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Robot 88
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Robot 88

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rivista (235 pagine) - Racconti di Zen Cho - Fumio Takano - Franco Ricciardiello - Dario Tonani - Lanfranco Fabriani - Simonetta Olivo - Lorenzo Crescentini - Intervista con Galen Dara - Articoli su Nuove tendenze - Vonda McIntyre - Good Omens - Guido Morselli - Luigi Naviglio


Secondo gli osservatori più attenti la fantascienza del futuro non verrà (o non verrà solo) dall’Occidente ma anche e forse soprattutto dall’Oriente. Alcuni paesi come la Cina addirittura investono nella fantascienza, la promuovono, la insegnano nelle scuole. Su Robot abbiamo avuto diversi autori cinesi o cino-americani, questa volta un’autrice giapponese e una malese (che vive a Londra) con due splendidi esempi di come si possa combinare il fantastico tradizionale orientale con la fantascienza più pura. Fumio Takano racconta una storia di esperimenti di fisica nucleare e Zen Cho propone un racconto (premio Hugo) che parla di creature davvero aliene.

Tornando in Italia abbiamo una parata di grandissimi autori italiani: Dario Tonani col suo Mondo9, Franco Ricciardiello, Lanfranco Fabriani (sì, con il suo UCCI) e due tra le più promettenti nuove voci che stanno dando vita alla nuova età d’oro del fantastico italiano. Poi parliamo di nuove tendenze con Sandro Pergameno, di una grande autrice poco valorizzata con Salvatore Proietti, di una colonna del fantastico italiano con Gianfranco de Turris, di Good Omens e intervistiamo una grande artista: Galen Dara.


Fondata da Vittorio Curtoni, Robot è una delle riviste di fantascienza italiane più rpestigiose, vincitrice di un premio Europa e numerosi premi Italia. Dal 2011 è curata da Silvio Sosio.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateNov 19, 2019
ISBN9788825410631
Robot 88

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    Book preview

    Robot 88 - Silvio Sosio

    Stop

    EDITORIALE

    Iperpessimismo

    Silvio Sosio

    Adesso ditemi. In poche ore in questi giorni mi sono capitate sotto gli occhi notizie come: estremisti di destra arrestati a Siena, avevano una raccolta di armi da fuoco e da guerra, compresi esplosivi, cimeli fascisti e simboli nazisti: progettavano un attentato; in Polonia, il paese dove si trova Auschwitz, corteo neonazista con decine di migliaia di persone; in Spagna, dove non è passato neanche mezzo secolo dalla fine della dittatura, i neofranchisti prendono il 15% di voti.

    Il mondo sembra indirizzato verso una china spaventosa dal punto di vista politico. Quali che siano le cause – le sovvenzioni dei russi, l’era dei social, il redde rationem di un capitalismo senza freni che ha generato abissi incolmabili tra ricchi e poveri – la tendenza sembra globale. Inarrestabile? Forse no. Ma sconforta l’idea che il fascismo sembrava sconfitto, sembrava relegato a un’era di orrori alla quale nessuno avrebbe voluto tornare. E invece ci si torna.

    Oggi Venezia è allagata. Leggo che San Marco si è allagata sei volte nei suoi milleduecento anni di storia, quindi nulla di nuovo. Solo che tre di queste sei volte sono accadute negli ultimi vent’anni. Ci sono uragani che girano sul Mediterraneo, ghiacciai che si sciolgono a vista d’occhio, oceani sempre più acidi, foreste sempre più piccole.

    Il mondo sembra indirizzato verso un disastro ambientale senza precedenti. E probabilmente, almeno per la specie umana, senza seguenti, visto che potrebbe non esserci più. La coscienza di questo pericolo è sempre più presente nell’opinione pubblica, molti cercano di fare qualcosa, nel loro piccolo quotidiano o con grandi movimenti d’opinione. Sconforta l’idea che le poche, gravemente insufficienti cose che erano state fatte siano state annullate dai cambiamenti politici. Sconforta che dopo mesi che si è parlato ovunque dei pericoli della plastica per l’ambiente ci sia una rivolta popolare contro una tassa che potrebbe fare qualcosa di utile al riguardo. Tutti elementi che concorrono a creare l’idea di una palla gigantesca che rotola, spinta da un’inerzia invincibile, contro la quale nessuno può opporre una vera resistenza.

    Qualche giorno fa è girata la notizia secondo cui Google avrebbe fatto funzionare il primo vero computer quantistico. Capace di svolgere in pochi minuti calcoli che ai più veloci computer tradizionali avrebbero richiesto migliaia di anni. La domanda che gli è stata rivolta non è stata esiste Dio? come nel celebre racconto di Fredric Brown, ma più banalmente di calcolare alcuni numeri casuali. Sono stati avanzati dubbi sull’importanza del risultato, ma la tendenza è chiara: stiamo andando verso la singolarità tecnologica. Oggi dobbiamo ripetere tre volte i comandi vocali a Google perché non li capisce, domani sarà Google a ripetere i comandi a noi. Sembra fantascienza? Certo. Rimarrà tale? Non contateci. Peraltro, sempre notizie di questi giorni: l’algoritmo che decide l’affidabilità dei clienti della carta di credito Apple (gestita da Goldman Sachs) stabilisce che le donne hanno diritto a meno credito. E l’algoritmo dell’Agenzia delle Entrate vi penalizza se la vostra attività sta andando male, considerandovi sospetto. Visto? L’intelligenza artificiale ci sta già fregando, e non è neanche ancora davvero intelligente.

    L’anno prossimo sarà l’ultimo anno in cui la popolazione europea aumenterà leggermente. Da lì in poi sarà in discesa, come è già in alcuni paesi come l’Italia. La popolazione dell’Africa è passata negli ultimi cinquant’anni dalla metà di quella europea a quasi il doppio. Il PIL dell’Europa è circa il 20% del prodotto lordo mondiale, quello dell’Africa l’1,5%. Se continua questa tendenza, il fatto che oggi chiamiamo la situazione attuale emergenza immigrazione tra qualche anno sarà considerata una barzelletta.

    Potrei andare avanti per pagine e pagine con altri temi. Sono pessimista: se siete lettori abituali di questa rivista e avete letto un po’ di miei editoriali la cosa non dovrebbe cogliervi di sorpresa. Quando qualche mio amico ha un’idea brillante spesso chiede a me che ne penso: se non riesco a trovare io il motivo per cui si rivelerà un disastro probabilmente sarà un successo.

    A ottobre a Stranimondi ho organizzato un panel con alcune persone che ritenevo potessero avere idee interessanti al riguardo (e hanno superato le mie aspettative) sul tema il futuro dell’Italia, anche se poi la discussione ha finito per parlare più di temi globali. La discussione è stata interessantissima e sono venuti fuori tanti bei motivi per cui augurarsi che il famoso asteroide ci risparmi almeno la sofferenza. Tuttavia parte dei miei panelist, pur condividendo le mie preoccupazioni, tendevano a pensare che comunque in qualche modo ce la caveremo.

    Ho il massimo rispetto delle loro opinioni, e anzi mi auguro che abbiano ragione loro. Che per ogni problema ci sia una soluzione è un modo di pensare molto diffuso, soprattutto in Italia dove siamo abituati a cavarcela per il rotto della cuffia, anche se per certi versi mi ricordano la barzelletta del tizio che si è buttato dalla finestra e ogni dieci piani dice ok, fin qui tutto bene, dai.

    C’è per esempio chi dice il pianeta è sopravvissuto a crisi ambientali ben peggiori di questa. Ah, grazie. Sono sicuro che c’è pieno di tirannosauri pronti a rassicurarci. Leggevo giusto l’altro giorno un articolo che diceva che la fine dell’Impero romano non è stata poi un dramma. Ah, certo. La popolazione dell’Europa è crollata del 60%: milioni di persone sono morte in guerre o di fame a causa del collasso dell’economia ma, ehi, ci sono stati dei poeti mica male.

    Insomma, durante quel panel a Stranimondi ho lanciato ufficialmente il mio nuovo personalissimo movimento d’opinione: l’iperpessimismo.

    Cosa si propone questo movimento?

    Nulla.

    Nulla, perché se si proponesse qualcosa vorrebbe dire che è possibile fare qualcosa. Spesso butto lì come battuta l’idea di lasciar perdere di spendere tutti questi soldi per misure contro il climate change e investire piuttosto nella ricerca sui motori capaci di viaggiare più veloci della luce, perché ormai il pianeta è perduto e ci conviene trovarne un altro. È una battuta perché per varie ragioni non è probabile né forse possibile trovarne un altro che sia abitabile come la Terra. E in ogni caso non sarà mai probabile né possibile che si possa trasferire l’intera specie umana.

    Qualche volta mi viene il sospetto che dietro alle scelte di chi, come Donald Trump, si oppone alle politiche a favore dell’ambiente e contro l’inquinamento non ci sia semplice miopia, egoismo, inettitudine e incapacità di guardare oltre il proprio naso e il proprio presente, ma seri studi scientifici che hanno valutato ogni possibile aspetto della situazione arrivando alla conclusione che, dopotutto, meglio vivere alla grande scialacquando tutto che fare sacrifici, perché tanto questi sacrifici saranno comunque insufficienti.

    Va bene, siamo arrivati a quel punto dell’articolo in cui, dopo aver largamente esposto il problema con dovizia di dettagli, si dovrebbe cominciare a proporre le soluzioni, gli auspici, le direzioni da prendere. O quanto meno, si dovrebbe provare a sdrammatizzare con qualche battuta. Che poi l’idea di buttare sul ridere i problemi è molto italiana, abbiamo avuto per parecchi anni un Presidente del consiglio famoso per le sue barzellette e poi siamo passati a un partito fondato da un comico. Sarà mica un caso se viviamo in un paese che si chiama quasi esattamente come la musa della commedia, Talia.

    E invece no, niente. Niente auspici – salvo quello di essere clamorosamente e miracolosamente contraddetto – ma soprattutto niente soluzioni, niente direzioni. Anche perché poi non le prendete bene, lo so per esperienza: ho detto a mio figlio che per il suo futuro invece di studiare chitarra o ingegneria avrebbe fatto meglio a imparare a costruirsi un arco e scuoiare topi con il coltello e mi ha tenuto il broncio per tutta la giornata.

    Ci sentiamo al prossimo numero, dai.

    Illustrazione di Luca Vergerio

    NARRATIVA

    Anton e Kiyohime

    Fumio Takano

    Traduzione di Massimo Soumaré

    Fumio Takano, o Takano Fumio, visto che in Giappone si scriverebbe prima il cognome, pseudonimo di Inoue Kumiko, nata a Tsuchiura, prefettura di Ibaraki, nel 1966, è laureata in Discipline umanistiche e ha una specializzazione in Storia francese della prima età moderna. È autrice di numerosi romanzi di fantascienza e di un giallo, vincitore del più prestigioso riconoscimento giapponese nel campo, il Premio Edogawa Rampo. È membro del Club giapponese degli autori di Science Fiction, dell’Associazione russo-giapponese e dell’Associazione degli scrittori giapponesi.

    Finora di suo in Italia è stato pubblicato solo il racconto La ciotola della vuota dimenticanza, nell’antologia ALIA storie (CS_libri, 2011), e nel 2016 è stata ospite di NipPop, evento culturale in partnership con l’Università di Bologna: http://www.nippop.it/edizione-2016/ospiti/takano-fumio/ (MS)

    Gli abitanti di Mosca sono al corrente del perché la grande campana del Cremlino è spezzata?

    Non solo i suoi cittadini, ma anche la maggioranza dei turisti dovrebbe conoscere questa campana, dato che visitano il Cremlino. Entrano dalla torre Troitskaya, per poi passare davanti al Palazzo di Stato (un teatro assurdamente grande, tipico dell’Unione Sovietica, che è stato pure usato per le riunioni del Partito Comunista), dopodiché, avanzano in direzione del fiume Moscova mentre osservano sulla loro sinistra il Senato. A quel punto s’imbattono nella gigantesca campana posta su un basamento collocato tra il gruppo di chiese e lo spazio verde. È la cosiddetta Campana dello Zar. Alta sei metri, il suo peso, stando a quanto indicato dalle guide, è di duecento tonnellate.

    Anche in Giappone, dove la tecnologia della fusione della campane dei templi buddhisti è alquanto progredita, al massimo sono alte cinque metri e quaranta centimetri, con un peso di settanta tonnellate. Da questi dati si può comprendere quanto la Campana dello Zar sia al di fuori degli standard comuni.

    Giusto! Le campane giapponesi sono molto raffinate. Nonostante la grandezza, sono sottili. Si dice che in questo modo producano un bel suono. Non di quelli che si percepiscono con le orecchie, ma con l’intero corpo. Registrandolo non si riesce a udirlo com’è al naturale, ugualmente al boato dei canoni che non si può riprodurre alla perfezione.

    Come sarà dunque il suono della Campana dello Zar?

    Fin dai tempi della creazione del cielo e della terra nessuno lo ha mai udito. Il motivo è che per una certa circostanza si è rotta prima che qualcuno avesse occasione di sentirlo.

    Olegs, mentre stava ascoltando la Campana del tempo nel parco di Ueno, chissà per quale motivo si ricordò della Campana dello Zar.

    Non sapeva perché lo avesse fatto.

    La Campana del tempo di Ueno era, senza alcun dubbio, di quelle buddhiste in puro stile nipponico e non aveva alcun punto di contatto con quella russa. Sistemata su una bassa collina, era appesa a un campanile realizzato in legno. Attualmente risuonava tre volte al giorno grazie a una trave collegata a un sistema meccanico: il mattino, la sera e a mezzogiorno. A occhio e croce, la sua altezza era di due metri e il suo diametro di circa la metà. Poiché la trave di legno che serviva per percuoterla non si spostava di molto, non produceva un suono forte; inoltre, cosa di non poco conto, rispetto al periodo Edo¹ il rumore che c’era nella zona di Ueno era notevolmente aumentato. Di conseguenza, pur stando all’interno del parco, se si era un poco lontani dalla campana non la si sentiva risuonare, a dispetto del fatto che un tempo fosse udibile per un raggio di più di tre chilometri.

    Olegs aveva sentito il battito di mezzogiorno. A voler essere pignoli, la campana aveva suonato più di dodici volte; in tutto c’erano stati quindici rintocchi. I primi tre erano quelli denominati a perdere, il cui scopo era di avvertire la gente che si stava per indicare l’ora. Era un’informazione di seconda mano che aveva ricevuto da un uomo di età avanzata facente parte dei volontari.

    Il giovane aveva scattato molte foto, ma non aveva girato nessun video. Questo perché intuiva che riguardandoli al computer sarebbe rimasto deluso del suono registrato.

    I ciliegi del parco di Ueno erano quasi del tutto fioriti. Se quella notte non avesse piovuto, l’indomani, sabato, ci sarebbe stato il tempo ideale per l’hanami, la tradizionale usanza di ammirare la fioritura dei ciliegi. O, almeno, questo era ciò che aveva detto con espressione felice l’incaricato delle previsioni metereologiche al notiziario del mattino. Nei luoghi famosi dentro il parco ormai tutti avevano steso i teli di vinile blu che si utilizzavano per i party all’aperto. Si diceva che una caratteristica del Giappone di quel periodo era proprio quella di assicurarsi "il posto migliore per vedere l’hanami". C’erano persino gruppi che avevano già iniziato a far baldoria. Impiegati neoassunti che pochi giorni dopo avrebbero partecipato alla cerimonia speciale che festeggiava il loro ingresso nelle ditte, impiegati di mezz’età, studenti minorenni che legalmente non potevano ancora consumare alcolici e persone eccentriche che si erano assentate dalle società e dai negozi dove lavoravano, avevano trascorso la notte in bianco per assicurarsi i punti più ambiti. Come straniero, si vergognò di pensare che gli sembrasse assurdo, ma al contempo li invidiava, sebbene non ne comprendesse il motivo.

    Olegs, uscito dalla via dei negozi di Ameya Yokochō e salito su un treno, dopo aver camminato guardando i negozi degli otaku e quelli di elettronica ad Akihabara, ritornò nella sua pensione a Ikenohata. Per essere precisi, era la pensione dove dimorava lo zio. Il giovane era suo ospite per un breve periodo. Per suo zio Peteris, un fisico, vivere in quella zona era l’ideale, dato che poteva frequentare agevolmente l’università e recarsi con un treno diretto a Tsukuba, dove si trovava l’acceleratore quantistico. Tuttavia, il motivo principale era che, essendo la pensione un edificio in legno in stile metà giapponese e metà occidentale costruito agli inizi del periodo Shōwa,² pur avendo molte scomodità era una costruzione affascinante che invogliava a soggiornarvi. Forse perché s’ispirava all’architettura dell’Occidente, il soffitto era alto e per Peteris, la cui statura raggiungeva i due metri, era più accogliente di un normale appartamento del Sol Levante.

    Olegs, che era ancora uno studente universitario, dopo aver terminato un programma di scambio per un breve periodo in un’università della zona del Kansai, aveva in mente di fermarsi a Tokyo soltanto per una settimana, per poi tornare in Lettonia. Peteris stava per iniziare un importante esperimento, perciò non era quasi mai in casa.

    Tornato nella pensione al tramonto, suo zio stava giusto per uscire in quel momento. Quel giorno si era recato il mattino presto all’università. Rientrato temporaneamente, adesso stava per andarsene di nuovo.

    – Olegs, mi spiace, ma questa sera mi fermerò in laboratorio. Domani mi recherò direttamente da lì a Tsukuba. Te ne ho parlato in precedenza. Finalmente è giunto il turno del nostro team di ricerca! Parlo dell’uso dell’acceleratore.

    – Perdonami tu di essere venuto in un periodo in cui sei tanto indaffarato, zio. Non preoccuparti per me – disse Olegs mostrando di sfuggita un fiducioso sorriso. – Conoscendo il giapponese me la caverò benissimo. Inoltre, qui sono tutti gentili.

    – Capisco. Per quanto riguarda la lingua giapponese, di sicuro sei molto più bravo di me! Tornerò entro il pomeriggio di domenica.

    – Se vai a Tsukuba, allora… si tratta di quello, vero? Dell’oggetto che voi chiamate cannone temporale?

    – Esatto! Tranquillo, non avverrà il cosiddetto paradosso del nonno, perciò non c’è bisogno che fai quell’espressione! Nello spazio-tempo esiste una plasticità simile a quella dei nervi cranici. Anche tra passato, presente e futuro c’è una trasmissione d’informazioni. L’irradiazione di particelle di tachioni è già stata sperimentata a livello molecolare da tempo, ed è stato dimostrato concretamente che la teoria è valida. A ogni modo, a meno che tu lasci perdere le materie umanistiche e ti specializzi in fisica, non credo che ti sia possibile comprendere fino in fondo ciò che ti sto dicendo.

    – Ho rinunciato ormai da tempo a capirti! Invece… Ecco, non so se sia opportuno chiedertelo, ma Anton era una spia sovietica, giusto? Ciononostante, perché dici di volerlo aiutare, tu che odi l’Unione Sovietica e la Russia? Di questo proprio non riesco a capacitarmi.

    La tragedia di Anton e di Kiyohime era molto conosciuta, almeno in Giappone e in Russia. Anton aveva abbandonato la donna ed era tornato nel suo paese. Kiyohime, la cui delusione si era tramutata in una profonda ira, trasformatasi in un serpente ardente aveva inseguito l’uomo infine bruciandolo vivo dentro la campana del Cremlino dove lui si era rifugiato. Il governo russo non l’aveva ancora ammesso, ma si vociferava che Anton fosse stato una spia. Era una storia per cui, dal punto di vista dei paesi dell’Europa orientale che detestavano l’Unione Sovietica, i russi avevano avuto ciò che si meritavano. Lo stesso Peteris in altri frangenti avrebbe di certo affermato che sarebbe stato meglio se la donna avesse incendiato l’intero Cremlino.

    – Proprio così, Anton era di sicuro una spia sovietica, però io voglio salvarlo ugualmente.

    Lo zio, contrariamente alle previsioni di Olegs, lo ammise con franchezza.

    – Come scienziato era mio amico. Stai tranquillo. Non modificherò la storia abbattendo il governo sovietico di quel periodo. Ovviamente, potessi farlo non esiterei un istante, ma il genere umano non può costruire un acceleratore che possieda una tale energia. Semplicemente, sposterò il momento in cui Anton e Kiyohime si sono incontrati. Per motivi personali, so quand’è stato. Se non ci sarà quell’istante, anche Kiyohime non si trasformerà in un mostro. Lo sparo è in programma esattamente per le diciotto di domani. Prega per il mio successo… Bene, ora vado!

    Peteris, aggiustata la presa sul sacchetto con i dolci taiyaki che l’anziana signora della famiglia della locanda gli aveva dato da mangiare, uscì dall’ingresso e si avviò lungo la via principale che stava diventando buia.

    Il mattino seguente Olegs si alzò un poco in ritardo rispetto al solito. I famigliari del padrone della pensione avevano iniziato a predisporre il necessario per l’hanami. Il proprietario era uscito di casa presto per i preparativi del consiglio di quartiere.

    Un estraneo non poteva aiutare nella preparazione dei tradizionali cestini giapponesi di legno laccato per il pranzo composti da più scatole sovrapposte, perciò il ragazzo aveva deciso di andare in giro. I ciliegi fiorivano ovunque, anche nei posti non famosi per quello. Olegs era dubbioso se dirigersi a Yanaka. Era un’area dove sulla cartina erano segnati decine di templi.

    Stando alla guida, sembrava che i quartieri di Nezu, Sendagi e Yanaka fossero un’unica zona. Oltre a esserci complessi di case, erano sparsi negozi e raffinate botteghe esistenti fin dal passato. Era un luogo dove le nuove generazioni infatuate di quell’atmosfera nostalgica avevano persino costruito finti vecchi caffè. La maggior differenza tra Ikenohata, Nezu e Yanaka era che a Yanaka c’erano un numero esagerato di templi buddhisti e shintoisti. C’erano anche molti vasti cimiteri, ed era possibile andare a pregare sulle tombe di personaggi famosi come il pittore Taikan Yokohama, l’industriale Eiichi Shibusawa e il monaco ortodosso Nicola del Giappone.

    Olegs, percorsa una stretta strada a senso unico, vide inaspettatamente apparire dal mezzo di un gruppo di piccole case in legno un portone, simile a una miniatura, di un tempio. Quasi tutti i templi buddhisti non erano grandi ed erano composti da un padiglione principale, dall’abitazione dei monaci e da un modesto cimitero. Quello era ben tenuto.

    I ciliegi erano in fiore ovunque. Il cimitero di Yanaka era un posto famoso, ma, ovviamente, lì non c’era gente che stesse festeggiando. Ammirare la fioritura in un luogo dove si seppelliscono i morti ordinando cucina francese take away era qualcosa che poteva accadere soltanto nei manga.

    Intento a osservare le piante, aveva finito per perdersi. Dove si trovava adesso sulla mappa? Olegs non ne aveva la minima idea, però a Tokyo se si avanzava a casaccio si raggiungeva subito una stazione delle ferrovie statali o della metropolitana. Inoltre, non c’erano posti dove il mattino si corresse il rischio di essere derubati. Ciononostante, il non sapere dove fosse lo rendeva inquieto.

    La temperatura della capitale nella prima decade di aprile corrispondeva all’inizio dell’estate a Riga, capitale della Lettonia. Era caldo, ma nel momento che il vento, che trasportava i petali, gli colpì la nuca, provò un brivido di freddo. Chiuse il davanti del giubbotto. Qualcosa entrò nel suo campo visivo. Sollevato il volto, vide il piccolo portone scolorito dell’entrata di un tempio buddhista. Sapeva che qualunque luogo sacro avesse visitato sarebbe stato uguale, però entrò lì quasi che fosse rimasto ammaliato da qualcosa. Come immaginava, non era diverso dai modesti edifici religiosi che aveva già visitato. In fondo c’era la strada principale, e sul lato sinistro del portone l’abitazione dei monaci (non si trattava di una costruzione tradizionale, ma di una casa comune che non doveva essere stata costruita da più di una decina di anni). A destra c’era un minuscolo cimitero.

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