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Chiaroscuro (Novelle)
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Chiaroscuro (Novelle)

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Grazia Deledda (Nuoro 1871 – Roma 1936) è stata una scrittrice italiana, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1926.

« Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano. »
(Motivazione del Premio Nobel per la letteratura)

INDICE
-------------------------
Chiaroscuro
Le tredici uova
Un grido nella notte
Il cinghialetto
La porta aperta
La porta chiusa
Il Natale del consigliere
Padrona e servi
Le scarpe
Al servizio del re
La scomunica
L'uomo nuovo
Lasciare o prendere?
La volpe
La cerbiatta
La festa del Cristo
Un po' a tutti
Libeccio
La moglie
I tre fratelli
L'ultima
La vigna nuova
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateOct 10, 2019
ISBN9788831643436
Chiaroscuro (Novelle)
Author

Grazia Deledda

Grazia Deledda (Nuoro, Cerdeña, 1871 - Roma, 1936). Novelista italiana perteneciente al movimiento naturalista. Después de haber realizado sus estudios de educación primaria, recibió clases particulares de un profesor huésped de un familiar suyo, ya que las costumbres de la época no permitían que las jóvenes recibieran una instrucción que fuera más allá de la escuela primaria. Posteriormente, profundizó como autodidacta sus estudios literarios. Desde su matrimonio, vivió en Roma. Escritora prolífica, produjo muchas novelas y narraciones cortas que evocan la dureza de la vida y los conflictos emocionales de los habitantes de su isla natal. La narrativa de Grazia Deledda se basa en vivencias poderosas de amor, de dolor y de muerte sobre las que planea el sentido del pecado, de la culpa, y la conciencia de una inevitable fatalidad. Sus principales obras son Elías Portolu, La madre y Cósima. En 1926 recibió el Premio Nobel de Literatura.

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    Chiaroscuro (Novelle) - Grazia Deledda

    GDM. 

    Grazia Deledda

    Grazia Maria Cosima Damiana Deledda (Nuoro, 27 settembre 1871 – Roma, 15 agosto 1936) è stata una scrittrice italiana, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1926. 

    Biografia

    Giovinezza

    Grazia Deledda nacque a Nuoro il 27 settembre 1871, quinta di sette tra figli e figlie,[2] in una famiglia benestante.[3]

    Il padre, Giovanni Antonio Deledda, aveva studiato legge, ma non esercitava la professione. Era un imprenditore e agiato possidente, si occupava di commercio e agricoltura; si interessava di poesia e lui stesso componeva versi in sardo, aveva fondato una tipografia e stampava una rivista. Fu sindaco di Nuoro nel 1892. La madre era Francesca Cambosu.[4] Dopo aver frequentato le scuole elementari fino alla classe quarta, Grazia Deledda venne seguita privatamente da un professore ospite di una parente della famiglia Deledda che le impartì lezioni di base di italiano, latino e francese (i costumi del tempo non consentivano alle ragazze un’istruzione oltre quella primaria e, in generale, degli studi regolari). Proseguì la sua formazione totalmente da autodidatta.[3] Importante per la formazione letteraria di Grazia Deledda, nei primi anni della sua carriera da scrittrice, fu l’amicizia con lo scrittore, archivista e storico dilettante sassarese Enrico Costa  che per primo ne comprese il talento. La famiglia venne colpita da una serie di disgrazie: il fratello maggiore, Santus, abbandonò gli studi, divenne alcolizzato e affetto da delirium tremens, il più giovane, Andrea, fu arrestato per piccoli furti. Il padre morì per una crisi cardiaca il 5 novembre 1892 e la famiglia dovette affrontare difficoltà economiche. Quattro anni più tardi morì anche la sorella Vincenza.[4]

    Attività letteraria giovanile

    Nel 1888 inviò a Roma alcuni racconti, Sangue sardo eRemigia Helder, che furono pubblicati dall’editore Edoardo Perino sulla rivista L’ultima moda, diretta da Epaminonda Provaglio. Sulla stessa rivista venne pubblicato a puntate il romanzo Memorie di Fernanda.

    Nel 1890 uscì a puntate sul quotidiano di CagliariL’avvenire della Sardegna, con lo pseudonimo Ilia de Saint Ismail, il romanzo Stella d’Oriente, e a Milano, presso l’editore Trevisini, Nell’azzurro, un libro di novelle per l’infanzia.

    Deledda incontrò l’approvazione di letterati come Angelo de Gubernatis e Ruggero Bonghi, che nel 1895 accompagnò con una sua prefazione l’uscita del romanzo Anime oneste.[5]

    Collabora con riviste sarde e continentali: La Sardegna, Piccola rivista e Nuova Antologia.

    Fra il 1891 e il 1896 sulla Rivista delle tradizioni popolari italiane, diretta da Angelo de Gubernatis venne pubblicato a puntate il saggio Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna, introdotto da una citazione di Tolstoi, prima espressione documentata dell’interesse della scrittrice per la letteratura russa. Seguirono romanzi e racconti di argomento isolano. Nel 1896 il romanzo La via del male fu recensito in modo favorevole da Luigi Capuana.[5]

    Nel 1897 uscì una raccolta di poesie, Paesaggi sardi edito da Speirani.

    Maturità

    Nell’ottobre del 1899 la scrittrice si trasferì a Roma. Nel 1900, sposò Palmiro Madesani, funzionario del Ministero delle Finanze, conosciuto a Cagliari. A Roma condusse una vita appartata. Ebbe due figli, Franz e Sardus.[3]

    Nel 1903 la pubblicazione di Elias Portolu la confermò come scrittrice e l’avviò ad una fortunata serie di romanzi ed opere teatrali: Cenere (1904), L’edera (1908), Sino al confine(1910), Colombi e sparvieri (1912), Canne al vento (1913),L’incendio nell’oliveto (1918), Il Dio dei venti (1922). Da Cenere fu tratto un film interpretato da Eleonora Duse.

    La sua opera fu apprezzata da Giovanni Verga oltre che da scrittori più giovani come Enrico Thovez, Emilio Cecchi, Pietro Pancrazi, Antonio Baldini.[6] Fu riconosciuta e stimata anche all’estero: D.H. Lawrence scrive la prefazione della traduzione in inglese de La madre. Grazia Deledda fu anche traduttrice, è sua infatti una versione di Eugénie Grandet di Honoré de Balzac.

    Il premio Nobel

    Nel 1926 le venne conferito il premio Nobel per la letteratura.

    La morte

    Un tumore al seno di cui soffriva da tempo la portò alla morte il 15 agosto 1936.[7]

    Le spoglie di Deledda sono custodite in un sarcofago di granito nero levigato nella chiesetta della Madonna della Solitudine, ai piedi del monte Ortobene di Nuoro.

    Lasciò incompiuta la sua ultima opera Cosima, quasi Grazia, autobiografica, che apparirà in settembre di quello stesso anno sulla rivista Nuova Antologia, a cura di Antonio Baldini e poi verrà edita col titolo Cosima.

    La sua casa natale, nel centro storico di Nuoro (Santu Predu), è adibita a museo.[8]

     Critica

    La critica in generale tende a incasellare la sua opera di volta in volta in questo o in quell’-ismo: regionalismo, verismo, decadentismo, oltre che nella letteratura della Sardegna. Altri critici invece preferiscono riconoscerle l’originalità della sua poetica.

    Il primo a dedicare a Grazia Deledda una monografia critica a metà degli anni trenta fu Francesco bruno.[9]   Negli anni quaranta-cinquanta, sessanta, nelle storie e nelle antologie scolastiche della letteratura italiana, la presenza di Deledda ha rilievo critico e numerose pagine antologizzate, specialmente dalle novelle.

    Tuttavia parecchi critici italiani avanzavano riserve sul valore delle sue opere. I primi a non comprendere Deledda furono i suoi stessi conterranei. Gli intellettuali sardi del suo tempo si sentirono traditi e non accettarono la sua operazione letteraria, ad eccezione di alcuni: Costa, Ruju, Biasi. Le sue opere le procurarono le antipatie degli abitanti di Nuoro, in cui le storie erano ambientate. I suoi concittadini erano infatti dell’opinione che descrivesse la Sardegna come terra rude, rustica e quindi arretrata.[10]

    Verismo

    Ai primi lettori dei romanzi di Deledda era naturale inquadrarla nell’ambito della scuola verista.

    Luigi Capuana la esortava a proseguire nell’esplorazione del mondo sardo, una miniera dove aveva …già trovato un elemento di forte originalità.[11]

    Anche Borgese definisce Deledda degna scolara di Giovanni Verga.[12] Lei stessa scrive nel 1891 al direttore della rivista romana La Nuova Antologia, Maggiorino Ferraris: L’indole di questo mio libro mi pare sia tanto drammatica quanto sentimentale e anche un pochino veristica se ‘verismo’ può dirsi il ritrarre la vita e gli uomini come sono, o meglio come li conosco io.

    Differenze rispetto al Verismo

    Ruggero Bonghi, manzoniano, per primo si sforza di sottrarre la scrittrice sarda al clima delle poetiche naturalistiche.[13]

    Emilio Cecchi nel 1941 scrive:Ciò che la Deledda poté trarre dalla vita della provincia sarda, non s’improntò in lei di naturalismo e di verismo…Sia i motivi e gli intrecci, sia il materiale linguistico, in lei presero subito di lirico e di fiabesco…[14]

    Natalino Sapegno definisce i motivi che distolgono Deledda dai canoni del Verismo: Ma da un’adesione profonda ai canoni del verismo troppe cose la distolgono, a cominciare dalla natura intimamente lirica e autobiografica dell’ispirazione, per cui le rappresentazioni ambientali diventano trasfigurazioni di un’assorta memoria e le vicende e i personaggi proiezioni di una vita sognata. A dare alle cose e alle persone un risalto fermo e lucido, una illusione perentoria di oggettività, le manca proprio quell’atteggiamento di stacco iniziale che è nel Verga; ma anche nel Capuana e nel De Roberto, nel Pratesi e nello Zena.[15]

    Decadentismo

    Vittorio Spinazzola scrive: Tutta la miglior narrativa deleddiana ha per oggetto la crisi dell’esistenza. Storicamente, tale crisi risulta dalla fine dell’unità culturale ottocentesca, con la sua fiducia nel progresso storico, nelle scienze laiche, nelle garanzie giuridiche poste a difesa delle libertà civili. Per questo aspetto la scrittrice pare pienamente partecipe del clima decadentistico. I suoi personaggi rappresentano lo smarrimento delle coscienze perplesse e ottenebrate, assalite dall’insorgenza di opposti istinti, disponibili a tutte le esperienze di cui la vita offre occasione e stimolo.[16]

    Deledda e i narratori russi

    È noto che la giovanissima Grazia Deledda, quando ancora collaborava alle riviste di moda, si rese conto della distanza che esisteva tra la stucchevole prosa in lingua italiana di quei giornali e la sua esigenza di impiegare una lingua italiana più vicina alla realtà e alla società dalla quale proveniva.

    La Sardegna, tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, tenta come l’Irlanda di Oscar Wilde, di Joyce, di Yeats o la Polonia di Conrad, un dialogo alla pari con le grandi letterature europee e soprattutto con la grande letteratura russa.

    Nicola Tanda nel saggio, La Sardegna di Canne al vento scrive che, in quell’opera di Deledda, le parole evocano memorie tolstojane e dostoevskiane, parole che possono essere estese a tutta l’opera narrativa deleddiana: «L’intero romanzo è una celebrazione del libero arbitrio. Della libertà di compiere il male, ma anche di realizzare il bene, soprattutto quando si ha esperienza della grande capacità che il male ha di comunicare angoscia. Il protagonista che ha commesso il male non consente col male, compie un viaggio, doloroso, mortificante, ma anche pieno di gioia nella speranza di realizzare il bene, che resta la sola ragione in grado di rendere accettabile la vita».

    Negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, quelli in cui la scrittrice si dedica alla ricerca di un proprio stile, concentra la sua attenzione, sull’opera e sul pensiero di Tolstoj. Ed è questo incontro che sembra aiutarla a precisare sempre meglio le sue predilezioni letterarie. In una lettera in cui comunicava il progetto di pubblicare una raccolta di novelle da dedicare a Tolstoj, Deledda scriveva: «Ai primi del 1899 uscirà La giustizia: e poi ho combinato con la casa Cogliati di Milano per un volume di novelle che dedicherò a Leone Tolstoi: avranno una prefazione scritta in francese da un illustre scrittore russo, che farà un breve studio di comparazione fra i costumi sardi e i costumi russi, così stranamente rassomiglianti». La relazione tra Deledda e i russi è ricca e profonda, e non è legata solo a Tolstoj ma si inoltra nel mondo complesso degli altri contemporanei: Gor’kij, Anton Čechov e quelli del passato più recente, Gogol’, Dostoevskij e Turgenev.

    Altre voci di critici

    Attilio Momigliano in più scritti[17][18] sostiene la tesi che Deledda sia un grande poeta del travaglio morale da paragonare a Dostoevskij.

    Francesco FlorA[19][20] afferma che La vera ispirazione della Deledda è come un fondo di ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza, e nella trama di quei ricordi quasi figure che vanno e si mutano sul fermo paesaggio, si compongono i sempre nuovi racconti. Anzi, poiché i primi affetti di lei si formano essenzialmente con la sostanza di quel paesaggio che ella disegnava sulla vita della nativa Sardegna, è lecito dire, anche per questa via, che l’arte della Deledda è essenzialmente un’arte di paesaggio.

    Testimonianze di scrittori stranieri

    Su di lei scrisse prima Maksim Gorkij e più tardi D. H. Lawrence.

    Maksim Gorkij raccomanda la lettura delle opere di Grazia Deledda a L. A. Nikiforova, una scrittrice esordiente. In una lettera del 2 giugno del 1910 le scrive: «Mi permetto di indicarLe due scrittrici che non hanno rivali né nel passato, né nel presente: Selma Lagerlof e Grazia Deledda. Che penne e che voci forti! In loro c’è qualcosa che può essere d’ammaestramento anche al nostro mužik».

    David Herbert Lawrence, nel 1928, dopo che Deledda aveva già vinto il Premio Nobel, scrive nell’Introduzione alla traduzione inglese del romanzo La Madre: «Ci vorrebbe uno scrittore veramente grande per farci superare la repulsione per le emozioni appena passate. Persino le Novelle di D’Annunzio sono al presente difficilmente leggibili: Matilde Serao lo è ancor meno. Ma noi possiamo ancora leggere Grazia Deledda, con interesse genuino». Parlando della popolazione sarda protagonista dei suoi romanzi la paragona ad Hardy, e in questa comparazione singolare sottolinea che la Sardegna è proprio come per Thomas Hardy l’isolato Wessex. Solo che subito dopo aggiunge che a differenza di Hardy, «Grazia Deledda ha una isola tutta per sé, la propria isola di Sardegna, che lei ama profondamente: soprattutto la parte della Sardegna che sta più a Nord, quella montuosa». E ancora scrive: «È la Sardegna antica, quella che viene finalmente alla ribalta, che è il vero tema dei libri di Grazia Deledda. Essa sente il fascino della sua isola e della sua gente, più che essere attratta dai problemi della psiche umana. E pertanto questo libro, La Madre, è forse uno dei meno tipici fra i suoi romanzi, uno dei più continentali».

    Poetica

    I suoi temi principali

    I suoi temi principali furono l’etica patriarcale del mondo sardo e le sue atmosfere fatte di affetti intensi e selvaggi.

    Il fato

    L’esistenza umana è in preda a forze superiori, canne al vento sono le vite degli uomini e la sorte è concepita come malvagia sfinge.[21]

    Il peccato e la colpa

    La narrativa di Deledda si basa su forti vicende d’amore, di dolore e di morte sulle quali aleggia il senso del peccato, della colpa, e la coscienza di una inevitabile fatalità. «La coscienza del peccato che si accompagna al tormento della colpa e alla necessità dell’espiazione e del castigo, la pulsione primordiale delle passioni e l’imponderabile portata dei suoi effetti, l’ineluttabilità dell’ingiustizia e la fatalità del suo contrario, segnano l’esperienza del vivere di una umanità primitiva, malfatata e dolente, ‘gettata’ in un mondo unico, incontaminato, di ancestrale e paradisiaca bellezza, spazio del mistero e dell’esistenza assoluta».

    Il bene e il male

    «Nelle sue pagine si racconta della miserevole condizione dell’uomo e della sua insondabile natura che agisce - lacerata tra bene e male, pulsioni interne e cogenze esterne, predestinazione e libero arbitrio - entro la limitata scacchiera della vita; una vita che è relazione e progetto, affanno e dolore, ma anche provvidenza e mistero. Deledda sa che la natura umana è altresì - in linea con la grande letteratura europea - manifestazione dell’universo psichico abitato da pulsioni e rimozioni, compensazioni e censure. Spesso, infatti, il paesaggio dell’anima è inteso come luogo di un’esperienza interiore dalla quale riaffiorano ansie e inquietudini profonde, impulsi proibiti che recano angoscia: da una parte intervengono i divieti sociali, gli impedimenti, le costrizioni e le resistenze della comunità di appartenenza, dall’altra, come in una sorta di doppio, maturano nell’intimo altri pensieri, altre immagini, altri ricordi che agiscono sugli esistenti. La coscienza dell’Io narrante, che media tra bisogni istintuali dei personaggi e contro-tendenze oppressive e censorie della realtà esterna, sembrerebbe rivestire il ruolo del demiurgo onnisciente, arbitro e osservatore neutrale delle complesse dinamiche di relazione intercorrenti tra identità etiche trasfigurate in figure che recitano il loro dramma in un cupo teatro dell’anima».

    Sentimento religioso

    «In realtà il sentimento di adesione o repulsione autorale rispetto a questo o a quel personaggio, trova nella religiosità professata e vissuta, una delle discriminanti di fondo. Di fronte al dolore, all’ingiustizia, alle forze del male e all’angoscia generata dall’avvertito senso della finitudine, l’uomo può soccombere e giungere allo scacco e al naufragio, ma può altresì decidere di fare il salto, scegliendo il rischio della fede e il mistero di Dio. Altri tormenti vive chi, nel libero arbitrio, ha scelto la via del male, lontano dal timor di Dio e dal senso del limite, e deve sopportare il peso della colpa e l’angoscia del naufrago sospeso sull’abisso del nulla».

    Personaggi

    «Le figure deleddiane vivono sino in fondo, senza sconti, la loro incarnazione in personaggi da tragedia. L’unica ricompensa del dolore, immedicabile, è la sua trasformazione in vissuto, l’esperienza fatta degli uomini in una vita senza pace e senza conforto. Solo chi accetta il limite dell’esistere e conosce la grazia di Dio non teme il proprio destino. Portando alla luce l’errore e la colpa, la scrittrice sembra costringere il lettore a prendere coscienza dell’esistenza del male e nel contempo a fare i conti col proprio profondo, nel quale certi impulsi, anche se repressi, sono sempre presenti. Ma questo processo di immedesimazione non conosce catarsi, nessun liberatorio distacco dalle passioni rappresentate, perché la vicenda tragica in realtà non si scioglie e gli eventi non celano alcuna spiegazione razionale, in una vita che è altresì mistero. Resta la pietas, intesa come partecipazione compassionevole verso tutto ciò che è mortale, come comprensione delle fragilità e delle debolezze umane, come sentimento misericordioso che induce comunque al perdono e alla riabilitazione di una comunità di peccatori con un proprio destino sulle spalle. Anche questo avvertito senso del limite e questo sentimento di pietà cristiana rendono la Deledda una grande donna prima ancora che una grande scrittrice».[22]

    Una Sardegna mitica

    Deledda esprime una scrittura personale che affonda le sue radici nella conoscenza della cultura e della tradizione sarda, in particolare della Barbagia. «L’isola è intesa come luogo mitico e come archetipo di tutti i luoghi, terra senza tempo e sentimento di un tempo irrimediabilmente perduto, spazio ontologico e universo antropologico in cui si consuma l’eterno dramma dell’esistere.»[23]

    Lingua e stile

    È stata la stessa Deledda a chiarire più volte, nelle interviste e nelle lettere, la distanza tra la cultura e la civiltà locali e la cultura e la civiltà nazionali. Ma anche questo suo parlare liberamente del proprio stile e delle proprie lingue ha suscitato e suscita soprattutto oggi interpretazioni fuorvianti, e tuttavia ripropone senza posa l’intenso rapporto tra civiltà-cultura-lingua come una equazione mal risolta.

    In una sua lettera scrive: Leggo relativamente poco, ma cose buone e cerco sempre di migliorare il mio stile. Io scrivo ancora male in italiano - ma anche perché ero abituata al dialetto sardo che è per se stesso una lingua diversa dall’italiana. La lingua italiana è quindi, per lei sardofona, una lingua non sua, una lingua che deve conquistarsi. La composizione in lingua italiana, per uno scrittore che assuma la materia della narrazione dal proprio vissuto e dal proprio universo antropologico sardo, presenta numerose e sostanziali difficoltà e problemi. Né il dibattito recente sul bilinguismo è riuscito ancora a chiarire questo rapporto di doppia identità. Doppia identità per questa specie particolare di bilinguismo, e di diglossia che è stata per secoli la condizione umana degli scrittori italiani non toscani; ma anche dei toscani, quando non componevano in vernacolo.

    L’attività epistolare e autocorrettoria di Grazia Deledda è ben ponderata, cosa che non le impedì di scrivere in lingua italiana questa lettera del 1892 sull’italiano: Io non riuscirò mai ad avere il dono della buona lingua, ed è vano ogni sforzo della mia volontà. Dall’epistolario e dal suo profilo biografico si evince un distinto senso di noia per quei manuali di lingua italiana che avrebbero dovuto insegnarle lo stile e che sarebbero dovuti esserle di aiuto nella formazione della sua cultura letteraria di autodidatta, di contro emerge una grande abitudine alla lettura e una grande ammirazione per i maestri narratori attraverso la lettura dei loro romanzi.

    Quella di Deledda era una scrittura moderna che ben si adattava alla narrazione cinematografica, infatti dai suoi romanzi vennero tratti diversi film già nei primi anni dieci del XX secolo. Nel 1916 il regista Febo Mari aveva iniziato a girareCenere con l’attrice Eleonora Duse, purtroppo a causa della

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