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Tersa. Abduction
Tersa. Abduction
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Tersa. Abduction

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About this ebook

E se nel bel mezzo di un temporale fossimo colpiti da un fulmine che, invece di ucciderci, ci catapultasse su un altro pianeta? Chi di noi non ha sognato almeno una volta di conoscere un altro mondo? Un'esperienza davvero straordinaria che nemmeno una vivace napoletana come Lisa Zaccaro avrebbe mai immaginato di poter vivere, come non avrebbe mai pensato che la sua vita potesse essere stravolta inesorabilmente a diciotto anni. Eppure, quel cupo giorno di pioggia, la folla assordante e smarrita della stazione e la voce della sua migliore amica, che cerca invano di scorgerla tra il grigiore della tempesta e la confusione, saranno gli ultimi ricordi della sua esistenza terrestre...

V. Cardone
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateOct 18, 2019
ISBN9788831641937
Tersa. Abduction

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    Book preview

    Tersa. Abduction - Annalisa Caravante

    orecchie!

    ¹ Aspettiamo ancora, può darsi che si sblocchi… Lo spero – rispose Roberta ritornando a mangiucchiarsi le unghie.

    La luce soffusa creata dal temporale oscurava ogni cosa, le traversine erano tormentate dall'acqua il cui suono si alternava alle lamentele dei passeggeri. Lampi e tuoni, la pioggia non sembrava voler dare una tregua in quell'ora di punta. Mi coprii meglio con il soprabito e mi guardai attorno sentendomi come spaesata.

    – Che hai? – Roberta si accorse del mio stato.

    – Non lo so, sento come se stesse per succedere qualcosa.

    – Oh oh, lo sai che queste cose mi spaventano.

    – Senti, io ho fame.

    – Anche io.

    – Neppure tu hai fatto lo spuntino a scuola?

    – Macché! Ho mangiato solo un cornetto, due pacchi di crackers e una fetta di torta.

    – E quando hai ingurgitato tutta 'sta roba? – le chiesi.

    – Quando tu eri a processo con matematica. Va be', andiamo a prendere qualcosa da mangiare. Offro io perché finalmente hai preso… Quanto hai preso?

    – Cinque… meno meno.

    – Sei un caso perso.

    – Le materie scientifiche non sono mai state il mio forte, lo sai.

    – Va bene, andiamo.

    – Compra tu qualcosa e portala qui. Io intanto provo  a scrivere dei versi per il compito. Lo sai che sono negata con le poesie. Ti prego, ti prego, ti prego!

    – Una schiappa anche con le poesie! E va bene. Non solo devo offrire per un cinque meno meno, devo pure servirtelo. Non muoverti da qui.

    * * *

    Prima di entrare in pizzeria, Roberta si soffermò a guardare il viavai delle valigie e l’acqua che dai tanti ombrelli colava sul pavimento. L’orologio segnò le quattordici e trenta e l’altoparlante annunciò altri ritardi.

    – Cielo che confusione! – commentò la giovane.

     Dopo aver fatto quasi una lotta, fra gente affannata e frettolosa, Roberta uscì dal locale e vide un fulmine colpire l'edificio. In pochi secondi si spensero i tabelloni, i terminali e le luci, creando confusione e spavento. La ragazza, in preda al panico, tentò di raggiungere Lisa, evitando la gente e i carrelli abbandonati. Sospirando per essere arrivata incolume alla meta, trovò sui gradini della metropolitana solo gli zaini. Eh? si guardò attorno Dov'è Lisa? Forse è andata a telefonare, avrà finito il credito.. La ragazza lasciò le pizzette su un muretto e prese il cellulare dalla tasca, compose il numero dell'amica e sentì la suoneria arrivare dallo zaino. Roberta sgranò gli occhi. Lisa è andata via abbandonando borse e telefono? Ma se la sorprendo a parlare con qualcuno o a guardare le vetrine, mi sente!

    – Lisa, dove accidenti sei? – gridò.

    Un'altra occhiata attorno, un giro su sé stessa e nulla, Roberta non vedeva l'amica da nessuna parte.

    Capitolo 2

    La stanza blu

    Lisa

    C’era una luce molto forte, bianca, che non faceva male agli occhi, sembrava avere consistenza e cancellava ogni cosa fuori dal suo raggio d’azione. Nell’aria si sentiva odore di bruciato, come un fuoco spento da ore. Io non avvertivo il mio corpo, ma vedevo la luce ovunque spostassi gli occhi ed era tutto ciò che riuscivo a fare. Pensai di non averlo più, un corpo, visto che l’unica cosa che percepivo era il solo movimento delle palpebre.

    Sono morta!

    Non avvertivo neppure il cuore e non avevo paura, al contrario, mi sentivo avvolta da un'aura di serenità.

    Dove sono?

    A un tratto la luce sparì e apparve una parete blu a qualche metro di distanza; sentii poi un fruscio che mi diede la percezione di essere in una stanza grande.

    Ancora niente. Oltre il fruscio non sentivo nulla e non riuscivo a muovere altro che le palpebre. Fissando l’alone bianco lasciato dalla luce, vidi un’immagine prendere forma e apparve il volto di un uomo. Era un viso giovane, dalla carnagione chiara, dai lineamenti perfetti e con due occhi di un incantevole grigio, una tonalità che non avevo mai visto. A guardare in quell’iride, pulsante di luce e sfumature alterne, mi sembrava che quegli occhi mi penetrassero nella mente. Anche i capelli avevano lo stesso colore, quasi d’argento e si fermavano in lievi riccioli sulle spalle.

    Cominciai a sentire le gambe e più quegli occhi mi scrutavano, più avvertivo il corpo fino a comprendere la mia posizione: ero sdraiata su qualcosa e la parete blu era il soffitto.

    – Mi senti? Riesci a sentirmi? – chiese l'uomo davanti a me.

    Mossi lenta la testa, guardando prima a sinistra e poi a destra, adocchiando macchinari che non conoscevo, dopodiché ripuntai gli occhi di colui che mi sembrava essere un medico.

    – Cos’è successo? – gli chiesi – So che è successo qualcosa. Però mi sento bene.

    – Ti ho dato un calmante – rispose lui.

    Calmante? In quell'istante la mia mente provò a farmi vedere qualche immagine: pioggia, stazione, treno,  lampi, buio…  

    – Il fulmine? È stato il fulmine, vero, dottore? Sono stata colpita dal fulmine caduto in stazione?

    Ricordai la scena: io che tentavo di scrivere una poesia, seduta sui gradini della metropolitana, e la luce, accecante e calda, che piombava a pochi metri da me. Poi tutto era sparito e mi ero svegliata in quella stanza blu.

    L'uomo rispose di sì distrattamente, allontanandosi per posare delle boccette. Era un dottore? E cos'altro sennò? Ma aveva qualcosa d'insolito e che non sapevo spiegarmi.

    – Com'è il tuo nome? – mi chiese.

    – Lisa Zaccaro.

    – Basta il nome.

    Mmm… come vuoi dissi fra me. Lo vidi poi scrivere qualcosa su alcuni fogli e pensai I suoi occhi sono lucenti come quelli che ho visto in stazione. Ma tutto sembrava un ricordo lontano: il chiasso delle voci, il rumore della pioggia, l'immagine di Roberta che si allontanava e non sapevo ancora quanto tempo fosse trascorso. Mi grattai una tempia, sollevai le spalle e mi misi seduta: – Sono ustionata? – mi guardai le mani e le braccia. – No! – sgranai gli occhi – In volto? Sono ustionata in volto? Dottore, mi dia uno specchio!

    Lui, come se non mi avesse neppure sentita, ripose i fogli in alcune cartelle color porpora, le abbandonò su un tavolo e ritornò da me con una tranquillità che mi faceva innervosire.

    – Dottore, le ho chiesto se sono ustionata.

    – No, non hai niente, solo un leggero trauma. E sta' giù – mi fece ridistendere.

    – La mia famiglia è stata avvisata? Saranno in pensiero.

    Aspettai trepidante una risposta, ma quell'uomo sembrava avere la testa da tutt'altra parte.

    – È tutto sotto controllo, pensa solo a riposare – mi disse.

    – Quando uscirò? – quello era il mio unico pensiero.

    – Adesso devi stare qualche ora in osservazione, poi vedremo.

    – Osservazione? Rischio qualcosa?

    Mi rimisi seduta, lui portò le pupille in alto e sbottò: – Se non la smetti di alzarti, ti darò una dose più massiccia di calmanti.

    – Dottore, come si chiama?

    – Come si chiama chi?… Oh scusa, ti riferisci a me. Mei, chiamami Mei, senza dottore.

    Che nome è?

    – Allora grazie, Mei.

    Solo a quel punto lo vidi soffermarsi un po' di più sulla mia persona e mi ritrovai di nuovo quegli occhi lucenti puntati addosso.

    – Quanto sei piccola – commentò.

    Se! Mi ha presa per sua sorella di quattro anni bofonchiai tra me.

    – Adesso riposa, io devo andare – riprese – Puoi alzarti fra circa un'oretta e girare per la stanza, ma non devi uscire da qui. È estremamente importante che tu trascorra queste ore senza uscire da qui, senza sbraitare o dimenarti come fate voi…

    – Voi? – sollevai un sopracciglio.

    – Ehm… voi donne.

    Anche maschilista. Strano e anche maschilista.

    – Mai quanto voi uomini – replicai fingendo un sorriso dolce.

    Lui prese le cartelle color porpora e uscì dalla stanza senza neppure salutare.

    Maleducato!

    * * *

    Mei s'immise in un corridoio buio, dalle pareti e dal pavimento lucido, e dove si sentiva solo il ticchettio di qualche macchina accesa. Pochi passi dopo vide una tenda aperta e un raggio di luce che s'infilava come a tradimento; il medico allora si avvicinò e chiuse la cortina. È importante rispettare le ore serali. Sebbene manchi ancora qualche minuto alla penombra pensò.

    Lento e quasi distratto, riprese il passo, si guardò attorno ed entrò in una stanza; qui si avvicinò a un tagliacarte e prese i documenti da sotto il braccio. Aprì un cassetto ed estrasse altre due cartelle, della stessa misura e dello stesso colore delle prime, vi chiuse alcuni fogli presi a caso e ritornò in corridoio, dove incontrò un ragazzo dai capelli color ambra. Mei provò ad allontanarsi dopo averlo salutato brevemente, ma l'altro non lo mollò ed esclamò: – Voglio uscire da qui.

    Il medico sospirò: – Senni, lo sai che se potessi, ti aiuterei.

    – Certo che lo puoi fare.

    – Mi devi dare del tempo.

    – Quanto ancora? Sono anni che cerchi tempo. Ogni giorno che passo qui, sto sempre peggio. Hai detto che mi avresti aiutato.

    – Pochi giorni ancora. Adesso devo andare.

    Mei lo superò, Senni lo fermò stringendolo a un braccio: – Ricorda.

    Il medico si liberò e attraversò delle porte che si aprivano con la scansione dell'iride; giunto alla fine del tragitto, per uscire, attese l’intervento di una guardia che gli disse: – Fa' presto, è quasi la penombra.

    – Cercherò di essere veloce – rispose Mei. Allontanatosi circa tre metri dal cancello, non prese la solita strada, ma s'infilò in un’altra più piccola e giunto alla fine, guardò un locale da dove proveniva della musica. Scrutò l'orizzonte, poi le piante che costeggiavano la strada.

    È quasi ora.

    Entrò nel locale e si ritrovò in un'ampia sala, ricca di luci e con una pista da ballo centrale; intorno alle pareti si susseguivano tavolini e poltrone su cui chiacchieravano i clienti.

    Mei fissò lo sguardo su un uomo biondo accanto a un tavolo in disparte: – Vins – esclamò; si sbottonò il soprabito e si sedette di fronte al collega.

    – Finalmente – rispose l'altro, puntando gli occhi azzurri sulle cartelle.

    – Non contengono nulla che riguardi la ragazza, le ho portate per le telecamere – precisò il medico.

    L'aria era satura di fumo e di odori alcolici che inebriavano la mente o davano fastidio a chi, come Mei, non era avvezzo a certe abitudini.

    – Come sta? – chiese Vins.

    – Bene, si è ripresa.

    – Ha fatto delle domande?

    – Poche, era intontita dal calmante.

    – Bevi quel succo.

    Il medico puntò un bicchiere adagiato al centro del tavolo e al cui interno ondeggiava un liquido giallastro. – Perché? – domandò, studiando il volto del suo interlocutore.  

    – Bevi!

    Mei prese il bicchiere e scrutò attento ciò che doveva essere un succo di frutta. Bevve e provò disgusto. – Che cosa è!? – chiese, pulendosi la bocca.

    – Non ti è piaciuto – Vins rise.

    – Sei proprio un cretino, questo succo di frutta è orribile, ammesso che sia succo di frutta.

    – La verità è che il nostro presidente, Zurhin Bavall, quando può risparmiare, lo fa. La questione è che non c’è necessità di risparmiare al punto da distribuire certe schifezze.

    Mei fece una smorfia, mentre tentava di tenere a bada i riccioli ribelli sulla fronte. Conosceva Vins da anni e lo apprezzava per le sue qualità lavorative, ma non certo per le sue serate trascorse da solo in un locale.

    – Perché non stai con la tua famiglia? – riprese il medico.

    – Cosa le hai risposto?

    Mei sospirò: – Sono stato vago.

    – Ha capito qualcosa?

    – Per fortuna no. Non oso immaginare la reazione e il Centro è il luogo meno adatto per farsi sentire.

    – Adesso bisogna portarla via.

    – Non sarà facile, ma troverò il modo.

    Il medico notò un'espressione sul volto del collega che non gli era chiara. – Che hai? – gli chiese.

    Vins deviò lo sguardo, portandolo sugli altri clienti del locale, quasi volesse sfuggire qualcosa. – Sarà difficile assimilare questo errore e quella ragazza ne pagherà le conseguenze – rispose alla domanda del medico.

    Mei chiamò una cameriera a sé e chiese del vero succo di frutta; aveva la gola secca, ma non era ciò ad agitarlo, forse qualcosa che sentiva scuotersi nella sua anima: – Per adesso muoviamoci un passo alla volta, l’importante è che nessuno sappia di lei – replicò.

    – Anche io non voglio sapere di lei – rispose Vins.

    – Come? – il medico lo fissò accigliando lo sguardo.

    – Non voglio sapere neppure il suo nome.

    – È assurdo, così è come se te la stessi prendendo con lei!

    Mei s'accorse di avere alzato troppo la voce e si guardò attorno preoccupato.

    – Perché? – domandò Vins.

    – Il tuo errore potrebbe portare a delle scoperte importanti.

    – Quali scoperte?

    – Nel campo della medicina. Con quella ragazza tu non hai idea di cosa si potrebbe fare per risolvere i nostri problemi.

    – No, è escluso! Già quello che le abbiamo fatto la devasterà.

    – Non ne ho intenzione, volevo solo dire che ha bisogno di protezione. Dobbiamo assolutamente evitare che capiti in mani sbagliate.

    Vins afferrò il bicchiere e lo strinse, perdendosi con la vista in quel fatidico giorno in cui aveva cambiato per sempre la vita di una ragazzina. I pensieri gli riempirono la mente e gli pesarono persino sul cuore, lui che al cuore non dava mai importanza.

    – Posso aiutarti a condurla a Pressi, – rispose – al centro Cara. Lì l’aiuteranno, non sono assassini come qui. Quando le dirai la verità?

    – Non quando è ancora rinchiusa lì. Bisogna mantenerla tranquilla. Sai come sono fatti… loro.

    – Gli altri hanno capito qualcosa?

    – No, pensano solo che tu abbia fallito.

    Mei guardò i ragazzi ballare al centro della sala.  Vins bevve il liquido giallastro.

    * * *

    Lisa

    Avvertivo nel dormiveglia il formicolio alle mani; nelle orecchie udivo il rumore del silenzio e nella testa mi passavano strani pensieri. Con voce flebile cominciai a dire – Uno più uno fa due, Londra è la capitale del Regno Unito, io mi chiamo Lisa Zaccaro. Sono nata il ventisei giugno e sono del segno del Cancro. Il telefono lo ha inventato Meucci… Marconi? Non ricordo perché non lo sapevo neanche prima o perché sto diventando un vegetale? No! Non posso morire così, devo lasciare le mie ultime volontà.

    Mi alzai e cercai carta e penna; solo allora mi accorsi che l'arredamento era di colore verde-azzurro.

    Ma che strano ospedale.

    Avevano dei macchinari che non conoscevo e neppure capivo che bisogno c'era stato di rinchiudermi lì. Temendo, però, di morire improvvisamente, continuai con la sequenza delle nozioni, quando un rumore alle spalle mi attrasse. Voltandomi piano, vidi dal vetro in fondo alla stanza una persona che mi osservava; allora mi avvicinai e notai che era un ragazzo dalla folta capigliatura bionda e dagli occhi azzurro cielo. Si fece più vicino, poggiò il palmo sul vetro e sembrò restare in attesa. Io non capivo, ma al tempo stesso non riuscivo a distogliere lo sguardo dai suoi occhi. Poggiai la mano alla stessa altezza per capire cosa volesse, perché sembrava studiarmi, e mi sorrise sollevandomi l'animo. Il sorriso formò due fossette ai lati delle labbra, ma dopo pochi secondi se ne andò.

    – Ehi, cosa fai? Dove vai? Ma posso sapere cosa devo fare qui? – gridai.

    Stavo iniziando a innervosirmi e anche ad annoiarmi. Tormentai le labbra, mi guardai intorno e mi chiesi È proprio un ospedale questo? Non mi sembra… E Roberta? Oh, la immagino! Appena mi avrà vista a terra senza sensi, avrà chiamato ambulanza, polizia e carabinieri. Bah, non vedo l'ora di uscire.

    Provai a scrollarmi l'ansia da dosso, raggiunsi la porta del bagno, poggiai la mano sulla maniglia e uno scatto della serratura mi giunse alle orecchie prima che tentassi di aprirla. Mi bloccai per qualche secondo, mi ripresi e sorrisi, credendo a un guasto. Non ci pensai più. Chiusa in bagno, mi guardai allo specchio; fissai i grandi occhi e ripensai quanto quelli di Mei e del ragazzo biondo fossero diversi dai miei. Provai poi a rimettere assieme le scene della stazione perché c'era qualcosa che non quadrava. – Pioggia, fulmine, ospedale… – voltai su me stessa. Ripresi: – Uomo dagli occhi strani, fulmine, ospedale, dottore strano dagli occhi strani e ragazzo biondo dagli occhi strani ancora più strano del dottore strano che si fa chiamare solo Mei.

    Mi grattai la nuca: – Oh che sta succedendo?

    Attribuii allora quello stato allo shock subìto e provai a rilassarmi. Cominciai quindi a pettinarmi i capelli con le mani e mi lamentai: Ho delle occhiaie da paura! Mi misi a fare mille smorfie, poi pensai Ho bisogno di rinfrescarmi il volto. Quando tentai di aprire il rubinetto, l’acqua sgorgò senza che facessi nulla.

    – Oh, Madonnina mia! Ma che mi succede? Qualsiasi cosa mi abbia dato quel dottore, sta per terminare il suo effetto perché mi sto agitando molto… Ok, sono solo stanca e queste non sono che allucinazioni!

    Ma, toccando il lavabo, le dita si bagnarono.

    Sento che sto per svenire

    Capitolo 3

    Bellis perennis

    Dopo due ore passate a fissare il soffitto e a recitare la cantilena delle nozioni, mi ero abbondantemente  spazientita e allora non ero certo il tipo che manteneva per molto la calma. Avevo già iniziato anche a lamentarmi del fulmine che mi aveva colpita.

    Dovevo andare con Roberta in pizzeria. Io domani ho tante cose da fare, uffa! Domani? Ma in che giorno siamo? La testa mi girava per quel disorientamento mentale.

    Un rumore alla porta mi ridestò; quel Mei entrò frettolosamente. Aveva con sé una tuta blu ed era meno tranquillo della volta precedente.

    – Lisa, devi cambiare abito.

    Mi porse la tuta, la osservai attenta e aggrottai le sopracciglia. Quell'uomo e tutto ciò che mi circondava avevano adeguatamente messo a dura prova i miei nervi, adesso dovevo anche indossare un tutone? Manco a casa ne portavo.

    – Perché? – chiesi – Tanto mi accompagnate a casa, no? Mi cambierò lì.

    – Fa' come ti dico. Indossa questa e non uscire da qui finché non torno a prenderti, cioè fra pochissimi minuti.

    Afferrai la tuta e mi dissi Basta che poi me ne fate andare!

    * * *

    Il medico lasciò la stanza e si recò in un’altra ala; le luci erano basse, dando la sensazione di essere alle prime ore dell’alba, mentre era già giorno. Mei controllò che non ci fosse nessuno a guardarlo, per poi entrare in una sala da conferenze, buia e silenziosa. Si avvicinò a due ragazzi, uno dei quali era Senni, ed esordì – Andate bene vestiti così. Se vi vedono, dite come inteso: dovete accompagnare la paziente quarantaquattro al reparto navette.

    Mei aveva preparato tutto affinché Lisa uscisse dalla struttura senza destare interesse negli altri; la sua carnagione, i capelli, ma soprattutto gli occhi neri non potevano passare inosservati. Questi minuti sono preziosissimi pensò il medico, che si sentiva scrutato pesantemente da Senni.

    – Quando dobbiamo uscire? – chiese proprio quest'ultimo.

    – Esattamente fra dieci minuti – replicò Mei.

    – Lei lo sa? – chiese il secondo ragazzo, alto, capelli castano chiari e di nome Ocsi.

    – L’importante è che adesso esca da qui e vada a Pressi, al centro Cara, da Alexander Ghetli, poi… ragazzi, sia ben chiaro, se quella poveretta torna a Sheill, è morta. Si trova nelle vostre stesse condizioni. Ricordate tutto?

    – Noi sì, tu invece ricorda che hai promesso di aiutarci. – rispose Senni.

    Il medico lasciò la stanza e dopo aver riempito un modulo,

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