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L'Unione nel mirino
L'Unione nel mirino
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L'Unione nel mirino

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About this ebook

In un futuro prossimo, le nazioni europee sono scomparse, inglobate nell’Unione, una tecnocrazia divisa in quattro province e con il potere centrale a Bruxelles. Il continente europeo è diventato per i suoi cittadini un paradiso utopistico, dove tutti convivono in pace e in libertà, almeno in superficie.
Nel frattempo, un movimento clandestino sta tramando per rovesciare il governo o, almeno, rivelare la dittatura che si nasconde dietro la finta democrazia.
A Berlino, capitale della Provincia orientale, la governatrice Angelika März viene uccisa poco prima di Natale, da un cecchino. Il maggiore Ian Lamm dei servizi segreti è tra gli ufficiali incaricati di scovare il colpevole, proprio tra i fiancheggiatori del movimento clandestino.
Il confine tra oppressione e libertà, giusto e sbagliato è labile, in questo thriller fantapolitico.
LanguageItaliano
Release dateNov 12, 2019
ISBN9788833170794
L'Unione nel mirino

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    L'Unione nel mirino - Giovanni Magistrelli

    L’Unione nel mirino

    Giovanni Magistrelli

    Gialli e Thriller

    I Edizione novembre 2019

    © 2019 Astro edizioni

    S.r.l.s., Roma

    www.astroedizioni.it

    info@astroedizioni.it

    ISBN 978-88-3317-079-4

    Direzione editoriale:

    Francesca Costantino

    Progetto grafico:

    Elisabetta Di Pietro

    Editing:

    Stefano Mancini

    Tutti i diritti sono

    riservati, incluso

    il diritto di riproduzione

    integrale e/o parziale

    in qualsiasi forma.

    Un grazie di cuore

    a Isabella, Federica e Virginia,

    per esserci sempre,

    nei momenti buoni

    e in quelli così così.

    «È più facile ingannare le masse

    con una fandonia esagerata,

    che con una piccola bugia».

    Adolf Hitler, dittatore del Terzo Reich

    «Noi prendiamo una decisione in una stanza,

    poi la mettiamo sul tavolo

    e aspettiamo di vedere cosa succede.

    Se non provoca proteste o rivolte,

    è perché la maggior parte delle persone

    non ha idea di ciò che è stato deciso;

    allora noi andiamo avanti passo dopo passo,

    fino al punto di non ritorno».

    Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea

    1

    Il cecchino stava sdraiato sul terrazzo in cima all’edificio. Un telone militare grigio lo rendeva invisibile a chiunque avesse sorvolato il palazzo per caso.

    Spostò lo sguardo sui tetti circostanti e, dopo aver avuto la conferma che fossero deserti, riportò la sua attenzione al fucile di precisione davanti a sé, con la canna, sorretta dal treppiede, appena sopra il livello del parapetto.

    L’M82 Barrett, nero e nascosto sotto il telone, poteva sparare proiettili calibro 10,56 mm a una distanza di più di tremila metri.

    Il cecchino guardò il cielo coperto da una coltre di nubi.

    Se in serata la temperatura si abbasserà ancora, nevicherà, pensò.

    Diede un’occhiata all’orologio al polso. Mancavano pochi minuti a mezzogiorno.

    Ritornò con il pensiero agli anni di preparazione che lo avevano portato a quel momento. Respirò a fondo e si deterse alcune goccioline di sudore dal labbro superiore. Le osservò sul guanto di pelle nera.

    Quella grigia mattina di inizio dicembre era gelida, ma sotto il telone faceva caldo. Ogni tanto, qualche isolato colpo di vento attraversava il terrazzo, ma non abbastanza da farlo preoccupare o, peggio ancora, convincerlo ad abortire l’operazione.

    Inserì il caricatore da dieci colpi nel Barrett e calibrò il mirino ottico telescopico.

    L’attesa è sempre la parte più dura, si disse, ricordando il titolo di una canzone.

    Un sorriso gli apparve fugace sulle labbra, un tentativo inconscio di scacciare il nervosismo.

    Chiuse gli occhi, svuotando la mente da ogni pensiero.

    Quando li riaprì, era concentrato, un tutt’uno col fucile.

    Appoggiò l’occhio destro al mirino, effettuando le ultime regolazioni.

    A poco più di un chilometro di distanza, inquadrò la Porta di Brandeburgo, ricordo di un’altra epoca, prima dell’unificazione e della cancellazione dei confini.

    Un ampio palco da concerto, alto una decina di metri, era stato montato davanti al monumento. Le bandiere dell’Unione lo adornavano in tutta la sua grandezza, oltre a sventolare numerose in mano alle migliaia di persone che si erano radunate davanti al podio.

    Osservò i drappi, contando le dodici stelle nere nel cerchio bianco, al centro della croce nordica, su campo rosso: il simbolo dell’Unione.

    Diverse autorità politiche erano già sedute nelle poltrone allineate con ordine sul palcoscenico mentre, intorno, soldati e poliziotti armati di mitragliatori sorvegliavano la folla.

    All’improvviso i politici si voltarono verso destra, dove c’era la scala per salire sul palco.

    Comprese che il momento era arrivato.

    Dopo pochi secondi, una donna sovrappeso apparve al centro del mirino del Barrett.

    Aveva corti capelli biondi e portava giacca e pantaloni in tinta unita, color verde pisello.

    Angelika März, da anni la governatrice della Provincia orientale, la più potente dell’Unione, si avvicinò al microfono, mentre con le braccia sollevate salutava la moltitudine dinanzi a sé.

    Il cecchino non aspettò.

    Trattenne per un attimo il respiro e tirò il grilletto due volte in rapida successione, sentendo il rinculo del Barrett contro la spalla destra, mentre il rumore degli spari veniva attutito dal silenziatore.

    I proiettili raggiunsero l’obiettivo un secondo e mezzo più tardi, colpendo la März alla testa.

    L’uomo vide nel mirino la donna accasciarsi e scomparire dietro il podio, mentre le altre cariche dietro di lei si levavano in piedi, accorrendo in suo soccorso o dandosi alla fuga.

    Il cecchino tolse con calma il silenziatore e il caricatore dal fucile, smontò il Barrett e lo ripose nella custodia rigida al suo fianco, sempre rimanendo nascosto sotto il telone.

    Si guardò intorno, per capire se qualcuno si fosse accorto di lui e stesse accorrendo verso il terrazzo. Nessuno pareva aver distinto i colpi di arma da fuoco, silenziati dai tanti rumori di una metropoli come Berlino.

    A quel punto scostò il telone e, dopo averlo ripiegato con cura, infilò anch’esso nella valigetta, insieme ai due bossoli raccolti da terra.

    Diede un’ultima occhiata nella direzione dove aveva sparato, poi si alzò.

    Si spazzolò la giacca dozzinale nera e i pantaloni dello stesso colore, si infilò degli occhiali scuri e si avviò indisturbato verso l’uscita del terrazzo, con la custodia del M82 Barrett sottobraccio, mentre in lontananza si udivano le sirene delle ambulanze e delle auto della Polizia.

    2

    Il maggiore Ian Lamm dei servizi segreti dell’Unione, sdraiato sul letto, accese il cellulare sul comodino nel suo bilocale alla periferia Nord di Berlino, a Pankow.

    Non passò neppure un minuto, prima che l’apparecchio iniziasse a suonare.

    Lamm guardò sul display il numero della telefonata in arrivo, poi rispose.

    «Ian, dove cazzo eri? È un’ora che provo a chiamarti», disse con irritazione la voce all’altro capo della linea.

    Lamm riconobbe il suo collega, il capitano Bernd Schäfer.

    «Bernd, sono a casa. Dove pensavi che fossi? Forse ti sei scordato che sono riuscito finalmente a ottenere tre giorni di ferie?».

    «No, non me ne sono dimenticato. Ma c’è un’emergenza. Devi venire subito a Charlottenburg».

    «Quale emergenza?».

    «Ma non hai guardato la televisione?», chiese Schäfer.

    «Mi sono svegliato da poco. Le ferie servono anche e soprattutto per riposarsi. Cos’è successo di così terrificante?».

    «Hanno sparato alla governatrice März».

    Lamm non replicò.

    «Ian, ci sei ancora?».

    «Quando è successo?».

    «A mezzogiorno. Stava per pronunciare un discorso alla Porta di Brandeburgo. È stata colpita due volte».

    «Cazzo!», esclamò Lamm. «È grave?».

    «Al momento, non sappiamo niente neppure noi dei servizi segreti. L’hanno portata subito all’ospedale dell’Esercito e pare che la stiano operando, ma non abbiamo altre informazioni. Il governo ha alzato un muro di no comment intorno all’accaduto. Siamo in attesa. È stato ordinato il coprifuoco immediato. Tutte le strade sono pattugliate da Polizia e corpi speciali e alla gente è stato ordinato di non lasciare le abitazioni e gli uffici. Questa è l’unica cosa certa. Vieni qui alla svelta. C’è una riunione indetta tra un’ora. Sbrigati».

    «Va bene. Mi preparo e parto. A tra poco», rispose Lamm, chiudendo la comunicazione.

    Quindi si alzò dal letto e andò in sala da pranzo in boxer e maglietta bianca. Accese la televisione, sedendosi sul divano di pelle. Il canale televisivo ufficiale del governo, l’unico autorizzato a divulgare le notizie, stava ripetendo senza interruzione che la vita della governatrice März non era in pericolo e che i colpevoli dell’attentato sarebbero stati arrestati, di lì a poco.

    Dopo cinque minuti passati a guardare lo schermo senza che ci fossero novità, Lamm spense la televisione e si diresse in bagno per farsi una doccia e radersi.

    Dieci minuti più tardi, si infilò una divisa nera pulita, prese il basco, anch’esso nero, e se lo poggiò sulla testa.

    Alto un metro e ottanta, con il fisico muscoloso, i capelli castani tagliati a spazzola e gli occhi azzurri, la mascella dura e gli zigomi pronunciati, Lamm attirava l’attenzione di diverse colleghe all’interno del Ministero dell’Informazione.

    Si sistemò il basco e uscì dall’appartamento per dirigersi in auto verso il centro città.

    3

    Il cellulare si mise a vibrare all’improvviso nella tasca della felpa, mentre stava camminando nella zona di Wilmersdorf.

    L’uomo afferrò l’apparecchio e se lo portò all’orecchio, spostando il cappuccio che gli copriva la testa, nascondendo parzialmente il suo viso alle telecamere disseminate in tutta Berlino.

    «Sì?», disse, rimanendo in attesa.

    «Sono io», replicò in modo fermo una voce di donna, senza dire il nome.

    «Hai sentito quello che è successo alla Porta di Brandeburgo?», chiese l’uomo, riconoscendo l’interlocutrice.

    «L’ho appena saputo. Ero fuori città e avevo la batteria del cellulare scarica. Ho appena visto le notizie alla televisione, in un bar. È incredibile».

    «Sono scioccato», disse lui, senza rallentare il passo, mentre il respiro gli si condensava nel freddo del pomeriggio. «Chi può averlo fatto?».

    La voce all’altro capo del telefono attese qualche istante, prima di parlare.

    «Non è uno di noi. Questo posso affermarlo con certezza. E neppure uno venuto da fuori. Sennò lo avrei saputo in anticipo. E lo avrei impedito!».

    L’uomo con il cappuccio percepì il nervosismo nella voce femminile.

    «Perché?! Perché lo avresti impedito?».

    «È la März, cazzo! La März! Adesso si scatenerà l’inferno! Nessuno è al sicuro. Chi lo ha fatto non immagina nemmeno che cazzo ha scatenato!».

    «Lo so. Come dobbiamo muoverci?».

    «Dobbiamo scomparire. E aspettare. Finché il coglione che ha fatto questa cazzata non verrà preso. E lo prenderanno, ci puoi scommettere! Ora invio il messaggio a tutti. Silenzio assoluto fino a nuovo ordine».

    «D’accordo. Cosa farai nel frattempo?».

    Di nuovo ci fu un silenzio di diversi istanti, tanto che l’uomo pensò che la linea fosse caduta.

    «Proverò, in qualche modo», disse all’improvviso la donna, «a usare questo evento a nostro favore. Se sarà possibile».

    Il clic che arrivò all’orecchio dell’uomo con la felpa gli fece capire che la comunicazione era stata interrotta.

    Si rimise il cellulare in tasca e aumentò il passo.

    Mentre pensava a come si sarebbe organizzato nei giorni successivi, osservò nel cielo la distesa uniforme di nuvoloni scuri che si avvicinavano a Berlino, con lentezza, ma senza dare l’idea che avrebbero rallentato o cambiato direzione.

    La tempesta sta per arrivare, si disse, e la sua mente sovrappose l’immagine delle nubi nere a quella di Angelika März.

    4

    Lamm attraversò la capitale della Provincia in direzione Sud-Ovest, senza incontrare il solito traffico caotico di tutti i giorni. Le strade erano deserte, a parte i mezzi blindati militari e le auto della Polizia, e Berlino pareva una città fantasma.

    Mentre guidava, osservando i palazzi ultracentenari dell’era prussiana a fianco di quelli ricostruiti dopo la guerra e gli edifici sorti dopo la riunificazione, l’intera metropoli gli appariva sotto una nuova luce, come se la vedesse per la prima volta.

    Lamm era nato a Berlino trentacinque anni prima, figlio di un irlandese e di una tedesca. Sia il padre Eric, sia la madre Anneke erano impiegati di medio livello all’interno dell’apparato continentale dell’Unione e ciò aveva facilitato, una volta che il figlio aveva finito gli studi, il suo ingresso all’interno dell’imponente meccanismo che faceva funzionare le quattro province.

    Aveva prima prestato servizio nei corpi speciali dell’Esercito, poi era entrato nel Ministero dell’Informazione, l’appellativo ufficiale per quelli che erano in realtà i famigerati servizi segreti. Da dieci anni era diventato un agente operativo, salendo con rapidità di grado, fino a diventare maggiore. Aveva dovuto però sacrificare la sua vita privata per la carriera e quando, quattro anni prima, nell’arco di sei mesi, i suoi genitori erano morti entrambi di cancro, si era ritrovato solo al mondo.

    Lamm parcheggiò la Volkswagen Passat nera nel garage sotterraneo dell’imponente palazzo di dieci piani, nel distretto di Charlottenburg, che era la sede del Ministero dell’Informazione. L’elegante edificio, in mattoni dipinti di bianco e risalente al periodo prebellico, contrastava con molti dei nuovi palazzi in vetro e acciaio sorti dopo l’instaurazione dell’Unione e pareva una reliquia di un’epoca distante e dimenticata.

    Prese l’ascensore e salì al pianoterra, quindi ne prese un altro per dirigersi verso il suo ufficio, al settimo piano.

    «Era ora, Ian!», esclamò Schäfer, in piedi, appoggiato alla sua scrivania, non appena vide Lamm. «La riunione sta per cominciare».

    «Sono venuto prima che ho potuto, Bernd. Meno male che c’è il coprifuoco, sennò sarei ancora bloccato nel traffico. Ci sono novità? Ho ascoltato la radio, venendo qui, ma continuano a ripetere la solita litania».

    Schäfer, che aveva il padre tedesco e la madre nigeriana, fissò Lamm con i suoi occhi color ebano, mentre con la mano si grattava la pelle scura del volto.

    «Alcune voci trapelate dicono che la März è messa molto male, ma penso che ne sapremo di più durante l’incontro con i capi», rispose, uscendo dall’ufficio. «Andiamo. Manca poco».

    Lamm lo seguì. «Cosa ne pensi?».

    «Di cosa?».

    «Dell’attentato, Bernd! Di cos’altro?».

    Presero le scale, che portavano all’ultimo piano, invece dell’ascensore.

    «Onestamente, Ian, proprio non saprei. Non era mai successo niente di simile all’interno dell’Unione».

    «Già, è scioccante. Ma chiunque sia stato, lo prenderemo».

    Schäfer sorrise, mentre arrivavano all’ultimo piano.

    «Su questo non ci sono dubbi. Non potrà sfuggirci».

    Percorsero tutto il lungo corridoio dalle anonime pareti bianche, che terminava su una porta spalancata di legno massiccio e ne varcarono la soglia per entrare nella sala dove, a un tavolo a forma di ferro di cavallo, erano seduti una trentina di colleghi.

    Equidistante dalle sue due estremità, c’era una scrivania di legno massiccio e scuro, davanti alla quale stava in piedi il generale Heinz Paar, il ministro dell’Informazione, nonché il direttore dei servizi segreti della Provincia orientale.

    Lamm e Schäfer si sedettero agli ultimi due posti vuoti senza dire niente. Tutti gli sguardi si posarono su di loro per pochi secondi, prima di tornare a guardare Paar.

    Il generale aveva i capelli grigi tagliati a spazzola e piccoli occhi marroni, oltre a un fisico appesantito. Non vestiva l’uniforme, quel giorno, ma un completo grigio scuro con camicia azzurra, senza cravatta.

    Si staccò dalla scrivania fissando i suoi uomini seduti, chi in divisa, chi in borghese.

    «Signori, il momento è grave», esordì. «È la prima volta che subiamo un attacco di questa portata. Il nostro compito, come servizi segreti, è sempre stato quello di individuare e annientare i possibili pericoli. Perlopiù, il malcontento sotterraneo in alcune frange minori della popolazione, sia nella nostra provincia, sia nelle altre. Abbiamo sempre pensato di poter tenerlo sotto controllo, ma i fatti di oggi ci hanno dimostrato in maniera tragica che non è così. Non abbiamo visto arrivare la minaccia».

    Si interruppe per guardare i presenti, in silenzio.

    «Ho ricevuto telefonate allarmate da parte dei nostri governanti, qui a Berlino. Pure dalle altre province», riprese. «Un attentato come quello subito da Angelika März va al di là di qualsiasi concezione della realtà. Sono stati abituati a vivere al sicuro. Il fatto che la carica più alta della Provincia orientale sia stata colpita, li ha scioccati. Quindi, adesso, vogliono spiegazioni. Rassicurazioni. E le chiedono a noi. Che risposte possiamo dare in questo momento, a poche ore dall’attacco, quindi?».

    Il primo a parlare fu il capitano Rudolf Schreiber, seduto poco a destra di Lamm.

    «Signore, le informazioni che abbiamo noi sono le stesse trasmesse dalla televisione».

    «L’unica cosa che sappiamo è che la governatrice è stata colpita da due proiettili, signore», proseguì il maggiore Katrin Kılıç, una delle due donne presenti nella sala.

    Gli occhi degli ufficiali si spostarono all’unisono su Paar.

    «Già», confermò il generale. «Ma non se ne conosce ancora il calibro. Da una prima ricostruzione dei fatti, possiamo soltanto ipotizzare che i colpi non devono essere stati esplosi da qualcuno vicino al palco. Chi ha sparato, non era tra la folla. Ha mirato da lontano».

    «Ma, signore, con lo spiegamento di forze vicino alla Porta, ci saremmo accorti di un cecchino!», replicò il tenente colonnello Thomas Krawczyk.

    Paar si mise a camminare silenzioso lungo il tavolo a ferro di cavallo, squadrando i volti dei sottoposti. Finché non si fermò davanti a Krawczyk.

    «Però, se la governatrice è stata colpita, allora significa che qualcosa ci è sfuggito, colonnello. Dobbiamo scoprire cosa. Il passo successivo sarà identificare chi ha sparato e capire come ci sia riuscito. Capire come sia potuto passare attraverso le maglie della nostra rete di sorveglianza. E dobbiamo prenderlo, alla svelta. Non possiamo accettare che ci siano delle falle nella sicurezza dell’Unione».

    Spostò lo sguardo sugli altri.

    «Non viviamo in un paradiso, signori. Possiamo illuderci che sia così, ma non lo è. Solo tramite il duro e continuo lavoro di funzionari come noi viene garantita la tranquillità di centinaia di milioni di cittadini europei. Ci sono individui a cui questo stato di cose non piace. Forse è proprio una di queste persone quella che ha sparato ad Angelika März. Non sappiamo se si tratta di un lupo solitario o se fa parte di un’organizzazione. Possibili derive eversive vanno bloccate sul nascere, signori. A ogni costo».

    Schäfer alzò la mano.

    «Dica pure, capitano».

    «Signore, come lei ben sa, siamo a conoscenza di movimenti clandestini che si oppongono alla politica delle nostre autorità. Ne abbiamo individuato alcuni componenti e li monitoriamo da tempo, ma non hanno mai dato l’impressione di poter compiere azioni come quella contro la März. Però, forse, dovremmo cambiare la nostra strategia, adesso. Stanarli e distruggerli».

    Paar si grattò il mento. «Potrebbe essere una soluzione. D’altronde, se ci sono loro dietro l’attentato di oggi, siamo già in ritardo rispetto a quanto avremmo dovuto fare. In ogni caso, credo che sia la prima mossa da fare. A Berlino, per cominciare. Una retata nel sottobosco dei movimenti di opposizione. Arrestiamo tutti quelli che sospettiamo di avere legami con essi o di farne parte».

    Lamm sollevò a sua volta la mano.

    «L’ascolto, maggiore».

    «Può darsi, signore, che il motivo per il quale il cecchino è sfuggito ai nostri controlli, sia che si tratti di qualcuno nascosto all’interno del sistema. Che forse sia uno di noi. Un doppiogiochista complice degli eversori. Non è una possibilità da escludere».

    Tutti spostarono lo sguardo da Lamm a Paar, senza fiatare, aspettando la replica del generale.

    «Maggiore, apprezzo la creatività della sua ipotesi, ma stiamo parlando di fantascienza. Chi, appartenendo agli apparati dell’Unione, potrebbe desiderare di minare il nostro sistema? Di combatterlo nel tentativo di distruggerlo? Chi vorrebbe privarsi dei propri privilegi? Per sostituirli con che cosa, poi?».

    Lamm non rispose.

    In quel momento, la porta della sala si spalancò e un soldato entrò, avvicinandosi al generale per consegnargli una busta, quindi gli mormorò alcune parole, prima di uscire.

    Paar aprì la busta e ne estrasse un foglietto, che lesse in pochi secondi, poi alzò gli occhi verso i presenti.

    «È una comunicazione del governo della provincia. Angelika März non ce l’ha fatta, purtroppo. È deceduta mezz’ora fa».

    Un brusio si levò tra i funzionari.

    «Entro un’ora, la televisione darà la notizia ufficiale al popolo», proseguì il generale. «Stanno preparando l’epitaffio. Non appena sarà pronto, comincerà il circo mediatico per celebrare la governatrice e ribadire la solidità dell’Unione. A questo punto, diventa imperativo arrestare l’assassino, in qualsiasi modo e al più presto. Occorre evitare possibili tentativi di emulazione da parte di elementi convinti che un omicidio di un alto esponente del governo europeo possa restare impunito. Signori, avete i mezzi e l’addestramento per compiere il vostro dovere con tempestività. Da voi non mi aspetto niente di meno dell’eccellenza. Ora potete andare».

    Tutti gli ufficiali si alzarono e lasciarono la stanza.

    Schäfer guardò Lamm, mentre scendevano le scale.

    «Ian, ma sei convinto di quello che hai appena detto? Credi che l’assassino si nasconda nei palazzi governativi?».

    Lamm prima lo fissò pensieroso, poi un mezzo sorriso apparve sul suo viso.

    «Hai ragione, Bernd. Stavo cercando di trovare una pista alternativa e ne è venuta fuori una cazzata. D’altra parte, come ha ribadito Paar, chi vorrebbe abbandonare il paradiso?».

    5

    L’uomo stava dormendo vestito sul divano, in uno dei rifugi usati dal movimento clandestino in casi di bisogno. Matthias lo svegliò.

    «Oleg, ci sono visite».

    D’istinto, guardò l’orologio al polso. Erano passate da poco le 23:00.

    Balzò in piedi, tirandosi su il cappuccio della felpa, e si avvicinò con cautela alla finestra di fianco a Matthias, scostando di poco le tende.

    Fuori, in Schildower Strasse, una Mercedes bianca e verde con all’interno due poliziotti transitò nella via, a passo d’uomo.

    I due aspettarono che scomparisse, trattenendo il fiato senza accorgersene.

    «Cosa facciamo?», chiese sottovoce Matthias, il più giovane, un adolescente.

    Oleg ripensò agli ordini che lui, come gli altri dissidenti, aveva ricevuto dopo l’uccisione di Angelika März.

    Dileguatevi, era stato il laconico messaggio telefonico inviato dalla loro guida.

    E così Oleg aveva fatto, rintanandosi in quella casa con Matthias.

    All’indomani dell’attentato, la reazione del governo e dei servizi segreti non si era fatta attendere. C’erano state innumerevoli retate e irruzioni nei luoghi di solito frequentati dalle persone non in linea con il dogma dell’Unione. Gli arresti di simpatizzanti e intellettuali erano stati fatti nell’indifferenza della popolazione, traumatizzata dalla morte improvvisa della governatrice.

    Ma la dimostrazione di forza da parte della Provincia orientale si era concentrata soprattutto nei distretti centrali della capitale. In quelli periferici, come Hermsdorf, era giunto solo l’eco di quegli eventi, per i primi giorni.

    Fino a quella notte.

    «Restiamo qui senza fare niente», disse infine Oleg, scuotendosi dai propri pensieri, il volto nascosto dal cappuccio.

    Matthias lo guardò in cerca di rassicurazioni.

    «Stai tranquillo», continuò. «Non possono sapere dove siamo. Questa è un’anonima casa in mezzo a tante altre, in un quartiere di onesti lavoratori berlinesi. Siamo invisibili».

    Il ragazzo sorrise forzatamente, mentre Oleg, senza farsi notare, impugnava la SIG Sauer P226 che aveva nella tasca destra della felpa.

    Di colpo, la sua attenzione venne attirata dal rumore e dalle luci di due altre autopattuglie che marciavano appaiate in Schildower Strasse.

    La prima proseguì, mentre la seconda parcheggiò di fronte alla casa-rifugio.

    Non mi piace, pensò Oleg. Non mi piace per nulla.

    «Polizia! Aprite!», gridò una voce all’esterno della porta d’ingresso.

    I due si voltarono. Oleg estrasse la pistola e notò la paura sul viso di Matthias.

    «Ci hanno trovati!», disse in un sussurro.

    Oleg si mise l’indice davanti alla bocca per fargli cenno di tacere. Poi gli mostrò la SIG Sauer. Matthias lo imitò, impugnando la Glock 19 infilata dietro la schiena, nella cintola dei jeans.

    Ci fu qualche attimo di silenzio, che fece sperare al più grande che gli agenti, non ricevendo risposta, se ne andassero.

    Un rumore secco, accompagnato da un grugnito, gli suggerì che la porta era stata sfondata da un calcio o da una spallata.

    «Fuori! Presto!», ordinò al compagno, sempre sottovoce.

    Aprì la finestra e scivolò rapido all’esterno, sul prato umido della brina notturna.

    «Muoviti!», intimò a Matthias, ma la sua voce fu sovrastata da quella degli agenti.

    «Fermo tu! Alza le mani!».

    Oleg si affacciò al davanzale appena in tempo per vedere Matthias puntare la pistola verso i poliziotti ed esplodere due colpi. Un agente, raggiunto dalle pallottole 9 mm, stramazzò a terra con un gemito, ma l’altro rispose al fuoco centrando il ragazzo al petto, più volte.

    Matthias stramazzò all’indietro, con gli occhi azzurri sbarrati, lasciando cadere la pistola sul pavimento, mentre il maglione beige si scuriva di sangue.

    Oleg, invisibile nel buio fuori della villetta, mise il poliziotto nel mirino della SIG Sauer, ma l’indice esitò prima di fare fuoco.

    Questo rifugio è perso, si disse, e Matthias è morto. Non posso fare più nulla per lui. Però, posso salvare me stesso.

    Lentamente scivolò verso il basso, nascondendosi dietro i cespugli lungo la parete della casa, e si appiattì sul terreno gelato, stando attento a non fare rumore.

    Dal suo nascondiglio provvisorio, osservò i due agenti scendere di corsa dall’autopattuglia e dirigersi verso l’ingresso principale per raggiungere i colleghi all’interno.

    Non appena scomparirono dietro l’angolo, Oleg strisciò disteso sull’erba, la pistola sempre stretta nella mano, cercando l’ombra per non essere visto e allontanarsi il più rapidamente possibile.

    Nonostante il clima rigido di dicembre, il sudore si formò presto sulla sua fronte.

    Sentì diverse voci dentro la villetta discutere tra di loro.

    Sapeva di non avere molto tempo a disposizione. I poliziotti, dopo una breve perquisizione sui due piani dell’abitazione, sarebbero usciti alla ricerca dei possibili complici del dissidente ucciso.

    Oleg scrutò il giardino intorno a sé.

    Per fortuna, i cespugli e gli alberi erano quasi tutti sempreverdi e gli offrivano una protezione sufficiente, almeno per i secondi necessari a decidere cosa fare.

    Vide davanti a sé una recinzione di legno alta un metro, che separava il giardino in cui era da quello della casa di fianco. Si voltò e, non vedendo nessuno, si alzò di colpo in piedi, scattando in avanti per saltare la recinzione, facendo presa sull’erba scivolosa con le scarpe da tennis.

    Quando atterrò dall’altra parte, rotolò sul fianco un paio di volte, andando a fermarsi nell’oscurità, lungo la parete laterale dell’edificio. Guardò di nuovo in direzione della casa dove i poliziotti avevano fatto irruzione. Il giardino era ancora deserto.

    Ripartì e attraversò, mantenendosi il più basso possibile, lo spazio che lo separava dalla successiva recinzione, questa volta in metallo, e la scavalcò di slancio. Non si arrestò a controllarsi le spalle, ma proseguì nella fuga, nel tentativo di mettere la maggior distanza possibile tra sé e i poliziotti, saltando da un giardino all’altro.

    Il cielo coperto di nubi a nascondere luna e stelle gli diede una mano, permettendogli di fuggire nell’ombra, rischiarata solo in parte dai lampioni.

    Nessuno lungo Schildower Strasse pareva aver udito il rumore della breve sparatoria. Il quartiere intorno alla villetta rimase silenzioso, sprofondato nel sonno dei suoi abitanti, che forse dovevano aver scambiato i colpi di arma da fuoco per dei latrati di cani.

    Un paio di minuti più tardi, sentendosi al sicuro, Oleg si fermò dietro a un albero, in Bertastrasse.

    Stava ansimando e il cuore gli batteva come un martello nel petto.

    La pace regnava ancora a Hermsdorf, ma non sarebbe durata a lungo. Non con un poliziotto ucciso in un conflitto a fuoco. A breve sarebbero arrivate altre pattuglie e, forse, anche uomini dei servizi segreti.

    Si tirò di nuovo il cappuccio sul capo e si tolse dai pantaloni lo sporco di terra ed erba con un paio di manate. Si accorse di uno strappo all’altezza del ginocchio sinistro, ma non ci badò. Dopodiché, con passo veloce e stando attento a muoversi celato nelle ombre, si allontanò tra le case in direzione Nord, verso la campagna e il Berliner Ring.

    Conosceva altri nascondigli dove infilarsi.

    Una volta al sicuro, avrebbe comunicato via messaggio l’accaduto.

    Però, nella mente di Oleg rimaneva, nel frattempo, una domanda, carica di rabbia e tristezza per la morte del suo compagno.

    Chi cazzo ci ha tradito?.

    6

    Un uomo arrivò su un vagone semivuoto della linea S5 alla fermata della stazione di Berlino Centrale.

    L’imponente edificio ferroviario, situato nel quartiere di Moabit, non lontano dal fiume Sprea e dal Reichstag, spiccava nel paesaggio notturno della capitale della Provincia orientale, con la grande arcata di vetro che ricopriva la struttura in acciaio e che lo faceva sembrare un’enorme serra avveniristica.

    Le

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