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Fase REM
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Ebook448 pages6 hours

Fase REM

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About this ebook

Nei laboratori del King's College, a Londra, una ricerca genetica capace di varcare i confini della logica dà inizio a uno scontro tra scienza e fede che potrebbe far crollare le fondamenta millenarie della Chiesa.

L'agente Herrera dei servizi di informazione del Vaticano, incaricato di seguire le indagini, viene catapultato in un intricato labirinto nel quale la Sapinière, un servizio di intelligence parallelo della Santa Sede, e il Mossad israeliano si fronteggiano per raggiungere la misteriosa stanza 251: nascondiglio degli undici libri mancanti della Bibbia.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateOct 15, 2019
ISBN9788831643634
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    Fase REM - Gaetano Natoli

    sorridere.

    NOTA DELL’AUTORE

    Tutte le notizie scientifiche, linguistiche e storiche riportate nel libro, esclusi i personaggi e gli eventi legati alla narrazione, non sono il frutto della mia fantasia, ma il risultato di una meticolosa ricerca della realtà durata quasi un anno. Anche il sodalitium pianum, la Sapinière e il messaggio occultato in uno dei capolavori artistici più famosi del mondo sono reali.

    PROLOGO

    Dicono che di fronte a una sconfitta, in pochi sappiano coglierne il valore. Il professor Winston Bell era uno dei pochi: umiliato, deriso e infine condannato per quella che la storia avrebbe forse osannato come una delle più importanti vittorie della scienza sulla fede.

    La commissione etica, riunita davanti a lui come un plotone di esecuzione, era pronta a porre fine alla sua carriera accademica, ma Winston aveva ben altro a cui pensare.

    Il suo sguardo si perdeva nel vuoto, mentre la mente era avvolta dai ricordi di quell’aula cupa e austera, teatro, dieci anni prima, della sua investitura al titolo di emeritus professor.

    Fissava il fascio luminoso che penetrava dalla grande finestra, dove i granelli di polvere sembravano giocare con le ombre; l’aspetto trasandato e il viso profondamente segnato dal tempo lasciavano trasparire tutto il peso delle sue scelte.

    Distrattamente avvolto nei suoi pensieri, l’illustre ricercatore del King’s College riusciva solo a percepire il rettore Harris, focosamente impegnato a inveire contro di lui: il suono della sua voce era ovattato, come quando si ascolta immersi nell’acqua.

    Harris notò presto la distrazione di Winston.

    «Sir Bell, la sto forse annoiando?»

    Il tono moderato non riuscì a distogliere il vecchio scienziato dai suoi ricordi.

    «Professore…?» insistette il rettore.

    «Winston?!» urlò infine, visibilmente contrariato.

    L’ultimo energico richiamo destò l’attenzione di Bell.

    «Gli uomini temono quello che non comprendono», esordì con lo sguardo ancora assente.

    «Sir Bell, questa commissione è qui per valutare e pronunciarsi in merito alla sua pubblicazione che, come le sarà noto, sta provocando non poco imbarazzo al King’s College: università di cui lei per primo dovrebbe difenderne il nome. Non siamo qui per ascoltare…»

    «Quelle paure spingono l’umanità verso l’ipocrisia», proseguì Winston, noncurante del richiamo del rettore.

    «Ha capito qualcuna delle mie parole? Lei non può comportarsi così in presenza…»

    «Le sue parole sono chiare, almeno quanto la farsa che avete messo in scena oggi», lo interruppe bruscamente Bell, prima di rivolgersi agli accademici seduti al tavolo di fronte a lui. «Otto illustri professori, riuniti per screditare sei anni di ricerche… nel nome del Signore, verrebbe da dire.»

    Con tono pacato, velatamente affettuoso, un membro della commissione, vecchio amico e collega, si rivolse all’inquieto professore: «Winston, ci conosciamo da oltre trent’anni. Non ti sei mai spinto così oltre, per la miseria! Hai praticamente pubblicato una lettera di condanna a Dio, attirando sul King’s College le peggiori critiche da parte della comunità scientifica… per non parlare di quella ecclesiastica.»

    «Da quando la critica è diventata il bavaglio della ricerca?» domandò Bell, lasciando che un leggero sorriso sarcastico mostrasse tutto il suo biasimo.

    «Da quando il King’s College finanzia le sue ricerche con le donazioni di chi esprime quelle critiche», rispose un giovane in abito scuro, seduto in disparte, nella penombra alle spalle della commissione.

    «Pensavo fosse lì in castigo o in attesa di ordinazioni per il tè», commentò Winston, infastidito dalla sfrontata arroganza dell’uomo poco più che trentenne. «Posso sapere a chi ho il dispiacere di rispondere?»

    «Mi chiamo Gustavo Gomez Herrera. Ho seguito affascinato le sue ricerche, professor Bell; molto meno i risultati che lei ha reso pubblici», replicò il giovane tenebroso, senza far trasparire alcuna emozione.

    «Non certo un nome anglosassone. Direi… un vago accento sudamericano, sbaglio?»

    Herrera continuò a fissare l’anziano ricercatore con i suoi insensibili e penetranti occhi neri, senza rispondere, osteggiando la sua autorità nella violenza del silenzio.

    «Cosa la porta così lontano da casa, Mister Herrera?» insistette Bell, nella speranza di comprendere il ruolo di quella figura ambigua che attirava i timori e la reverenza di tutti i colleghi della commissione accademica.

    «Diciamo che curo gli interessi di quei finanziatori più devoti al Signore. Persone e istituzioni molto generose nei confronti del King’s College, le stesse che lei ha voluto screditare e insultare pubblicamente.»

    L’anziano professore non rimase meravigliato: un sorriso ironico accentuò lievemente le rughe sul suo volto. Osservò, uno a uno, i membri del comitato etico.

    «Ho capito, non sono qui per difendermi, vero?»

    «Dovrebbe difendersi da se stesso e i suoi proclami», obiettò il rettore Harris. «Il 15 maggio, sull’autorevole rivista Scientia, lei ha pubblicato i suoi dati di laboratorio corredati da un’ardita e inopportuna conclusione.»

    Con fare goffo e agitato, Harris prese un foglio dal taschino della giacca, strappato dal periodico scientifico, e lesse le ultime righe: «Questa scoperta pone fine alla speculazione religiosa sull’uomo. Da millenni le autorità spirituali di ogni fede nel mondo si sono nutrite come avvoltoi della paura della morte. La vera risposta all’oblio è ora nelle mani sapienti della scienza. Queste sono parole sue, professore.»

    «Ogni singola lettera», confermò Bell orgoglioso, scandendo a voce alta con tono di sfida.

    «La sua arroganza non ha limiti. Il suicidio della Taylor, durante le sue ricerche, è la vera risposta all’oblio? Lei è impazzito, ma non le permetteremo di trascinare anche la nostra illustre università nella sua follia», proseguì il rettore.

    «È questo che mi contestate, la morte di Serena Taylor? Mi state giudicando per eresia o per omicidio?»

    Il giovane Herrera uscì dalla penombra, avvicinandosi al lungo tavolo rettangolare, dove gli accademici erano seduti a mormorare lo sdegno per il tono oltraggioso del loro collega.

    «Per favore, concedetemi qualche minuto con il professor Bell, in privato.»

    Tutti i membri della commissione etica, compreso il rettore Harris, uscirono dalla stanza borbottando tra loro il malcontento nel subire l’irriverente prepotenza del giovane.

    Chiusa la porta, Herrera si sedette di fronte a Bell con fare minaccioso: il suo atteggiamento tradiva qualche esperienza negli interrogatori.

    Affrontò l’anziano ricercatore a muso duro, con gli occhi privi di indulgenza e il cuore vincolato al senso dovere.

    «Parliamoci chiaro, professore. Molti, prima di lei, hanno provato a screditare la Chiesa: scienziati, imperatori, intellettuali, persino interi popoli… tutti hanno fallito miseramente. La sua pubblicazione è solo un’altra fastidiosa perdita di tempo. Sinceramente non me ne frega un cazzo dell’etica, né tantomeno della sua ricerca.»

    «Allora cosa diavolo vuole da me?»

    «Da lei voglio una risposta a una banale domanda: dove si trova Serena Taylor?»

    Bell sgranò gli occhi, sorpreso e inquietato dalla domanda. Un brivido attraversò la sua vecchia schiena al pensiero che la Chiesa fosse sulle tracce della donna.

    «È stata sepolta nel cimitero di…»

    «Non mi prenda in giro, professore! So bene dov’è sepolto il corpo. Glielo chiedo nuovamente: dove si nasconde Serena Taylor?»

    L’anziano ricercatore rimase impacciatamente in silenzio, come in un ultimo disperato tentativo di occultare quello che pensava essere ben custodito tra i suoi numerosi segreti.

    «Dove si trova?!» urlò Herrera spazientito, sbattendo i pugni sul tavolo.

    «Trovala se ci riesci, gran figlio di puttana!»

    1

    «Amore sono le sette e mezza, sveglia!»

    Le urla della donna riecheggiarono distorte nelle orecchie di Dario: sembravano provenire direttamente da un altro mondo. L’uomo aprì gli occhi lentamente, non del tutto, per pochi assonnati millimetri.

    Rimase sdraiato nel letto, quasi invaghito del morbido cuscino, mentre la vista, ancora offuscata, si perdeva nell’incoscienza del risveglio come in un sogno che tardava ad abbandonarlo.

    Sentì nuovamente le fastidiose grida della donna giungere da un’altra stanza.

    «Michele, farai tardi anche stamattina, alzati!»

    Questa volta, le parole si fecero strada nella fitta nebbia che avvolgeva la mente di Dario, stuzzicandone la perplessità.

    «Ma che diavolo…» borbottò con voce roca, ancora stordito dal sonno. «Chi è Michele…?!»

    Gli occhi ebbero giusto il tempo di mettere a fuoco, prima di spalancarsi attoniti. Frastornato, osservò frenetico la stanza: dal comodino a un quadro astratto sulla parete; poi verso la finestra, nascosta da una pesante tenda scura. Non era la sua camera da letto, né tantomeno la sua amata e sudata villa.

    Che storia è questa? pensò, mentre l’attenzione si focalizzava su una cornice posta sul comò: non aveva idea di chi fossero quei due nella foto.

    Dove mi trovo? Questa non è casa…

    Non ebbe il tempo di finire il suo pensiero che una donna di mezza età, con una vestaglia demodé e visibilmente infastidita, entrò nella stanza.

    «Sbrigati! Marta entra alle otto e mezza; ieri la maestra si è lamentata del ritardo», gracchiò fastidiosa.

    Dario scosse la testa, incredulo. Balzò impacciatamente fuori dal letto, perdendo quasi l’equilibrio.

    «Marta, Michele, questa stanza… ma che sta succedendo? E tu chi diavolo sei?»

    «Non è il momento di scherzare, muoviti pigrone.»

    L’uomo rimase paralizzato, come se avesse perso il pieno controllo del suo corpo.

    Guardò meglio la donna in volto: era la stessa della foto.

    Il suo stupore divenne terrore quando, alzando lo sguardo, vide la sua immagine riflessa in uno specchio, mal posto vicino l’armadio. Fissò nuovamente lo scatto nella cornice, poi lo specchio e ancora la foto: lo stesso uomo.

    Sto impazzendo, o forse è un sogno. Io non sono… provò a riflettere, interrotto da un forte giramento di testa.

    Il respiro divenne affannoso, la vista appannata. Si piegò lentamente a terra, poggiandosi su un ginocchio.

    Pentita di aver pensato a uno scherzo di cattivo gusto, la donna si precipitò verso di lui, preoccupata.

    «Amore, che ti prende, ti senti male? Oddio perdi sangue dal naso, Michele…? Michele?!»

    «Mi chiamo Dario», replicò con un filo di voce l’uomo, prima di piombare definitivamente sul pavimento, privo di sensi.

    Dopo alcuni attimi di smarrimento, la donna tornò in sé. Provò a mantenere i nervi saldi, quel tanto che bastava per riorganizzare velocemente le idee e soccorrere il marito.

    Tentò di sollevarlo da terra, ma dovette arrendersi quasi subito al peso proibitivo dell’uomo.

    «Marta…?! Corri a chiamare tuo zio, digli che papà sta male», urlò a squarciagola.

    La bambina era al piano inferiore, intenta a indossare il pesante zaino della scuola. Nonostante le urla della madre, sbuffò infastidita. «Ma mamma, faccio tardi a scuola.»

    «Corri a chiamare tuo zio!» ribadì la donna, infuriata.

    Svogliatamente rassegnata alle urla della mamma, Marta non ci mise molto ad attraversare la strada. Si attaccò tenacemente al campanello, buttando giù dal letto suo zio Giulio.

    Pochi minuti dopo la bambina tornò dalla madre, accompagnata dall’assonnato zio, ancora in pigiama.

    «Eccomi, cos’ha Michele?»

    «Non lo so… non lo so! È svenuto…», rispose la cognata in lacrime.

    Giulio volse lo sguardo verso il fratello, steso a terra, privo di sensi e con la maglia zuppa di sangue.

    «Stai calma Chiara, dimmi cosa è successo.»

    «Si era appena alzato e farfugliava delle cose, ma non ho capito… non mi riconosceva. Poi ha cominciato a sanguinare dal naso e ha perso i sensi», raccontò singhiozzando.

    «Ok, togliamolo dal pavimento; mettiamolo sul letto e… Marta vai a prendere l’aceto per favore.»

    «Va bene zio, ma poi mi portate a scuola?» frignò la bambina, ingenua quel tanto che bastava per sottovalutare qualsiasi pericolo osasse avvicinarsi all’immortale ed eroico papà.

    Lo zio annuì distrattamente.

    L’odore pungente dell’aceto sembrava fare effetto.

    «Michele, mi senti? Dai riprenditi!» lo spronò Giulio.

    Cercando di sottrarsi all’aroma sgradevole, l’uomo cominciò a dare segni di vita, emettendo qualche timido lamento.

    I suoi occhi, intorpiditi e dallo sguardo spaesato, tornarono a osservare la stanza aliena. «Dove sono?»

    «Michele, sei a casa», replicò Giulio sorridendo. «Dove vorresti essere alle otto del mattino?»

    «Perché continuate a chiamarmi Michele…? Dov’è Elena?»

    «Chi accidenti è questa Elena?!» esclamò la moglie, lasciando che la gelosia prendesse le redini delle sue emozioni.

    Giulio era sollevato nel vedere il fratello riprendere i sensi, ma la situazione rischiava di diventare imbarazzante.

    «Chiara, non vedi che è in evidente stato confusionale? Diamogli qualche minuto.»

    «Sì, hai ragione, scusami», mormorò la donna, nonostante il suo volto corrucciato facesse intendere che fosse poco disponibile a lasciar correre la gaffe del marito.

    «Forse è stato un semplice sbalzo di pressione», azzardò l’ipotesi Giulio, tentando di sviare le perplessità della cognata.

    Cosciente già da qualche secondo, Dario rimase immobile ad ascoltare i due confabulare. Il suo sguardo smarrito, fisso sul volto inquieto di Chiara, sembrava cercare risposte nelle parole di quegli estranei chinati su di lui.

    «Allora vecchio mio, mi dici cosa è successo, che mi cominci con le crisi d’ansia di mezza età?» domandò Giulio ridacchiando, convinto che il peggio fosse passato.

    Con uno scatto rabbioso, Dario afferrò il braccio dell’uomo.

    «Io non ho idea di chi diavolo voi siate! Mi avete drogato…? Cosa volete da me?»

    Con il polso stretto nella dolorosa morsa, Giulio fissò incredulo il fratello: non lo aveva mai visto mostrare segni di psicosi che potessero giustificare il suo atteggiamento.

    Voltandosi verso Chiara, mimò il gesto del telefono.

    «Chiama l’ambulanza», bisbigliò.

    La donna capì le intenzioni del cognato: evitare di spaventare ulteriormente Michele, confuso e pericolosamente agitato. Con fare disinvolto uscì dalla stanza.

    «Mamma dove vai? Che ha papà?» chiese la figlia, visibilmente scossa dalla follia del padre.

    «Ehm… vado a prendere un bicchiere d’acqua, vieni con me», rispose impacciata la donna.

    Marta seguì istintivamente la madre, nonostante la seconda domanda continuasse a martellare il suo cuore, reclamando una risposta.

    Lo zio approfittò della sua assenza per rivolgersi al fratello con tono più deciso.

    «Michele…»

    «Non mi chiamo Michele!» lo interruppe tenacemente Dario.

    «Ascoltami, non mi importa come vuoi chiamarti; ora cerca di calmarti e rifletti un attimo su come ti stai comportando. In questa casa c’è una bambina di sette anni; non deve vedere il padre dare di matto, lo capisci questo?»

    Il buon senso di Giulio colpì la sensibilità dell’uomo, calmandolo quel tanto che bastava per tentare di razionalizzare.

    Ancora visibilmente disorientato, Dario si alzò a fatica dal letto, poggiando i piedi con cura sul pavimento, come per testare il suo precario equilibrio.

    Si avvicinò timidamente allo specchio con il cuore palpitante, mentre un misto di fascino e terrore confondeva il suo sguardo.

    La mente intorpidita impiegò alcuni istanti per elaborare lo strano riflesso che seguiva alla perfezione i suoi movimenti. Molto lentamente, portò le mani al volto, sperando invano che le dita riuscissero a smascherare il tradimento dei suoi occhi.

    «Com’è possibile questa… è assurdo! Io… non riesco proprio a capire», farfugliò sconvolto.

    «Papà, stai per morire?» chiese la piccola con disarmante innocenza.

    I due uomini si voltarono di scatto: Marta era lì, vicino la porta, dopo essere sfuggita al distratto controllo della madre, pietrificata e spaventata dalle sue stesse parole.

    Dario rimase a fissare i grandi occhi neri e colmi di emozione di quella bambina paffutella, dall’aria spaurita.

    «Ma no amore di zio, come ti vengono in mente certe idee?» intervenne Giulio, tentando di colmare l’inerzia del fratello. «Papà ha solo un leggero malore. Ora viene l’ambulanza e…»

    Il suono delle sirene in lontananza catturò la sua attenzione. «Eccola! Senti le sirene? Corri giù dalla mamma e dille di farsi vedere in strada.»

    Marta si voltò e filò via, senza pensarci un attimo. Fece le scale in tutta fretta per avvertire la madre, ma Chiara era già lungo il viale, con una mano al cielo per farsi vedere dai soccorsi della Croce Rossa.

    L’autista notò da lontano la donna che si sbracciava; si avvicinò velocemente, parcheggiando l’ambulanza sul marciapiede senza troppi convenevoli. Dal mezzo di soccorso scesero due paramedici con i nervi saldi, quasi flemmatici, mentre il trambusto scatenava la curiosità dei cani di tutto il vicinato.

    «Mio marito… sta male», frignò isterica Chiara.

    «Signora si calmi, ci accompagni da lui», esortò uno dei paramedici, mentre si sistemava il borsone medico a tracolla.

    «Sì… venite, è al primo piano», tartagliò la donna.

    I soccorritori la seguirono a passo veloce fino alla camera da letto, tallonati dalla piccola Marta.

    «Buongiorno, io sono il fratello», li accolse Giulio.

    «Buongiorno fratello, e come si chiama suo fratello?» chiese il più anziano dei due della Croce Rossa, accennando un sorriso tra la folta barba brizzolata.

    «Si chiama Michele», rispose Giulio.

    «Dario!» ribatté prontamente il fratello.

    Il sorriso sul volto del paramedico si accentuò, accompagnato da quello del collega.

    «Cominciamo bene! Facciamo Dario, ok?»

    Giulio annui sconsolato, lasciando a loro la gestione di quella strana crisi d’identità.

    «Dario, io mi chiamo Alessandro e con il mio collega siamo qui per aiutarti.»

    «Devo fare una telefonata, fatemi fare una maledetta telefonata!» urlò Dario, scagliando violentemente un pugno sullo specchio, quasi volesse cancellare l’inquietante riflesso.

    Rimasta in disparte sull’uscio, accanto alla piccola Marta, Chiara scoppiò in lacrime.

    «Oddio ma cosa ti sta succedendo?!» esclamò, stringendo a sé la bambina.

    Voltando le spalle a Dario per nascondere il labiale, Alessandro si avvicinò alla donna.

    «Signora così non ci aiuta. Suo marito sembra in preda a una psicosi, forse causata da un leggero ictus o ischemia», bisbigliò.

    La donna strabuzzò gli occhi, terrorizzata.

    «Qui possiamo fare poco, meglio portarlo in ospedale, ma se fa così, peggiora la situazione», proseguì il paramedico. «Non crede sia il caso di allontanare la bambina?»

    Sconvolta e visibilmente confusa, Chiara prese per mano la figlioletta e si diresse verso il piano inferiore, senza replicare.

    Dario stringeva al petto la sua mano destra, dolorante per il colpo sferrato allo specchio e sanguinante per un taglio che interessava un paio di nocche.

    Il secondo paramedico era chinato a terra con una siringa in mano: vista la situazione, aveva preparato un’iniezione di Lorazepam per sedare l’uomo.

    Convinto di riuscire a mantenere il controllo sul paziente, Alessandro fece cenno con la mano al collega di aspettare.

    «Dario, facciamo un patto: tu vieni con noi in ospedale e io ti faccio fare la telefonata, così diamo anche un’occhiata alla mano, che ne dici?»

    Confuso e spaventato, Dario cercò di aggrapparsi alla poca lucidità sopravvissuta al folle risveglio. Aveva bisogno di aiuto, di questo ne era sicuro, e quel soccorritore dai modi saturi d’esperienza sembrava sincero.

    «Promissio probi viri est obbligatio», rispose sommessamente.

    Alessandro fece spallucce e guardò il fratello, sperando che potesse tradurre.

    «Ah, non guardare me», disse Giulio. «Io non l’ho mai sentito parlare così. Non sapevo neanche che conoscesse… che lingua è, latino?»

    «Sì, è latino: la promessa dell'uomo giusto equivale a un’obbligazione», precisò Dario.

    «E dove l’hai sentita questa?» domandò Giulio incuriosito.

    «Insegno filologia da oltre… lasciamo stare, sarebbe inutile. Portatemi in ospedale», rispose Dario avvilito.

    Senza neanche infilarsi i pantaloni, s’incamminò in boxer e maglietta verso le scale, seguito a ruota dai paramedici.

    «Prendo i panni e vi raggiungo in ospedale», avvertì Giulio.

    «Ok, lo portiamo al Sandro Pertini», rispose Alessandro mentre scendeva i gradini.

    Sul ciglio della strada, Chiara e la bambina osservarono in silenzio l’ambulanza allontanarsi lungo il viale gremito di curiosi, con gli occhi colmi di angoscia e le guance irrigate dal dolore. Rimasero lì per qualche minuto, spaventate e tradite da quel padre e marito divenuto follia.

    «Mamma, io… ieri sera non ho detto le preghiere», balbettò la piccola Marta.

    Chiara abbracciò forte la figlia. «Oh amore mio, ma cosa ti viene in mente? Non è assolutamente colpa tua o delle preghiere. Facciamo una cosa: togliamoci questo grembiulino della scuola e andiamo con lo zio in ospedale, ok? Così vedrai che va tutto bene.»

    Appena scesi dall’ambulanza, dopo averlo fatto accomodare su una carrozzella, il paramedico coprì Dario con una coperta.

    «Meglio nascondere i boxer: sono carini, ma non è bello andare in giro senza pantaloni», osservò simpaticamente.

    Alessandro spinse la sedia a rotelle lungo lo stretto corridoio che portava alla sala accettazione dell’ospedale Sandro Pertini, mentre Dario, in silenzio, si lasciava trasportare passivamente, come se avesse scollegato le emozioni dalla pazzia che lo stava travolgendo. Tutto ciò che la sua mente riusciva a partorire era una densa e cupa foschia, nella quale solo il desiderio di contattare la moglie Elena continuava a brillare.

    Il paramedico sembrò leggerlo nei pensieri.

    «Facciamo il foglio d’ingresso e poi ti presto il cellulare, ok?»

    «Pacta sunt servanda», borbottò Dario, continuando a dire frasi in latino, quasi volesse mantenere vivo il contatto con la sua realtà accademica.

    «Ah, se lo dici tu… eccoci arrivati, stai buono qui mentre sbrigo le noie burocratiche.»

    Alessandro lo lasciò nell’angolo della grande sala, movimentata dalla lamentosa attesa di un gruppetto di ragazzi reduci da una nottata di eccessi. Si avvicinò alla reception del pronto soccorso saltando la fila e snobbando lo sguardo di protesta dei giovani attaccabrighe.

    «Ciao Manuela, sempre splendida», esordì il paramedico rivolgendosi all’abbondante infermiera, seduta al computer dietro il banco delle accettazioni.

    La donna sorrise, mantenendo fissi gli occhi sul monitor.

    «Se ti dico che porto il perizoma, mi promuovi a fantastica?»

    «Ahah, mi fai morire. Tuo marito come sta?»

    «Purtroppo bene», ironizzò la donna.

    «Ma dai, che cattivona che sei. Ancora vi azzuffate come i primi tempi?»

    «Magari…! L’altra sera l’ho affrontato a muso duro: gli ho detto che ero stanca del solito tran tran e che volevo più carne nel nostro rapporto.»

    «Wow, la donna perfetta. E lui, è diventato carnale?»

    «No, mi ha portata in macelleria.»

    Il paramedico si lasciò andare a una sonora risata.

    «Dammi un secondo che inserisco l’ultimo di quei ragazzi e… fatto! Dimmi pure, cos’hai per me?» proseguì l’infermiera sbarazzina, tornando a un tono più professionale.

    «Sì, dunque… Michele Palmisani, 46 anni: stato confusionale ed epistassi, seguita da perdita dei sensi. Durante l’intervento ha mostrato dei segni di psicosi, forse legata a ictus o ischemia. In ambulanza abbiamo eseguito i controlli di routine e risulta tutto nella norma; al momento i valori sembrano rimanere stabili, ma dà ancora di matto e… ha battuto la mano contro uno specchio: credo niente di rotto, la muove bene, ma ha qualche taglio.»

    «Avete adottato procedure farmacologiche?»

    «No, solo controlli e una medicazione veloce alla mano.»

    Manuela poggiò un foglio prestampato sul bancone.

    «Ok, bel maschione, mettimi qualche crocetta e la firma sul modulo, intanto vedo se è ancora di turno la neurologa.»

    «Io compilo e scappo, ci pensi tu poi?»

    «Aspetta solo un attimo, controllo se è in servizio la Serri», pregò Manuela, prima di allontanarsi dal bancone per telefonare al reparto di neurologia.

    Dario rimase taciturno tutto il tempo. Vedendo allontanarsi l’infermiera, spinse con le mani sulle ruote della carrozzella e si avvicinò in un lampo ad Alessandro.

    «Avevamo un patto o sbaglio?» domandò stizzito.

    Il paramedico sospirò, quasi pentito della sua promessa.

    «In che guaio mi sono cacciato… ok, tieni il cellulare, ma che sia una cosa veloce.»

    Dario, convulso, afferrò il telefono e compose il numero.

    Oddio cosa le dico? Non riconoscerà questa voce, rifletté appena inoltrata la chiamata, riagganciando al primo squillo.

    «Fatto…? Non intendevo così veloce», ironizzò Alessandro.

    «Io… non so cosa dire», replicò timidamente Dario.

    Il volto commosso dell’uomo fece capire al paramedico quanto quella telefonata fosse importante per lui. Spinto dall’innato altruismo, tentò pazientemente di spronarlo.

    «Deve essere una persona alla quale tieni molto. Dai, richiamala e comincia con un ciao, poi vedrai che...»

    «Come faccio a spiegarle tutto questo…? Se io sono qui, avrà trovato il mio corpo senza vita», pensò Dario a voce alta, con lo sguardo fisso sul pavimento.

    «Magari evita di accennare a questa… cosa, potrebbe risultare strana», consigliò Alessandro in tono sarcastico.

    Dario annuì, prese un bel respiro per farsi coraggio e inoltrò nuovamente la chiamata.

    Una voce femminile, a lui molto familiare, rispose immediatamente, allertata dallo squillo precedente.

    «Pronto?»

    «Ciao Elena», esordì titubante l’uomo.

    «Buongiorno… scusami, ma non riconosco la voce, chi sei?» chiese gentilmente la donna.

    Dario rimase qualche secondo in silenzio, sconcertato dalla voce rilassata di Elena: la moglie sembrava inconsapevole di ciò che stava avvenendo.

    «Amore, so che sembra una pazzia, ma io sono Dario, tuo marito! Non capisco cosa stia accadendo, sembra di essere in un film: stamattina mi sono svegliato in…»

    Con profondo stupore, sentì la donna lasciarsi andare in una sonora risata nervosa.

    «Ma che scherzo idiota, potevi almeno aspettare che il mio vero marito uscisse di casa prima di fare questa telefonata di cattivo gusto. Fatti curare cretino!» insultò Elena, chiudendo la comunicazione senza concedere alcuna possibilità di replica.

    Dario rimase pietrificato, con lo sguardo sconvolto e il telefono ancora poggiato all’orecchio.

    Per quanto tentasse di ristabilire un contatto con la realtà, non riusciva a trovare un barlume di logica al quale aggrapparsi: i confini di quel paradosso sembravano stringersi sempre più intorno a lui, come un abito su misura.

    Se io sono lì, come faccio a… sono in un altro corpo qui, ma anche nel mio a casa…

    Alessandro capì che qualcosa era andato storto.

    «Tutto bene…? È caduta la linea?»

    Senza mostrare alcuna emozione, immerso nell’anarchia dei suoi pensieri, Dario allungò il braccio per riconsegnare il cellulare, lasciando che la curiosità del paramedico si perdesse nel suo mutismo.

    Proprio in quel momento, l’allegra Manuela fece ritorno al banco delle accettazioni per aggiornare il collega in attesa.

    «Ok fustaccio, la dottoressa Serri è in servizio nella sala cinque; potresti accompagnare tu il signore?» esordì briosa.

    La domanda distrasse Alessandro dallo sguardo catatonico del paziente. «Ehm… sì, tranquilla, lo porto io.»

    «Ah, scusami, prima che vai: hai un documento del signor Michele, per registrarlo?»

    «No, ma il fratello dovrebbe arrivare a breve: ha detto che ci avrebbe seguiti. Puoi sistemare con lui?»

    «Nessun problema, lo registro dopo.»

    La sala visite numero 5 non era molto grande, giusto lo spazio per accogliere un paziente alla volta.

    Seduta a una piccola scrivania in metallo, la dottoressa Serri rovistava tra le carte, mentre i lunghi capelli biondi nascondevano il telefono, bloccato in un tenero abbraccio tra la spalla e la guancia.

    Dalla porta socchiusa, Andrea, l’infermiere assistente della neurologa, fece cenno di entrare.

    Alessandro spinse la sedia fino al lettino medico.

    «Manuela dovrebbe aver inserito tutto nel foglio di primo soccorso che ha compilato in accettazione. Lo lascio a voi, io vado», bisbigliò all’infermiere prima di congedarsi.

    Dario sembrava ormai perso nel suo silenzio; anche la pacca sulla spalla, che Alessandro gli diede per salutarlo, non fece trasparire in lui alcun tipo di reazione.

    Alzò leggermente lo sguardo, attirato dal badge della dottoressa appeso al taschino del camice.

    Se neanche una neurologa riesce a capire il problema, significa che sono impazzito… è l’unica spiegazione, pensò terrorizzato.

    In pochi brevissimi istanti, un fiume di ricordi attraversò impetuoso la sua malinconica perplessità; cercò di focalizzarli tutti, uno a uno, nel tentativo di rinchiuderli in un cassetto nascosto della memoria, al ripario dalla sua follia.

    «Va bene, procedi così. Ci vediamo a pranzo, ho una visita ora», sussurrò al telefono la Serri prima di chiudere la chiamata.

    «Ok, vediamo cosa abbiamo», proseguì la dottoressa, prendendo il foglio di accettazione che l’infermiere le porgeva. «Dunque… signor Michele lei…»

    «La prego mi ascolti!» la interruppe Dario, alzandosi di scatto dalla sedia, dando quasi l’impressione di volerla aggredire.

    «Ehi, buono!» intimò Andrea, mentre con il corpo si frapponeva tra lui e la Serri.

    «Scusatemi, non voglio creare problemi, ma la scongiuro, mi ascolti», incalzò Dario.

    Con estrema calma, la dottoressa poggiò la mano rassicurante sull’avambraccio dell’infermiere.

    «Lascia non ti preoccupare, non vuole fare niente di male, vero Michele?»

    Dario si ritirò nuovamente sulla sedia a rotelle, scoraggiato.

    «Vorrei solo che qualcuno mi ascoltasse senza pensare che io sia pazzo. Ho bisogno che mi aiutiate a capire!»

    Tirando un sospiro di sollievo, la Serri assecondò l’uomo.

    «Siamo qui per questo. Mi lasci fare il mio lavoro e poi parliamo con calma.»

    Dario annuì, lasciando che la dottoressa focalizzasse la sua attenzione sul referto compilato da Manuela all’accettazione del pronto soccorso.

    «Vediamo cosa hanno scritto i ragazzi. Dunque… no, direi di no, faremo qualche analisi per conferma, ma non vedo sintomi riconducibili a un ictus: nessuna difficoltà motoria o di linguaggio. Poi, qui leggo epistassi, svenimento e comportamento psic… diciamo inusuale. Sembra più la conseguenza di un forte shock, vuole dirmi lei cosa è successo?»

    «A questo punto, non so quanto ne valga la pena. Mi trattate tutti come un folle e dovrei raccontarle cose alle quali io stesso faccio fatica a credere: mi sento come catapultato in un film di fantascienza», confidò Dario, chinando il capo.

    La Serri alzò lo sguardo dal foglio, mostrando un sorriso sincero e indulgente.

    «Provi lo stesso a raccontare, a me piacciono tanto i film di fantascienza», lo tranquillizzò.

    I lineamenti dolcemente armonici del viso e la limpidezza dei suoi occhi azzurri trasmisero a Dario un profondo senso di rinnovata fiducia.

    «Va bene, proviamo…» mugugnò l’uomo, prendendo un lungo e profondo respiro, come per darsi la carica. «Mi chiamo Dario Fontana e insegno lettere e filologia all’università La Sapienza, qui a Roma. Per quanto può sembrarle incredibile, ieri sera mi sono addormentato nel mio letto e mi sono risvegliato in quello di un’altra persona... nel suo corpo, ma non ho idea di chi sia questo Michele.»

    «Intende una sorta di scambio di persona…? Lei e Michele vi siete scambiati i corpi?» lo assecondò la dottoressa, sperando di raccogliere maggiori informazioni che la aiutassero a comprendere le fantasie dell’uomo.

    «No, non direi: se questo Michele avesse preso il mio corpo, Elena avrebbe… ho contattato telefonicamente mia moglie, ma sembrava fosse all’oscuro di tutto, come se io, l’altro io, fossi il me di sempre.»

    «E io che pensavo che sarebbe stata una mattinata noiosa», commentò sarcastico Andrea.

    La Serri lanciò un’occhiataccia all’infermiere, prima di rassicurare lo strano paziente. «Non faccia caso a lui, continui.»

    Nonostante lo sguardo della donna cominciasse a mostrare segni di scetticismo, Dario si fece coraggio.

    «Al risveglio pensavo fosse uno scherzo… o che mi avessero drogato, almeno finché non mi sono visto allo specchio, poi ho perso i sensi. So che mi reputa un pazzo, lo penserei anch’io, ma le sto dicendo la verità.»

    La Serri si concesse qualche istante di silenziosa titubanza.

    L’uomo dialogava con estrema lucidità, senza mostrare alcun segnale visivo che potesse supportare un’autentica condizione psicotica acuta.

    «Signor Michele…»

    «Mi chiamo Dario, per favore.»

    «Va bene, signor Dario, starò al suo gioco.»

    «Le sembra che stia giocando? Ho bisogno del suo aiuto, le chiedo solo di…»

    «Ascolti! Io sono una neurologa, non una psichiatra: mi occupo di alterazioni organiche. Tuttavia, conosco bene la schizofrenia e lei è un pochino troppo cresciutello per manifestare un’improvvisa fase acuta della patologia.»

    «E cosa vorrebbe dire con questo?»

    «Non voglio trarre conclusioni affrettate, soprattutto prima di aver svolto accertamenti diagnostici che escludano un quadro clinico in grado di spiegare il suo racconto, ma, da una prima analisi… non le nascondo che mi sento leggermente presa per i fondelli da lei.»

    «Crede che mi stia inventando tutto? Andiamo, che motivi avrei per…» tentò di ribattere Dario, offeso dalle allusioni della dottoressa, per quanto le ritenesse giustificate.

    «Negli ultimi anni sembra diventata una moda», proseguì la Serri interrompendolo. «Ne ho sentite di tutti i colori: persone che parlano con i morti, alieni, poteri paranormali e chi ne ha più ne metta. Tanti di loro si fingevano pazzi per sbarcare il lunario, puntando con creatività alla pensione d’invalidità civile.»

    «Lei è completamente fuori strada», ribadì in tono polemico Dario, privo di argomentazioni degne di nota che potessero smentire l’ipotesi della dottoressa: forse ingiuriosa, ma del tutto sensata nella sua analisi.

    La neurologa scosse la testa, incredula. «Va bene, se insiste… faremo a modo suo: andremo a fondo in

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