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Il cervello del pollo
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Il cervello del pollo

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A poco più di 40 anni Pietro, professore in un liceo di provincia, si rende conto che il Governo del suo paese ha imboccato una deriva politica che porterà la nazione allo sfascio e decide di impegnarsi in prima persona per cambiare questa situazione.
Ci proverà in vari modi, ma i risultanti saranno deludenti; sempre più pervaso da una crescente coscienza anarchica e condizionato dai testi delle canzoni di Fabrizio de André alla fine deciderà di portare a compimento un’azione estrema che possa servire a risvegliare le coscienze sopite dei suoi connazionali.
Le cose però non andranno come progettate e Pietro si renderà presto conto di aver fatto la figura del pollo, ma soprattutto del capro espiatorio.
Dimostrando doti che nemmeno pensava di possedere, ed aiutato da amici preziosi, Pietro cercherà di riscattarsi agli occhi della sua fidanzata, dei suoi genitori e della giustizia del suo paese organizzando un’azione ancor più clamorosa con un epilogo assolutamente inaspettato.A poco più di 40 anni Pietro, professore in un liceo di provincia, si rende conto che il Governo del suo paese ha imboccato una deriva politica che porterà la nazione allo sfascio e decide di impegnarsi in prima persona per cambiare questa situazione.
Ci proverà in vari modi, ma i risultanti saranno deludenti; sempre più pervaso da una crescente coscienza anarchica e condizionato dai testi delle canzoni di Fabrizio de André alla fine deciderà di portare a compimento un’azione estrema che possa servire a risvegliare le coscienze sopite dei suoi connazionali.
Le cose però non andranno come progettate e Pietro si renderà presto conto di aver fatto la figura del pollo, ma soprattutto del capro espiatorio.
Dimostrando doti che nemmeno pensava di possedere, ed aiutato da amici preziosi, Pietro cercherà di riscattarsi agli occhi della sua fidanzata, dei suoi genitori e della giustizia del suo paese organizzando un’azione ancor più clamorosa con un epilogo assolutamente inaspettato.
LanguageItaliano
Release dateOct 4, 2019
ISBN9788869827501
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    Book preview

    Il cervello del pollo - Sergio Matteoli

    pensare

    Preludio

    Io non sono un morto di sete

    che fa pascere di sera i suoi cammelli

    con i piccoli malnutriti

    mentre le madri esauste liberano le poppe.

    Non un vile poltrone rincantucciato con sua moglie,

    consultandosi con lei su come debba comportarsi.

    Non un pavido come lo struzzo

    nel cui cuore palpitante pare ci sia un’allodola

    che si solleva e si alza nel volo.

    Non sono un rattrappito che fa più male che bene,

    impacciato, sgomento se gli fai paura ... e inerme.

    E se tu mi vedessi, donna,

    abbrustolito come struzzo e scalzo senza calzari.

    Sappi ch’io son l’uomo della pazienza,

    che rivesto la sua armatura su un cuore quale bastardo di iena…

    ... e di fortezza mi calzo.

    Io inganno ostinatamente la fame tanto da ammazzarla,

    e la passo sotto silenzio si dà distrarmene.

    Io sono uscito dall’avventura tra l’oscurità e la pioggia battente,

    avendo a compagni disperata fame e congelamento,

    paura e brividi di terrore.

    Ed ho vedovato donne e resi orfani i figli,

    e sono tornato così come partii,

    nel pieno tenebrore notturno.

    al-Shanfarā (V secolo – 525)

    16 settembre ore 8,30 del mattino

    Pietro era seduto ad uno dei tavolini esterni del bar da poco più di un’ora, ma la macchina del Presidente, a dispetto della sua proverbiale puntualità, non si era ancora fatta vedere.

    Aveva già consumato una abbondate colazione, per avere qualcosa da fare durante l’attesa e non lasciar trasparire la sua ansia aveva letto due giornali e scritto un po’ di appunti sul suo taccuino Moleskine. In realtà cominciava a preoccuparsi che la lunga permanenza ai tavoli del bar cominciasse a dare nell’occhio.

    Un normale avventore che fa varie ordinazioni può sedere quanto vuole al tavolino di un bar, nessun cameriere inviterebbe mai un cliente ad andarsene, a meno che non diventi in qualche modo molesto per gli altri clienti. Ma contrariamente al suo aspetto ed al suo atteggiamento, assolutamente normali, Pietro non era un normale avventore, anche se questo lo sapeva solo lui.

    Già da un po’ aveva cominciato a sospettare che almeno un paio di persone che come lui stavano facendo colazione ai tavolini del bar lo stessero tenendo d’occhio: percepiva distintamente la strana sensazione di essere osservato, controllato, senza però capire da chi e da dove. Lo irritava soprattutto il fatto di non essere capace di scoprire quale tra gli altri clienti del bar fosse quello che lo stava controllando.

    Ma si trattava solo di una sua sensazione, assolutamente non suffragata da nessun indizio concreto. Probabilmente si trattava di paranoie alimentate dalla sua ansia.

    In realtà la vita attorno a lui scorreva in maniera perfettamente uguale a tutte le giornate precedenti: il traffico veicolare scorreva lentamente come sempre; sotto l’occhio vigile di genitori o nonni dei chiassosi bambini giocavano in un piccolo parco posto esattamente alle spalle del bar; in attesa di qualche cliente i tassisti all’angolo parlavano ad alta voce dell’aumento del prezzo dei carburanti inveendo contro il Governo; la fioraia del negozio contiguo al bar curava in maniera quasi maniacale l’aspetto della sua vetrina; dei giovani turisti curvi sotto il peso dei loro zaini cercavano inutilmente di decifrare gli incomprensibili orari e percorsi degli autobus urbani affissi alla fermata; i vigili urbani controllavano l’orario di inizio sosta delle auto ed elargivano multe senza tradire emozione o, peggio ancora, mostrando soddisfazione.

    Ad alimentare l’intensità della sua ansia c’erano però le due macchine della polizia parcheggiate vicino all’incrocio tra via Marco Polo e Corso Nizza e, anche se a malapena visibile, l’inquietante sagoma di un blindato dell’esercito alla fine del Corso, proprio prima di Piazza della Repubblica. La loro presenza era però assolutamente normale, trattandosi del tragitto che tutte le mattine era percorso dal corteo di macchine che accompagnava il Presidente dalla sua abitazione nella capitale sino al Palazzo del Governo, suo abituale luogo di lavoro.

    Totalmente incurante delle preoccupazioni di Pietro, la città si era invece risvegliata in una splendida e luminosa mattinata di metà settembre, di quelle che solo la capitale è capace di regalare. Con il passare delle ore la temperatura sarebbe salita di alcuni gradi, fino a raggiungere ancora livelli quasi estivi, ma nelle prime ore della mattina l’aria aveva cominciato ad essere più fresca, quasi frizzante; una bella mattina come le tante altre vissute dalla città e nessuno, proprio nessuno, sembrava prestare attenzione ad un atletico quarantenne seduto al tavolino fuori da un bar.

    Nella mente di Pietro però tutti potevano essere dei poliziotti in borghese, anzi, per lui proprio quelli che più si fingevano normali avevano la maggiore probabilità di essere lì proprio per lui, per saltargli addosso al momento opportuno, per impedirgli di portare a temine la sua missione, quella che da molto tempo era diventata lo scopo della sua vita.

    Nonostante l’ansia che gli attanagliava lo stomaco, Pietro continuava a ripetersi che nel caso di un controllo da parte di eventuali poliziotti sospettosi, la presenza nelle sue tasche di un piccolo congegno elettronico con interruttori, due led luminosi ed una piccola antenna non avrebbe generato particolare interesse: poteva tranquillamente essere confuso con un congegno per l’apertura a distanza di un cancello.

    Pietro aveva ripreso a sorseggiare senza fretta un succo di frutta tropicale dominando a stento l’eccitazione che lo pervadeva. Questa era dovuta sia alla consapevolezza di essere ad un passo dalla sua agognata meta che alla naturale paura di essere scoperto.

    A perfetto completamento di questo momento topico della sua vita una canzone di Fabrizio De André iniziò delicatamente ad insinuarsi nella sua mente

    "ed io contavo i denti ai francobolli,

    dicevo Grazie a Dio, Buon Natale,

    mi sentivo normale….¹"

    Si era proprio vero, nel corso degli anni anche Pietro aveva meticolosamente collezionato francobolli, minerali, lattine di birra, cartine per fare le sigarette, ed altro ancora; si era sentito normale per tanti, troppi anni, aveva deliberatamente scelto di non recepire cosa accadeva fuori dal suo mondo fino a quando, finalmente, aveva capito quale fosse la sua strada.

    "Rischiavano la strada e per un uomo

    ci vuole pure un senso a sopportare di poter sanguinare,

    e il senso non deve essere rischiare,

    ma forse non voler più sopportare² "

    No, non voleva più sopportare. Non ce la faceva più.

    Scacciò con rabbia le parole di De André dalla sua testa; come al solito lo avrebbero emozionato sino a farlo commuovere e non doveva attirare l’attenzione di nessuno, per nessun motivo.

    Mentre stringeva il bicchiere tra le mani si concentrò su qualcosa di buffo che allentasse in qualche modo la sua ansia, che alleggerisse il suo nervosismo. Si mise così a cercare di ricordare quando fosse stata l’ultima volta in cui era rimasto per così tanto tempo oziosamente seduto ad un tavolino sorseggiando una bibita.

    Per una strana associazione di idee il suo pensiero volò a suo cugino Silvano e ad una primavera di molti anni prima quando, poco più che adolescente, in malcelata adorazione lo ascoltava narrare il resoconto delle sue conquiste nelle discoteche della zona.

    Silvano, figlio di una cugina di suo padre viveva con i suoi genitori in un’altra regione ma veniva spesso a trovare i parenti con la sua mamma. Aveva un paio d’anni più di lui ed era quindi già grande ed il suo passatempo preferito era circondarsi di ragazzi un po’ più giovani a cui raccontare le sue gesta erotiche. Nonostante mille richieste il motivo del suo successo rimaneva per tutti un segreto finché non decise di confidarlo solo al suo cugino preferito: Pietro.

    Distesi sui covoni di fieno a casa della nonna, Silvano spiegò al giovane cugino, che non si perdeva una sola parola del racconto, che la tattica migliore per rimorchiare in una discoteca mai frequentata prima non era certo quella di chiedere di ballare ad ognuna delle ragazze presenti perché essendo uno straniero quelle avrebbero detto sicuramente di no anche per non suscitare le ire e le possibili reazione dei ragazzi locali.

    Bisognava quindi piano piano diventare uno di loro e per far questo il modo migliore era quello di sedere ad un tavolino e bersi una bibita; proprio così, non fare niente e guardare bene i frequentatori.

    In questo modo già dalla seconda volta non sarebbe stato uno straniero e sicuramente qualcuno del gruppo principale o più numeroso che frequentava la discoteca si sarebbe fatto avanti per sapere chi fosse e se gli fosse rimasto simpatico avrebbe provveduto ad introdurlo nella sua compagnia; addirittura poteva sperare che fosse proprio una ragazza a chiedergli di ballare per poi introdurlo nella compagnia.

    Pietro rimase colpito dalla semplicità della tecnica ma dopo tre domeniche pomeriggio trascorse in solitudine ad un tavolino della discoteca di un paese vicino, senza che nessuno si degnasse di domandargli chi fosse o cosa ci facesse (ma che cavolo vuoi che ci si faccia in una discoteca? L’autostop?) decise che Silvano non doveva avergli detto proprio tutto.

    Ma poi ripensandoci bene questo cugino non è che gli stesse poi così simpatico: al contrario di lui giocava bene a calcio e appena si presentava al campetto dove si facevano le partite tutti lo volevano in squadra; le ragazze poi se lo mangiavano con gli occhi, vuoi per il suo strano accento forestiero, vuoi per quel naso un po’ storto che gli conferiva il fascino che lui, Pietro, non aveva e non avrebbe mai avuto. Ma sì, ma che vada a cagare anche il cugino Silvano!

    Il rumore di una esplosione non lontana da lui interruppe bruscamente la catena di ricordi.

    Pietro ebbe un sussulto come se si svegliasse dal torpore in cui era immerso; lo spostamento d’aria che aveva ben distintamente avvertito sul plesso solare gli confermava, casomai ve ne fosse stato bisogno, che una grossa quantità di esplosivo era scoppiata in città a non molta distanza da dove si trovava.

    Che cosa stava succedendo?

    Qualcuno aveva deciso di fare un attentato proprio in quel giorno?

    Ma no, era impossibile, era una coincidenza assurda!

    Sarebbe stato sicuramente più probabile che il Presidente degli Stati Uniti si fosse fermato di fronte a lui a chiedergli una sigaretta.

    Avvertiva una strana sensazione, una vocina da dentro gli diceva che le cose stavano andando diversamente da come lui le aveva progettate, molto diversamente.

    Pietro pagò il conto e si mise a camminare mentre il rumore delle sirene delle ambulanze e delle macchine della polizia stava cominciando a riempire l’aria.

    Iniziò così a camminare senza meta, mentre il suo cervello elaborava dati all’impazzata ed una moltitudine di pensieri si agitava nella sua testa in maniera totalmente disordinata senza permettergli di ragionare razionalmente.

    Si fermò davanti ad un televisore acceso in un negozio di elettrodomestici: una edizione speciale del telegiornale informava i cittadini che una bomba ad alto potenziale era stata fatta esplodere di fronte ad un ingresso secondario e poco sorvegliato dell’Ambasciata di Israele.

    Pochi danni alla struttura, ma almeno sei innocenti passanti erano morti, mentre molti altri erano rimasti feriti più o meno leggermente, tutte persone colpevoli solo di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

    Il servizio riportava l’indiscrezione che fonti dei Servizi di Intelligence addossavano la responsabilità dell’attentato quasi sicuramente a terroristi islamici o, in seconda ipotesi, a qualche frangia anarchico insurrezionalista nazionale: in quel giorno cadeva l’anniversario della strage di Sabra e Chatila dove dal 16 al 18 settembre 1982 circa 3500 palestinesi, uomini, donne, vecchi e bambini, furono massacrati in Libano nei campi profughi di Sabra e Chatila dai miliziani cristiano maroniti di Elie Hobeika sotto l’occhio benevolo dei soldati israeliani e con il placet di Ariel Sharon, futuro Ministro della Difesa israeliano.

    Quindi, a parte la considerazione che una bomba contro l’Ambasciata israeliana ci poteva stare, in quel momento Pietro aveva una sola certezza che rimbombava nella sua testa come un mantra: dopo oltre vent’anni senza un atto terroristico in città non è assolutamente possibile che ne venga compiuto uno proprio il giorno che lui aveva scelto per fare ciò che aveva progettato; no, non è possibile che questa incredibile coincidenza mandi all’aria il lavoro di oltre un anno.

    Sempre che fosse un caso.

    Non riusciva ancora a capire come, ma sicuramente quello che lui aveva in mente e questo attentato avevano qualcosa in comune che avrebbe dovuto comprendere al più presto.

    Adesso Pietro aveva solo bisogno di un luogo tranquillo per fermarsi a ragionare. Aveva smesso di farlo da parecchio tempo per dedicarsi esclusivamente all’azione, ma ora doveva farlo.

    Circa tre anni prima: l’inizio

    Pietro Maltinti, trentasette anni da poco compiuti, un fisico da atleta leggermente appannato da qualche litro di vino in più, nato in Francia da genitori italiani e con loro ritornato in Italia all’età di 12 anni.

    La permanenza in Francia aveva rappresentato un passaggio fondamentale per la formazione di Pietro, soprattutto per gli insegnamenti ricevuti dal vecchio Spartaco, il fratello maggiore di sua nonna materna, che era andato a vivere in Francia.

    Forse per capire meglio il clima e l’ambiente in cui Pietro crebbe è bene spiegare la storia di questa famiglia.

    I genitori di Pietro decisero di emigrare in Francia, in una cittadina a pochi chilometri a sud di Avignone, nel 1950: in Italia il passaggio della guerra aveva lasciato distruzione e miseria, e quindi l’invito di Spartaco alla figlia di sua sorella arrivò come una benedizione divina.

    Spartaco era scappato in Francia nel 1932 e siccome era un gran lavoratore, in poco tempo si era fatto ben volere da tutti gli abitanti del piccolo paese dove si era stabilito; in pochi anni era riuscito a mettere in piedi una bella attività di produzione di frutta e verdura.

    La scelta di andare in Francia non era stata in realtà una vera e propria scelta ma una necessità.

    Il padre di Spartaco era il capoccia di una fabbrica di mattoni, figura di riferimento di quasi tutti gli operai della fabbrica, ed era anarchico. Negli anni bui del fascismo, una notte, un gruppo di fascisti locali decise che era arrivato il momento di dare una lezione a quel sovversivo: colpendo lui avrebbero dato un avvertimento chiaro a tutti coloro che lo seguivano. Una notte lo aspettarono vicino casa nascosti nel buio e poi lo ridussero in fin di vita a colpi di bastone e manganello.

    Nonostante le varie ferite e fratture, riuscì ad arrivare a casa dove fu accolto dalla moglie che, dopo averlo ripulito, si accorse delle gravi condizioni in cui versava e corse a chiamare un medico. Questi non poté far altro che constatare la gravità della situazione e ne dispose l’immediato ricovero all’ospedale. Nel mentre che si accingeva ad uscire per chiamare l’ambulanza il medico chiese alla donna cosa fosse successo:

    -È stato investito da un camion? È caduto mentre lavorava?

    La risposta fu semplice e naturale:

    -È caduto sì, ma nell’agguato di un branco di fascisti.

    A quella risposta il medico iniziò a balbettare:

    -Ma allora io non so…. Forse è meglio se l’ambulanza la andate a chiamare voi ... sapete come stanno le cose adesso, sono il medico del paese, non mi posso esporre più di tanto….

    Senza dire una parola la donna uscì dalla stanza da letto e si diresse in cucina, ritornò pochi secondi dopo con un grosso coltello da cucina in mano che senza nessuna esitazione conficcò nella schiena del medico supino sul marito:

    -Bene, signor dottore, ora dell’ambulanza ne avete bisogno anche voi e quindi la potete chiamare senza problemi, così quando sarà qui caricherà anche il mi marito!

    Fu così che il marito andò in ospedale e si salvò, mentre la moglie andò direttamente in carcere e ne uscì molti mesi dopo.

    Le ferite e le fratture lasciarono però una traccia indelebile nella salute dell’uomo e circa un anno e mezzo dopo, tornato al lavoro malfermo sulle gambe, fu trascinato da

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