Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

È come guidare una Ferrari: Storia di una bipolare
È come guidare una Ferrari: Storia di una bipolare
È come guidare una Ferrari: Storia di una bipolare
Ebook148 pages2 hours

È come guidare una Ferrari: Storia di una bipolare

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Betty è affetta da una sindrome di disturbo bipolare. è stata testimone di un inaspettato episodio di violenza e, da allora, ha passato un terzo della sua vita oscillando tra momenti di depressione profondissima, annichilita in stati di inattività e di assoluto buio esistenziale, e periodi di esaltazione divampante – come quella che si può provare su una Ferrari, appunto – posseduta da un’energia selvaggia e ingovernabile, che hanno spesso messo in pericolo di vita lei e chi le stava intorno.
Lidia Mingrone, esperta psicoterapeuta, raccoglie con pazienza e attenzione la storia di una ragazza sfortunata, ma determinata a combattere e a non lasciarsi straziare da una malattia devastante: nelle pagine di È come guidare una Ferrari descrive il doloroso processo di riconoscimento di uno stato psicotico dalle caratteristiche tanto particolari da essere ancora in corso di codifica: il trauma scatenante, le prime crisi, la sempre crescente alterazione delle percezioni, la distruzione di un sistema di relazioni sociali, i ricoveri via via sempre più frequenti; fino al punto in cui Betty, in mezzo al caos del suo stato, riesce a maturare la necessità di un tentativo di controllo di se stessa, e attraverso quello, di profondo riscatto personale.
Stilisticamente accurato e coinvolgente, minuzioso nell’indagare e descrivere i meccanismi percettivi alterati dalla malattia, il romanzo è un appassionato richiamo alla dignità della persona e alla primaria importanza della comprensione profonda tra esseri umani, attraverso cui è possibile riscattare sofferenza e solitudine.
LanguageItaliano
Release dateNov 1, 2019
ISBN9788832925777
È come guidare una Ferrari: Storia di una bipolare

Read more from Lidia Mingrone

Related to È come guidare una Ferrari

Related ebooks

Biography & Memoir For You

View More

Related articles

Reviews for È come guidare una Ferrari

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    È come guidare una Ferrari - Lidia Mingrone

    Australia

    Introduzione

    Quando ho cominciato a scrivere questa storia non posso negare che mi ha invasa un senso di agitazione. Forse anche paura. Paura di non riuscire a rendere, come sarebbe stato giusto, con il dovuto rispetto che si decreta alla sofferenza umana, la storia che andrete a leggere.

    Betty, la protagonista, ha una diagnosi di disturbo bipolare dall’età di trent’anni. Oggi ha quarantacinque anni, vive sola e combatte ogni giorno con questa malattia debilitante. Conosco Betty da tanto tempo e quando un giorno mi ha chiamata dicendomi Voglio che tu scriva la storia della mia vita, la vita di una bipolare. Puoi farlo?, ho temporeggiato qualche mese, per permettere alla mia mente e alla mia coscienza di trovare il momento giusto per dedicarmi con accuratezza e attenzione a un compito così delicato. Descrivere la vita di un’altra persona, una persona malata. A quei tempi stavo ultimando la stesura del mio primo romanzo e non volevo che gli impegni si accavallassero, ritenevo di non avere il tempo quotidiano necessario per occuparmi di ogni cosa con l’impegno e la cura che ritenevo adeguati. Finalmente iniziammo, era il mese di ottobre. Ogni settimana ci si trovava a casa mia e ci parlavamo, ci raccontavamo, lei soprattutto, mi raccontava la sua storia. Abbiamo passato tante ore insieme e nello scorrere del tempo, avvertivo sempre più palpabile quel senso di comprensione che ben conosco e che rivolgo con empatia ai miei pazienti, ogni giorno. La mia formazione e l’attività di psicoterapeuta in parte facilitavano questo percorso, donandogli una connotazione di condivisione sempre più profonda e, naturalmente per me, estremamente interessante, dal punto di vista professionale e personale. Difficile dividere i due mondi, in realtà sono parte della stessa anima, un amalgama inscindibile. La capacità di provare empatia, di entrare nella più delicata introspezione, di sperimentare la più profonda attenzione per l’altro e un interesse genuino per la sua vita e i suoi disagi, sono elementi di importanza fondamentale nella professione di cura. Spesso mi dico che è un movimento circolare. Sempre e da sempre, in un meccanismo di feedback che si autoalimenta. Posseggo queste capacità perché sono psicoterapeuta, ma dall’altra parte, ho scelto di svolgere questa professione perché premevano in me queste caratteristiche personologiche che ne rendono naturale, spesso necessaria e sintonica, la scelta, l’impegno a renderle merito fino in fondo. Nulla è più disarmante della sofferenza umana e il senso di frustrazione che a volte accompagna il percorso di cura, spingendo ad alimentare quell’impegno che ne è componente necessaria.

    In quelle ore ho ascoltato ogni esperienza con attenzione, la carica emotiva che si attivava in me, con evidente chiarezza, non mi permetteva di sottrarmi a un compito che ormai sentivo mio. Ho sempre creduto nella forza taumaturgica del racconto, della scrittura e della rilettura degli eventi del passato. La narrazione. In fondo, anche su questo si basa il difficile percorso della psicoterapia. I significati che noi attribuiamo alle nostre esperienze hanno la forza di compromettere, nella loro lettura, tutte le successive esperienze, quelle analoghe e anche quelle diverse. A volte basta riuscire a rileggere in modo diverso i nostri vissuti per sganciarci finalmente da un meccanismo disfunzionale reiterato nel tempo e dal quale non sappiamo uscire. Come un ingranaggio inceppato, che ripete all’infinito lo stesso movimento. Se riusciamo a spezzare un solo dentino di quell’ingranaggio malato, tutto il meccanismo ripartirà con un movimento nuovo e non girerà mai più come prima.

    È sorprendente come alcune piccole nuove consapevolezze possano cambiarci la vita. Quando riusciamo ad assumerci la responsabilità della nostra vita e delle storie che in essa sopravvivono, il cambiamento comincia a dare o ridare senso a molte cose. Del resto, è come viviamo le nostre esperienze che ci rende quelli che siamo, adattati o disadattivi, forti o fragili nell’anima, consapevoli o persi nel tempo. E ancora, come ci raccontiamo la nostra vita. Solo noi possiamo modificare la lettura delle nostre esperienze quotidiane, presenti e passate, aiutandoci a divenire, almeno in parte, padroni della nostra vita. Nietzsche diceva divieni ciò che sei.

    Certo è che, come nel caso di Betty, a volte non ci è dato di avere il controllo di quanto accade intorno e dentro noi. Gli eventi ci travolgono lasciandoci disarmati e se non riusciamo subito a raggiungere gli strumenti adeguati per fronteggiarli e per spiegarli a noi stessi e al mondo, ne rimaniamo vittime. La vita di Betty è stata scandita da lutti, abbandoni e malattie, diventate anch’esse abbandoni, molto spesso.

    Le ore di vita raccontata passavano e io assorbivo tutte quelle sofferenze che si facevano presenti con la stessa forza a ogni incontro, cercando di diluirle in quel mare di emozioni, le sue e le mie. Ho imparato a conoscere la solitudine, quella vera, atavica, forzata e maledettamente cronicizzata. Quella solitudine dell’anima fatta di vuoto, di buio e di mostri che in quel buio ristagnano pronti a essere perturbati, risvegliati dalla paura, aspettando solo l’occasione per mostrarsi con devastante intenzione. Ho letto la solitudine di chi si trova a doverla sperimentare forzatamente, malgrado le proprie propensioni naturali a essere socievole, estroversa e piena di vita.

    Il disturbo bipolare si discosta da tutte le altre patologie psichiche per la complessità che manifesta, soprattutto in relazione alle personalità così diverse che ne sono purtroppo portatrici. Il trattamento di questo disturbo è estremamente complicato, difficile da gestire.

    Cosa sia il disturbo bipolare, nelle sue infinite varianti e sfaccettature, in fondo non è così semplice da definire. Proverò a descrivere il più possibile quanto è a mia conoscenza, personale e diretta, ma anche arricchita da una lunga conversazione con la psichiatra che si è occupata del caso di Betty in due dei suoi tre ricoveri in reparto psichiatrico. Il cosiddetto repartino. A questo proposito è alla dottoressa P. che vanno i miei più profondi ringraziamenti per avermi aperto la mente su qualcosa che non conoscevo a fondo, sia perché la mia professione di psicoterapeuta in studio privato non mi porta quasi mai ad avere a che fare con pazienti di tale gravità, sia perché nulla più dell’esperienza diretta di chi lavora quotidianamente con questo tipo di utenze può aiutarci a comprendere quanto sia vasta e incolmabile la sofferenza umana. Ma soprattutto perché non si finisce mai di imparare.

    Il disturbo bipolare, al di là della categoria diagnostica che lo annovera tra i disturbi dell’umore, è così tanto sfaccettato al suo interno che neanche la schizofrenia è così complicata da valutare, nei criteri diagnostici. Se per la schizofrenia i deliri, per esempio, hanno similarità fra loro, come quelli persecutori, mistici e via dicendo, per il disturbo bipolare occorre mettersi nella posizione di considerarlo una patologia a sé. Il soggetto con tale disturbo si trova a vivere, come ben descrive la protagonista del racconto, come su un’altalena, su una barca in mezzo a una tempesta. Oscillando tra fasi up, maniacali e ipomaniacali, dove non c’è riposo e ci si sente invincibili, sostenuti da un’energia inesauribile, e fasi down, caratterizzate da una depressione incolmabile fatta di tristezza, chiusura e vuoto. Questi cicli si ripetono a cadenze differenti, a seconda del soggetto. La grande distinzione infatti, nel valutarle, è tra disturbo bipolare a cicli rapidi, rapidissimi e a cicli lenti. Da qui le prospettive prognostiche, vale a dire, il futuro del soggetto e la possibilità che abbia una qualità di vita accettabile. Da qui la sua capacità di fare fronte a tale disturbo, con le proprie risorse. Più il ciclo è lento e maggiormente compatibile sarà con un livello di vita accettabile, in senso di qualità della vita stessa, perché il soggetto, nei lunghi spazi silenti della malattia, riesce a costruire e a consolidare rapporti maggiormente stabili, anche se con fatica. Queste persone riescono a mostrare una buona adesione al lavoro, riuscendo a realizzare un’esistenza mediamente adeguata e appagante. Alcuni studi hanno rilevato che il ciclo può modificarsi nel tempo e divenire rapido, qualora sia stata somministrata una terapia antidepressiva, non essendo riusciti a formulare un’ipotesi diagnostica adeguata, ma identificando la fase depressiva come episodio depressivo, non associato a episodi maniacali o ipomaniacali. Questo accadeva soprattutto in passato, almeno, così si spera.

    Spesso il disturbo bipolare convive con abuso di sostanze, alcol e droghe più in generale, soprattutto la cocaina. Questa sostanza eccitante sortisce, come effetto nel tempo, la possibilità di velocizzare i cicli rendendoli rapidi, peggiorando così le prospettive prognostiche del paziente. Quindi, se prima lo stimolo a velocizzare i cicli era indotto dai farmaci antidepressivi, oggi questo trigger è assegnato alle sostanze da abuso. Purtroppo tempo fa si rendeva difficoltoso formulare una diagnosi adeguata, forse perché non si prestava scrupolosa attenzione all’anamnesi, personale e famigliare, forse per la scarsa conoscenza del disturbo in termini di dati statisticamente rilevanti, talvolta per disattenzione o inadeguatezza dell’ambiente di cura. Di fatto, quando un disturbo di tale gravità veniva trattato come disturbo depressivo, il disastro era assicurato. Con l’antidepressivo il paziente esplodeva come una mina cui si era accesa la miccia improvvisamente e farlo rientrare dalle espressioni maniacali era compito assai difficile. Si è rilevato, nel formulare adeguate anamnesi su questi pazienti, che alcuni di loro riportavano un’infanzia di iperattività, che si riconosce essere spesso prodromo del disturbo bipolare conclamato nell’età adulta. Diverse scuole hanno affrontato il disturbo bipolare, dalla diagnosi alla cura, fino alla qualità della vita, dalla scuola di Pisa, a quella di Milano e via dicendo. L’impegno di tutti gli specialisti della psichiatria ha avuto il merito di ribaltare rumorosamente la valutazione di quei pazienti che prima erano definiti schizofrenici, ma che in realtà erano squisitamente (se così si può affermare) bipolari. Si capisce l’importanza di questo forte cambiamento, poiché solo da una corretta diagnosi si può mettere a punto il trattamento adeguato al paziente. Una famosa battuta, riportata spesso ai convegni di psichiatria, recita lo stesso paziente, se visto a Milano è schizofrenico, se visto a Pisa è bipolare, se visto in Sicilia ha un disturbo di personalità. Confidiamo nell’unificazione diagnostica dell’Italia, affinché le persone siano riconosciute nel loro essere e nel loro disagio, e ricevano poi le cure adeguate. Si potrebbe facilmente supporre che, nel secolo scorso, i manicomi fossero pieni di bipolari, identificati, nelle loro fasi maniacali, come schizofrenici deliranti. Oppure presunti antisociali che popolavano le carceri. Ecco che in fondo, chi finiva in quelle condizioni, per forza di cose, diveniva inevitabilmente matto o delinquente. La prognosi, in quei casi, era presumibilmente disastrosa. Una parabola discendente verso l’emarginazione sociale.

    Purtroppo, per alcuni bipolari la prognosi è peggiore rispetto ad altri e la discriminante ci è fornita dalla presenza o dall’assenza di sintomi deliranti.

    Nel caso di Betty, i sintomi deliranti erano fortemente presenti, in sintonia con il momento in cui si manifestavano e con la percezione che lei stessa aveva della propria realtà. Betty non aveva consapevolezza dello scollamento dalla realtà stessa, questo non facilitava i tentativi di aiuto, né la co-costruzione di una condizione di vita stabile nella sua quotidianità.

    Il bipolare non sperimenta mai, o quasi mai, la linea della normalità, o è in fase up, o è in fase down. Per il resto è sempre in bilico. Una faticaccia… Ancor peggio, nella fase down sperimenta un tale senso di malessere che farebbe di tutto per saltare a piè pari in fase up, nella quale si sente forte, a volte invincibile. Va detto, infatti, che la fase depressiva è quello spazio periglioso in cui maggiormente vi sono idee suicidarie e possono essere realizzati atti estremi. E va detto inoltre che, purtroppo, la percentuale di suicidi è rilevante, anche nel caso di morti sopravvenute a seguito di comportamenti a rischio, come l’alta velocità in auto, l’uso di sostanze e così via. Idee suicidarie in fase down e comportamenti a rischio in fase up… che dire, mai tranquilli. Una vita a rischio.

    Tuttavia, il bipolare non riesce quasi mai a sostare in quella terra di mezzo, sotto la curva gaussiana dove la maggior parte degli umani vive a ritmi di cosiddetta normalità, non si accontenta

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1