L'ascesa del campione
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Un pastore destinato a diventare un guerriero. Un apprendistato sanguinoso. Un Campione da sconfiggere e una Città da salvare. Perché Bront non è uno gnomo come gli altri, e il reame di Nigmàr non è mai stato così in pericolo. In un mondo arcaico, sospeso tra il fantasy e il mito, tra foreste e cripte, arene e palazzi sontuosi, si consuma la sua ascesa: una fiamma che splende al buio, dolorosa e feroce. Inseguimenti e cacce, discese, incontri e scontri evocativi, spietati: perché l’epica e la fiaba sono orizzonti che si incontrano, e gli gnomi possono essere eroi, le streghe profetesse e i mostri natura, destino.
Francesco Battaglia è laureato in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Milano. Stregato dalla mitologia classica, dal medioevo e dal fantastico, vive al servizio della parola narrata. Sulle ali della letteratura, come un cavaliere errante, scrive e vaga per i licei da supplente ramingo. J.R.R. Tolkien, Edgar Allan Poe e Giovanni Pascoli sono i suoi tre grandi maestri. Storie di Nigmàr (Irda, 2016) è il suo romanzo di esordio. Nel 2019 ha pubblicato Esperide. L’eroe dello scudo (Watson) e la raccolta poetica Ceneri scarlatte (Kanaga). È attivo anche sul web, dove collabora con L’insolenza di R2-D2 dedicando articoli a Star Wars.
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L'ascesa del campione - Francesco Battaglia
Wars.
Prefazione dell'autore
Non è la prima volta che racconto dello gnomo Bront. Le sue avventure furono oggetto d’indagine già ai tempi di Storie di Nigmàr, il mio primo esperimento narrativo, una ripresa in chiave fantasy, romanzesca, delle Bucoliche virgiliane. In quel testo l’intera vicenda veniva filtrata, quasi evocata, attraverso gli occhi, la voce e il sentire di Flint, il fratello buono
, pastore e aedo di un mondo arcadico, favoloso: dieci egloghe, appunto, allusive e liriche. La stessa Nigmàr, la Città degli gnomi, nelle Storie appariva quasi sempre lontana, vaga e idealizzata, perché lontano, benché mitizzante, era lo sguardo di chi la osservava. L’ambiente urbano, sede del potere regio e di un ordine che rasserena, viene conquistato dai furori di Bront, ma un’ellissi reticente impedisce al lettore di assistere all’ascesa del Campione. Tali conquiste, senza filtri, costituiscono invece il nucleo di questo romanzo, e gettano sul mondo di Nigmàr una luce diversa, meno rassicurante: lo sguardo pastorale si eclissa ed emerge quello del guerriero, dell’eroe tormentato, sporco dentro e fuori, ma non per questo malvagio. La natura che Bront si porta dentro, vitalistica e selvaggia, sconvolge i formalismi e libera dalle costrizioni: la belva che s’inurba muore molte volte, ne risorge altrettante e si scopre più forte, la sola capace di unire e rinnovare. Bront è un rivoluzionario inconsapevole, o forse, più precisamente, un conservatore primitivo, tribale. Agisce in preda a sentimenti totalizzanti, alogici e irrazionali; dalla natura ha presagi che non sa, non vuole interpretare. La comprensione, comunque possibile, è lasciata interamente al lettore: a lui il compito di destreggiarsi tra i grovigli veritieri, ma grezzi, di visioni passate e future. Passate, perché i riferimenti alle Storie sono molteplici; future, perché ho scritto questo romanzo durante l’interregno che precede l’uscita di Esperide. L’eroe dello scudo (Watson), primo tassello di una trilogia del ciclo di Nigmàr, e che vedrà Flint co-protagonista. All’inizio di Esperide, Bront è già il Campione, e assiste all’arrivo di Esper, un eroe in esilio. Leggere l’ascesa del primo è utile per preparare la venuta del secondo, creare collegamenti e suggestioni ulteriori. Perché ogni libro scava un abisso connesso ad altri abissi, un reticolato sotterraneo in cui scrittori e lettori possono perdersi, esplorare e sprofondare insieme.
Nota dell’Autore
Questo romanzo, autoconclusivo, fa parte del ciclo di Nigmàr.
Dalla strega
Bront prese un respiro profondo, digrignò i denti e varcò la soglia. L’odore pungente di erbe, di fuoco, lo ferì come una volta. Socchiuse gli occhi per abituarli alla penombra, cercò con lo sguardo la sagoma della Strega e la trovò: stavolta, però, non ne ebbe alcuna paura.
– Sei tornato – gli disse, e lo gnomo annuì.
– Non sono più lo stolto di un tempo – le rispose. – Sono cambiato.
– Cambierai ancora.
– Lo so, e non in meglio. Avevi ragione, su tutto. Per questo sono qui.
– E così, pastorello, ora hai paura di te stesso… Temi ciò che sei, chi potresti diventare?
Annuì ancora.
– Lo so. Nella tua furia, sei sempre stato assennato – continuò la Strega, sorridendo. – Per questo mi piaci, mi sei sempre piaciuto.
– Non mi interessa – ringhiò Bront. – Dimmi piuttosto cosa devo fare.
– Le Gole di Arràt sono un luogo pacifico. Rimanendo qui, finiresti per spazzare via ogni cosa.
– Partirò, è deciso.
– Ti costerà tanto. Sudore e sangue, e tutti quegli umori, sporchi, che ancora non conosci: ricorderai con nostalgia il mondo che ti lasci alle spalle.
Bront non rispose.
– Non temere – continuò la Strega. – Anche se la tua anima si coprirà di macchie, non sarà la fine. Il tuo destino è glorioso, Bront, ma procede nel buio. Non a tutti è concesso il privilegio della luce.
– Flint… – mormorò lo gnomo, pensando subito al fratello cantore, gentile e devoto.
– I vostri destini sono diversi, ma ugualmente tremendi. Gli dèi hanno deciso così, e non senza saggezza. O vorresti, forse, che i vostri posti fossero scambiati?
Bront digrignò i denti tra il folto della barba.
– Il mio destino mi appartiene. Insieme al sangue, al fuoco, all’odio e all’oscurità. Si compia pure tutto quanto, Strega. Ma Flint… non dovrà mai sapere nulla.
– Saprà quello che tu gli dirai, e che i suoi occhi vedranno.
– Non gli dirò nulla. Non sporcherò il suo canto; soltanto le mie mani.
– Sei premuroso, Bront delle Gole. Le sue storie diranno la tua gloria, non le tue colpe: lascerai Flint nella luce. Ma anche la luce muore, ed è un mistero sanguinoso: quando sarà il momento, seguirà l’Eroe del Tramonto.
– Quello che sarà, sarà. Ma questa è la mia storia, non la sua: un racconto di azioni feroci. Guidami la mano, Strega; conducimi al mio fato.
La sagoma, a quelle parole, annuì. Si alzò come un’ombra, scivolò verso di lui e con un volteggio delle dita s’impadronì della sua verga da pastore. La spezzò. Poi, porgendone a Bront i frammenti, sibilò: – Gettali nel fuoco.
Lo gnomo obbedì, e la fiamma divampò feroce. Consumò la verga, la sua storia e il suo nome. Il pastore delle Gole morì in quel momento: dalle sue ceneri, sorse Bront l’Ardente.
Nel bosco
Bront penetrò, a passo di corsa, nel Boschetto di Noccioli. La sua prima prova, aveva detto la Strega, sarebbe stata quella di sconfiggere la foresta. Bront conosceva bene quel luogo: era lì che, molto tempo prima, i suoi sogni, i suoi incubi, si erano risvegliati.
Sotto quelle fronde, ardentemente, lo gnomo aveva desiderato l’amore di Selina, la fata immacolata sorella della Strega: un amore impossibile. L’illusione si era fatta speranza, la speranza ardore, l’ardore bramosia e infine disperazione. Ora, più simile a una belva rabbiosa, Bront sprofondava nella macchia travolgendo ogni cosa, dentro e fuori di lui.
Correrai nel bosco fino a perderti, gli aveva detto la Strega. È il solo modo per riuscire a trovarti.
Abbandonò il sentiero, falciando con le mani gli arbusti e i cespugli, scostando i rovi a mani nude. Continuò a infossarsi nel bosco. Il cielo scomparve alla vista e Bront si ritrovò completamente al buio, incalzato da ogni lato da rami e spine. Affrontò l’intrico gridando, gemendo come una bestia braccata. Non aveva idea di dove fosse. Spezzò le radici, le fronde, s’aggrovigliò con gli sterpi e la terra. Bront ringhiava, piangeva, aveva la bava alla bocca: il sangue gli colava dalle dita, dal volto, dalle braccia… Si mise carponi e cominciò a strisciare nel fango, simile a una larva, smarrito tra i suoi stessi umori. Strisciò a lungo, urinò, strisciò ancora e alla fine sgusciò fuori dal groviglio di spine. I suoi occhi si erano abituati al buio. Si rialzò, si sentì e vide che le sue vesti erano stracciate; i capelli e la barba impastati; le membra, nude, un grumo di sangue e polvere. Ed era