipo più nulla. Sono convinto che il finale vi sorprenderà, come ha sorpreso i protagonisti e il narratore. Buona lettura!
Se quanto sto per raccontare non brillasse di una sua poeticità, connaturata alla vicenda realmente accaduta, e l’episodio, minimo ma inconsueto dramma familiare, non avesse pungolato e stimolato i miei sensori scribacchini, nessuno ti avrebbe mai parlato del mistero delle mutande scomparse o, per l’esattezza, rubate. Anche questo vissuto, come la maggior parte del vissuto umano, sarebbe rimasto un