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Creature in gabbia
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Creature in gabbia

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About this ebook

Quando Marco Salvi, detective privato con un passato di giornalismo investigativo, è assunto per ritrovare Clotilde, una diciottenne della provincia di Rovigo scomparsa da quasi un anno, non immagina in quali acque torbide dovrà nuotare per riuscire nell’intento.
Le mura del casale della famiglia Malfatti nascondono segreti inconfessabili e atroci retroscena. Giulio, un tempo padre premuroso, è diventato un uomo spregevole e complice di una nuova moglie dissoluta e lussuriosa, mentre Patrizia, sorellastra di Clotilde e figlia di prime nozze, sopravvive a un’esistenza tormentata rifugiandosi in un mondo irreale e pericoloso.
Clotilde, prigioniera in una cittadella degli orrori, si trasforma, insieme con altre giovani donne, in una lottatrice per compiacere il pubblico lascivo del suo carceriere. La vita in quel mondo estremo plasmerà il suo carattere irrobustendola, nella speranza di ritrovare la libertà.
Nello splendido scenario di Verona e durante le ripetute trasferte a Rovigo, Marco troverà nel suo fidato amico, l’ispettore di Polizia Luca Veloso, il primo alleato nella ricerca della verità, e nell’affascinante Anna Pisani la donna in grado di fargli risentire i battiti del cuore.
LanguageItaliano
PublisherAndrea Gerosa
Release dateNov 6, 2019
ISBN9788835328025
Creature in gabbia

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    Creature in gabbia - Andrea Gerosa

    Andrea Gerosa

    Creature in gabbia

    UUID: 1f638aba-8e38-485f-8e93-94379e5adc14

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    "Prima l'amore fulgido, quello che fa bene.

    Poi quello oscuro, quello che fa male."

    Jo Nesbø

    Prologo

    Circa cinque mesi prima

    Fango!

    Fango ovunque!

    Le vortica intorno come corrente del mare. Denso e informe, le striscia sulla pelle. Lo sente addosso, mentre s’insinua ovunque modellandole il corpo nudo come quello di una scultura greca.

    Può esserle amico o nemico, e in un modo o nell’altro condizionerà il risultato finale dello scontro, così com’è accaduto sinora.

    Lei ha imparato a gestirlo, perché ormai ci convive da tempo. Movimenta la scena di quel palcoscenico su cui si esibisce per il piacere di un manipolo di maniaci.

    La guardano quando entra, ammirano le sue curve quando si toglie l’accappatoio di raso nero, sono compiaciuti nel vederla pronta a combattere, sbavano come animali quando sale su quel ring chiuso tra le mura di un vecchio stabilimento, e infine esultano quando il getto di fango la annaffia per preparare il quadrato di lotta.

    Le grida sono assordanti, il gergo lascivo, i gesti eloquenti. Il caldo umido, impregnato del sudore di quella gente, la opprime.

    Deve concentrarsi, cercando di annullare il caos che la circonda per focalizzare l’attenzione soltanto sulla sua avversaria: come sottometterla e vincerla, per aggiudicarsi altri giorni di vita.

    Quella notte, però, è diverso.

    Di fronte non ha una persona qualunque, non c’è una ragazza qualsiasi, che come lei deve vincere per sopravvivere.

    Gli occhi che la osservano dall’angolo opposto, a cinque metri di distanza, sono quelli di Carlotta, la compagna di sventura con la quale ha condiviso tutto in quei mesi di prigionia, fin dal giorno in cui è stata sequestrata e sbattuta in una stanza, nei sotterranei di quello stesso capannone.

    Lei si trovava lì da parecchi mesi, e le era sempre rimasta accanto infondendole coraggio, come un sottile bagliore di luce in fondo a un lungo tunnel. Ha curato le sue ferite, soprattutto quelle dell’anima, l’ha aiutata a non soccombere all’impatto con quelle sostanze micidiali che ogni giorno hanno insidiato la sua mente. L’ha consolata nei momenti di sconforto e l’ha iniziata a quella realtà ostile insegnandole cosa doveva e, soprattutto, non doveva fare. Con lei ha varcato i limiti di una dimensione oscura uscendone con una forza, morale e fisica, che mai avrebbe pensato di possedere. Si è spinta fino ai confini di un mondo fluido e leggero, dominato da un senso di piacevolezza e profondo benessere. Un mondo ipnotico, fatto d’inganni che si rivelavano a ogni risveglio.

    Carlotta attende la sua prima mossa, dopo che il giudice le ha fatte avvicinare al centro. Il fango ha ricoperto completamente quella specie di vasca gigantesca; pochi istanti, il tempo di un primo affondo, e si sarebbero confuse nella melma, con i corpi avvinghiati in un duello che avrebbe decretato un unico vincitore.

    La tensione cresce, il pubblico rumoreggia sempre più, mentre loro si guardano mute. Sarà l’ultima volta che accadrà; l’ultimo istante in cui si scambieranno uno sguardo amico.

    C’è tristezza nei loro occhi, c’è la consapevolezza che una di loro sarà definitivamente assorbita dall’incubo, dall’antro nero senza ritorno.

    Ai confini del quadrato si staglia una figura vestita di bianco, l’uomo che decreterà il giudizio finale. Bianchi i pantaloni, bianche la camicia e la giacca. È il padrone assoluto di quell’arena; l’unico che si astiene da commenti o grida, il solo che guarda chiunque con indifferenza, ma in grado di zittire tutti con una sola occhiata.

    Lui, alla fine del combattimento, quando non avranno più energie per continuare, con il solo gesto del pollice alzato sancirà chi di loro potrà tornare nella sua stanza a far compagnia alle altre ragazze, mentre l’altra… Nessuna di loro ha mai saputo cosa sia accaduto all’altra.

    Che la lotta abbia inizio!

    1

    Giulio

    Lo incontrai in un bar di Piazza San Zeno. Era seduto a un tavolino d’angolo, lontano da occhi e orecchie indiscrete. La giornata era piuttosto calda, malgrado fossimo ancora in primavera, e il sole picchiava dritto sulle teste dei turisti in attesa che si aprissero le porte della Basilica.

    Era in perfetto orario, anzi addirittura in anticipo, qualità che apprezzo molto. I ritardatari, soprattutto quelli cronici, rappresentano una categoria del genere umano che non tollero. Chissà per quale ragione sentono il diritto di farsi attendere, come se fossero i soli a doversi misurare con il tempo. Non si deve odiare nessuno, eppure quelle persone le detesto, specie quando esibiscono il loro orologio, perennemente in ritardo pure lui, dicendo: " Cinque minuti dai, cosa vuoi che sia!". Non sanno con chi hanno a che fare. Appena pronunciano quelle parole, io gli metto sotto il naso i miei due orologi: quello che porto al polso e l’altro, nascosto nel taschino dei pantaloni e appartenuto a mio padre, che ogni sera regolo rigorosamente. La stragrande maggioranza delle persone mi giudica un maniaco, ma io mi reputo solo una persona precisa e rispettosa del mio tempo e di quello altrui.

    Si alzò stringendomi la mano con vigore e quindi tornò a sedersi frapponendosi tra me e il panorama sulla piazza, di là dalle vetrate del locale. Giulio Malfatti, cinquant’anni compiuti da poco, era enorme; le maniche arrotolate fino ai gomiti mostravano due braccia muscolose e abbronzate, mentre il collo taurino si allungava su un viso ampio segnato da una vita passata all’aria aperta. Sotto la camicia sbottonata, la pelle più chiara, perché meno esposta ai raggi del sole, rivelava la tipica abbronzatura da contadino.

    Abitava vicino a Rovigo, in un vecchio casolare di campagna ereditato dalla famiglia e rimodernato alcuni anni prima, e le sue giornate si susseguivano, ripetitive e monotone, nella cura dei terreni che si estendevano intorno alla casa.

    Il cameriere venne a prendere l’ordinazione, un’acqua tonica per me e un prosecco per lui; doveva trattarsi del secondo bicchiere perché sul tavolo ce n’era un altro, insieme a una ciotolina di arachidi ormai quasi vuota.

    La ringrazio di essere venuto, l’ispettore Veloso mi ha parlato di lei e del suo lavoro come giornalista di cronaca.

    Quello fa parte del mio passato, oggi collaboro solo saltuariamente con alcune Testate. In effetti, ho deciso di intraprendere questa nuova strada anche grazie a Luca.

    Assunse un’espressione perplessa e compresi che avrei fatto meglio a soffermarmi sull’argomento per chiarirgli il concetto.

    Mentre lo affiancavo nella scrittura dei suoi libri, incentrati sulle vicende delle tre indagini più famose, ho scoperto il desiderio di dedicarmi ad altro. Così ho conseguito la licenza di detective privato. Diciamo che mi ha aiutato a realizzare qualcosa cui pensavo da tempo.

    Sì, li ho letti tutti e tre. La lettura di thriller è il mio unico hobby e proprio grazie a questo ho conosciuto l’ispettore a una presentazione. Mi ha detto che lei è in gamba nel suo lavoro.

    Questo lo lascio dire agli altri.

    Osservò la cicatrice sulla mia fronte e quando distolse lo sguardo, mi chiese se si trattasse di un segno di battaglia.

    Non l’unico risposi.

    Infilò una mano nel taschino della camicia, estrasse una foto e le diede uno sguardo sfuggente ma intriso di tristezza.

    Lei è Clotilde disse appoggiandola sul tavolo.

    Al telefono mi aveva fatto una descrizione succinta: brava ragazza, casa e studio, famiglia unita, nessun grillo per la testa. Nessuna ragione apparente per scappare.

    Mancava da quasi un anno.

    Dal 1974 al 2017, solo in Italia, erano scomparse più di 210.000 persone. Molte di queste, più dei due terzi, erano state ritrovate, ma all’appello ne mancavano comunque più di 50.000, delle quali non si sapeva più nulla. Il fenomeno registrava una crescita negli ultimi anni a causa dell’aumento dei flussi migratori; persone che approdavano nel nostro paese e, una volta identificate, facevano perdere le loro tracce. Clotilde, una giovane ragazza bianca di diciotto anni, non era però un’immigrata.

    La fotografia la ritraeva seduta su una panca con una maglietta gialla e dei pantaloncini corti di jeans, intenta a rammendare una gonna. Guardava l’obiettivo con occhi vivaci; i capelli neri, corti sulle spalle, scompigliati dal vento. La corporatura era minuta ma ben proporzionata, e i lineamenti del viso simili a quelli del padre, così come la carnagione olivastra.

    A quando risale la foto?

    A poco prima della scomparsa. È stata scattata il giorno prima del suo diciottesimo compleanno.

    Mi dica cos’è accaduto il giorno in cui è sparita.

    Tacque per un attimo chinando il capo, come se dovesse cercare la forza per rievocare il ricordo di quel momento. Quando rialzò lo sguardo, i suoi occhi erano velati di malinconia. Per quanto fosse stata sua l’iniziativa di quell’incontro, era chiaro che avrebbe fatto di tutto pur di non essere costretto a rinvangare la memoria parlando della figlia al passato, come fosse morta. Io aprii il mio blocchetto per gli appunti, e restai in attesa.

    Non ricordo nulla di diverso dal solito. Erano gli ultimi giorni di lezione e si è alzata presto, come sempre, per andare a scuola a piedi. Io volevo accompagnarla in auto perché dovevo sbrigare alcune commissioni in città, ma lei ha preferito così. A scuola, però, non ci è mai arrivata.

    Quindi non ha notato niente di strano?

    No rispose in modo asciutto.

    Aveva un ragazzo?

    Non che io sappia.

    Proverò a chiedere a sua moglie e alla sorella, magari loro…

    Dubito possano esserle d’aiuto. Mia moglie Antonietta, da quando si è ammalata, non c’è più né con il corpo, né con la testa e la scomparsa di Clotilde ha ulteriormente peggiorato la situazione. La sua non è più vita ormai e Clotilde era molto d’aiuto in questo, perché Patrizia…

    Patrizia?

    L’opposto di Clotilde. Se non fosse mia figlia, la potrei definire come una poco di buono. Ha quasi venticinque anni, è nata da un mio precedente matrimonio, e diciamo che… non ha mai legato con la sua nuova famiglia. Mi sono risposato a trent’anni, dopo la morte di sua madre, e per lei è stata difficile da digerire, soprattutto dopo la nascita di Clotilde. Si è sempre più estraniata, conducendo una vita propria, pur restando a vivere nel casale. Anche adesso, che dovrebbe essere lei a prendersi cura di Antonietta, si limita a fare il minimo indispensabile, come se non le interessasse niente della donna che comunque l’ha cresciuta. Meglio lasciarla stare, mi creda.

    Lo terrò a mente, ma preferirei comunque parlare con loro.

    Veda lei.

    Cosa mi dice, invece, dei suoi amici?

    Non ne ha molti. Come le dicevo mia moglie non sta bene; cinque anni fa ha avuto un ictus e da allora è bloccata a letto. Clotilde, oltre a prendersi cura di lei, si occupava della casa, poiché io sono sempre indaffarato col lavoro, e aveva poco tempo per gli amici. Negli ultimi tempi era particolarmente stanca; si figuri che una volta si è pure addormentata a scuola. Insistevo perché si facesse visitare dal medico, ma lei, poveretta, diceva che era solo affaticata.

    A quelle parole gli s’inumidirono gli occhi, ma c’era qualcosa di teatrale nei suoi gesti che non mi convinceva del tutto.

    Non ha mai preso in considerazione la possibilità che se ne sia andata di sua spontanea volontà?

    Lo escludo categoricamente, me lo hanno chiesto anche i poliziotti.

    Cosa le ha detto la Polizia?

    Poco o nulla in realtà. Ho come riferimento un certo Commissario Pasqualin; all’inizio sosteneva che c’erano delle buone piste, ma poi, col passare del tempo, i contatti si sono fatti man mano sempre più radi. Ormai, se non telefono io…

    Il cameriere venne a portare le ordinazioni e lui si scolò in un lampo il bicchiere, pulendosi poi la bocca direttamente con il dorso della mano.

    Mi annotai sul taccuino il nome di Pasqualin, ripromettendomi di chiedere a Luca informazione su di lui, e magari di farmi avere una copia dei verbali.

    Qual è esattamente il giorno in cui è scomparsa Clotilde?

    Venerdì 25 maggio 2018.

    Era il 27 aprile 2019.

    Più tempo passava, più aumentavano le probabilità d’insuccesso. A volte si ritrovavano persone dopo una settimana o due, ma nella maggioranza dei casi se non accadeva nei primi due giorni, significava che non volevano essere trovate, oppure che i loro corpi erano stati abbandonati da qualche parte in attesa di essere rinvenuti.

    Allora, come pensa di procedere? mi chiese.

    Vorrei venire a casa vostra, già domani se possibile, per parlare con sua moglie e Patrizia e vedere la camera di Clotilde. Non penso di trovare nulla, ma preferirei comunque farlo, quindi sentirò gli inquirenti e vediamo cosa ne esce.

    Pensa possa essere ancora viva?

    Mi presi del tempo prima di rispondere, estraendo dalla tasca della giacca il necessario per rollarmi una sigaretta. Era un vizio ereditato da mio padre, insieme con l’orologio da taschino. Riempii la cartina con del tabacco cubano, la arrotolai in modo che i due lembi fossero sistemati in modo perpendicolare tra loro e infine, con la punta della lingua, ne leccai il bordo. La guardai da ogni angolatura con soddisfazione: perfetta e pronta per essere accesa.

    C’è sempre una probabilità risposi diplomaticamente.

    Ho chiesto a lei cosa pensa tornò a insistere.

    Lo guardai senza replicare, ma forse lui riuscì a leggere nei miei occhi la risposta.

    Lo salutai con l’impegno di richiamarlo presto e poi rimasi a osservarlo mentre usciva dal locale. Era chino su se stesso, come dovesse sostenere sulle spalle il peso di un macigno. Avevo però l’impressione che qualcosa, nel nostro colloquio, non mi fosse stato rivelato; come un intimo segreto da tenere celato.

    2

    L’indagine

    In auto verso Badia Polesine, decisi di chiamare Luca.

    Campi coltivati principalmente a mais si estendevano a macchia d’olio, con i cannoni per l’irrigazione in funzione; nella zona non pioveva ormai da diversi giorni e le piantagioni soffrivano quella siccità prolungata.

    Dopo aver inserito il vivavoce dell’auto, schiacciai il tasto di chiamata restando in ascolto degli squilli.

    Ispettore Veloso, buongiorno. Come posso aiutarla?

    Caspita che accoglienza! Siete tutti così cortesi in Questura? Sono Marco, ciao.

    Che domanda mi fai? Certo! La cortesia nei rapporti con i cittadini ci contraddistingue, non lo sapevi? Così qualcuno potrà anche prendersela con noi se non catturiamo i delinquenti, ma nessuno potrà accusarci di non essere gentili e premurosi!

    Era il solito. Sempre pronto a scagliarsi da solo contro i mulini a vento quando vedeva qualcosa che non gli andava a genio. Uno dei tratti caratteriali che più condividevo con lui.

    Mi sembra giusto. Mantenete alta la vostra reputazione!

    Chissà, ma dimmi di te, hai parlato con Giulio Malfatti?

    Ti chiamo proprio per questo. L’ho incontrato ieri a San Zeno e adesso sto andando a casa sua per parlare con moglie e figlia.

    E chiami per chiedermi un favore.

    Diciamo che mi servirebbero delle informazioni.

    Usa pure una parola diversa, la sostanza non cambia. Con un’indagine ancora aperta, però, non so se…

    Aperta dopo un anno? Dubito qualcuno la stia seguendo.

    Potresti aver ragione ma visto che il responsabile è Pasqualin, meglio andarci con i piedi di piombo.

    Lo conosci allora, che tipo è?

    Uno che non vorrei mai avere nella mia squadra. Tutto fumo e niente arrosto, e con parecchia puzza sotto il naso.

    Vedo che il questore ha fatto proseliti con la sua mania di parlare per proverbi.

    Rise per la battuta e mi chiese di cosa avessi bisogno.

    I verbali e tutti gli incartamenti. C’è qualcosa che non mi quadra e voglio capire se nell’indagine sono rimaste delle zone d’ombra.

    Devi ancora iniziare e hai già dei sospetti? Sei peggio di me.

    Sei stato tu a insegnarmi a diffidare di tutto e tutti.

    Oddio! Ho creato un mostro!

    Stavolta fui io a mettermi a ridere.

    Vedrò cosa posso fare, ma non ti prometto nulla. Ho già molte persone che mi amano follemente in Questura a Verona, non vorrei aggiungerne altre anche a Rovigo.

    Il suo temperamento lo aveva spesso portato a scontrarsi con i superiori. Fortuna che aveva Freddi dalla sua parte, ma prima o poi il questore sarebbe andato in pensione, e allora avrebbe dovuto confrontarsi direttamente con chi gli remava contro. Le occasioni per cambiare aria non gli erano mancate, ma non aveva mai voluto allontanarsi da Verona, nemmeno quando la sua compagna Camilla, tenente dei Carabinieri, si era trasferita prima a Roma e poi a Venezia.

    Sono nelle tue mani. Senza quei documenti dovrei ripartire da zero, e dopo un anno dalla scomparsa sarebbe un lavoraccio.

    Non disperare Marco. Ti aggiorno presto.

    Non feci in tempo a chiudere la chiamata che il cellulare iniziò a squillare. Era mia madre e mi preparai alla solita raffica di domande.

    Buongiorno! Come stai oggi? le chiesi.

    Dove sei? Con chi sei? Che cosa fai?

    Ti sento in piena forma, come sempre!

    Bando alle ciance figliolo! Ti ho fatto delle domande precise ed esigo delle risposte. Avrò diritto di sapere dov’è mio figlio!

    Avrei fatto meglio ad assecondarla, altrimenti avrebbe iniziato con la sua solita paternale: a suo dire non mi facevo mai sentire, mentre io cercavo di farle capire che non me ne dava il tempo, giacché era lei a telefonarmi quotidianamente e a qualsiasi ora del giorno. Malgrado fosse ormai prossima agli ottant’anni, era una donna autonoma e godeva di una salute di ferro; l’unica pecca era la sua memoria che mi costringeva a ripeterle le cose più volte.

    Sono da solo mamma, e sto andando a Rovigo per un nuovo caso.

    Ancora con quel tuo dannato lavoro. Non capisco perché non hai continuato a fare lo scribacchino! Se non altro non dovevo preoccuparmi per i tuoi continui spostamenti.

    Mamma, ti ricordo che non sono più un bambino, e non occorre che tu sia in pensiero. Io sto bene e quello che faccio mi piace. Dovresti esserne felice, non credi?

    Sarei felice se ti sapessi con una donna a fianco! Quando mi farai diventare nonna? Quando sarò nella tomba?

    Eccola che ricominciava! Non c’era verso di distoglierla dai soliti discorsi. Una donna importante c’era stata nella mia vita, e ci avrei pure fatto dei figli, se un teppista di strada non me l’avesse portata via. Questo, però, lei non riusciva mai a ricordarlo o forse, più intelligentemente di me, lo aveva rimosso dalla memoria.

    Dimmi di te. Cos’hai fatto di bello ieri sera? le domandai sviando il discorso.

    Ah, caro mio, ieri sera sono andata a letto con James Patterson, quello sì che ci sa fare!

    La divertiva usare quell’espressione che qualcuno avrebbe potuto equivocare. In realtà, significava che aveva trascorso la serata leggendo un libro di Patterson. Lettrice accanita, soprattutto di thriller, aveva trasformato quella passione in una sorta di mestiere. Scriveva recensioni per le pagine culturali di alcuni periodici e, come se non bastasse, intervistava scrittori in occasione di presentazioni in librerie e salotti letterari. L’amore per la lettura era l’unica cosa che avevamo in comune, e il solo terreno di dialogo che riusciva a distoglierla dalle mie presunte mancanze nei suoi confronti.

    Non ne dubito! Un thriller avvincente?

    Altroché. Non come quelli del tuo amico Veloso!

    Si riferiva ai tre libri che Luca aveva scritto con il mio aiuto.

    Ma se non li hai nemmeno letti!

    Naturale che non li ho letti. Figurati se un ispettore di Polizia è in grado di scrivere qualcosa d’interessante! Con la tua consulenza poi…So già che impiegherei male il mio tempo.

    Sempre gentile la mia mamma, pensai. Era uno strano modo, il suo, di dimostrare l’affetto nei confronti del figlio.

    La tua stima nei miei confronti mi commuove. Comunque, ora devo lasciarti perché sto arrivando a destinazione e devo seguire le indicazioni del navigatore. Ci sentiamo presto buona giornata.

    Certo, ci sentiamo quando ti richiamerò, non certo prima rispose seccamente prima di chiudere la comunicazione.

    La casa si trovava in fondo a un rettilineo; una stretta strada in terra battuta e ghiaino che correva sopraelevata tra i campi, lungo la quale due macchine passavano a fatica. Mi augurai di non incrociare nessun veicolo dal lato opposto, perché ero troppo affezionato alla mia vecchia BMW per vederla rovinare mestamente tra le coltivazioni di granturco.

    Bellissima! Un vecchio casolare ristrutturato in modo stupendo.

    Si contavano due porte e quattro finestre al piano terra e altre sei finestre sia al primo sia al secondo piano. La facciata color sabbia, con gli infissi di un tenue aragosta e il tetto di tegole rosse di varie gradazioni, si mostrava davanti agli occhi in uno scenario da cartolina, circondata da una distesa interminabile di terreni. Davanti alla casa la strada si allargava in un ampio spiazzo con una fontana al centro i cui zampilli d’acqua si originavano dalle ali di una Nike, personificazione della vittoria. Mi parve del tutto fuori luogo l’aver collocato una statua simile in quell’ambiente contadino, e immaginai che fosse opera di un architetto con un gusto estetico a dir poco bizzarro.

    Nonostante la bellezza, il casale aveva però un aspetto trasandato, come se quelle mura subissero il segno dell’incuria e dell’indifferenza che dovevano aver contagiato la famiglia dopo la scomparsa di Clotilde. Un trattore e degli attrezzi abbandonati davanti a un porticato; sacchi mezzi rotti che perdevano sementi, lasciati a casaccio uno sopra l’altro; vasi di terracotta, che un tempo dovevano aver abbellito la casa con piante fiorite, ricolmi di foglie secche e lasciati al loro triste destino. Non c’erano segni di vita, niente rumori e nessuna presenza, solo una cupa immobilità che gravava nell’aria come volesse risucchiarne il respiro. Se quello era l’effetto in una giornata primaverile di sole, non osavo immaginare come doveva apparire nelle fredde e umide notti invernali.

    Suonai il campanello, e dopo qualche istante venne ad aprirmi una ragazza. Il trucco esageratamente marcato, soprattutto intorno agli occhi, le conferiva l’aspetto di una donna dal fascino enigmatico. Le cose che mi colpirono all’istante furono due: la bocca, rossa e carnosa, con una piccola increspatura nel labbro inferiore che ricordava Angelina Jolie, e lo sguardo, fiero e profondo,

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