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Un giorno il mondo sarà vostro
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Un giorno il mondo sarà vostro

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Un giorno il mondo sarà vostro è la narrazione cruda e dissacrante delle vicende, delle riflessioni e dei tormenti di un gruppo di giovani nati negli anni Novanta, vittime dell’impossibilità di costruire e possedere un mondo nuovo, il loro mondo. Progetti, speranze e delusioni si alternano su uno scenario dialogico in cui le parole ruvide e graffianti, gli sguardi lucidi e disincantati, i sogni ingenui e irrinunciabili provano a dar voce a una giovinezza in cui magari si ama male, ma ci si ama davvero.
LanguageItaliano
Release dateOct 2, 2019
ISBN9788893692335
Un giorno il mondo sarà vostro

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    Un giorno il mondo sarà vostro - Stefano Waller

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    Prologo

    «Qui dicono che la maggior parte delle persone tende a rispondere alla domanda chi sei? con la propria professione. Cosa dovremmo rispondere noi che un lavoro non ce l’avremo mai?» esordì Marco sbadigliando.

    Stava sfogliando svogliatamente le pagine di un noto settimanale la cui linea editoriale spaziava dal disimpegno gossipparo alla politica internazionale.

    «Risponderemo di andare a farsi fottere, Marcolino» gli rispose distrattamente Franz.

    «Ma ti rendi conto? Rimarremo per sempre degli informi. Forse è dovuta a questo la nostra crisi esistenziale.»

    «La nostra crisi esistenziale è dovuta al fatto che non abbiamo voglia di fare un cazzo. È anche vero, però, che non abbiamo niente da fare. Abbiamo troppo tempo libero. Dovrò trovarmi una ragazza se continua così. Che palle. Sto invecchiando.»   

    «Bla, bla, bla, cambi discorso, come al solito. Dai, seriamente, cosa risponderesti tu alla domanda chi sei?»

    «Ma che rottura che sei, oggi! Piantala di masturbarti il cervello con giornali che non fanno per te. Leggiti i giornaletti porno come tutti i ragazzi della tua età!» tagliò corto Franz, infastidito.

    «Dai, dai, rispondimi, non fare lo stronzo!» insistette l’amico, con l’entusiasmo fanciullesco e un po’ molesto di chi non accetta un no come risposta. Iniziò a fissarlo supplicante con gli occhi di un bambino a cui hanno appena rubato la merendina.

    «Ok, ok, hai vinto. Basta che poi ti tappi il buco e mi lasci in pace per almeno mezz’ora. Sei logorroico oggi.»

    «Ok, ok. Dopo taccio per sempre. Chi sei?»

    «Non sono nessuno. Tanto l’Odissea ci ha insegnato che Nessuno è sempre il nome di qualcuno.»

    «Non vale! Sei sempre il solito. Non si può mai parlare seriamente con te» piagnucolò Marco mettendo il broncio e proponendo dei supplichevoli occhietti da cerbiatto.

    «Va bene, va bene, Bambi, come vuoi. Faccio il serio. Che cos’è per te l’identità, Marcolino?»

    «In che senso?»

    «Cos’è che fa di noi ciò che siamo?»

    «Boh, non so. L’ambiente in cui viviamo? Nel senso... se vivessimo nel Bronx saremmo probabilmente dei criminali incalliti.»

    «Sì, esattamente. E per quale ragione saremmo dei delinquenti? Perché sarebbe più facile fare i criminali o perché ci identificheremmo come appartenenti a un gruppo di stronzi, e allora inizieremmo a stronzeggiare anche noi?»

    «Mi fuma già la testa.»

    «Marco, la nostra storia fa di noi ciò che siamo. L’incredibile immersione in quel marasma chiamato esistenza. È l’incontro con un’improbabile accozzaglia di esseri straordinari a temprarci. Questo è ciò che siamo. Al giorno d’oggi siamo tutti affascinati dal mito dell’uomo che si è fatto da solo. La verità, però, è che nessun uomo si è mai fatto da solo. Senza gli altri, gli amici e i nemici, non siamo nulla. Il nostro problema è che senza nessuno che ci stimoli, che ci incoraggi o che ci disprezzi, siamo diventati delle mezzeseghette, e abbiamo commesso il peggiore degli sbagli.»

    «Che sarebbe?»

    «Ci siamo messi a rincorrere le cose invece che le persone. Abbiamo subordinato l’interesse per noi stessi a quello per degli stupidissimi oggetti inanimati. La tragedia quindi è: come faremo a diventare ciò che siamo?»

    «E io che ne so? È una domanda da venti milioni di dollari.»

    «C’è solo una risposta plausibile. Ci hanno fottuto. Siamo una generazione di fottuti» sentenziò Franz, facendosi improvvisamente serio.

    «Sei un fatalista del cazzo!» esclamò Marco allarmato.

    L’amico scoppiò in una fragorosa risata.

    «Ovviamente, Marcolino, ma tu sei il solito credulone! Guarda come ti eri già intristito! Vuoi un fazzolettino per piangere? Avevi la faccia da Oddio! Siamo tutti fottuti, come faremo mai? Mi fai morire dal ridere!»

    «Certo che mi sono depresso! Avevi un’aria così seria!»

    «Ma secondo te, chi ci ammazza a noi, fino a che facciamo questi discorsi da dementi? Noi siamo quelli che appena sentono il canto delle sirene si buttano in mare aperto alla ricerca di qualche briciolo di felicità inesistente. Noi siamo quelli che rispondono di andare affanculo. Noi non esistiamo in questo mondo, noi resistiamo a questo mondo.»

    «E adesso che c’entrano le sirene?»

    «Vedi, il canto delle sirene dell’Odissea è un po’ una metafora della vita. C’è chi rema sulla barca con i tappi di cera nelle orecchie, inquadrato in una vita sicura, ancorato alla propria posizione, fedele a essa, senza chiedersi se sia giusto o sbagliato. Poi c’è chi si fa legare all’albero della nave, come Ulisse, e si accontenta semplicemente di lasciarsi stuzzicare dal canto delle sirene, irresistibilmente attratto dall’abisso. E poi ci sono i pazzi. Quelli che si buttano in mare per cercarle veramente, le sirene. Direi che io e te rientriamo esattamente in questa categoria.»

    «Io invece ti vedo più come Ulisse. Sono da solo in mezzo al mare.»

    Capitolo I

    Chi ha paura del vuoto non arriverà in alto,

    io ho paura anche del vuoto che c’è

    tra un passo e l’altro.

    Dargen d’Amico

    In quella sera piovosa non c’era tempo per prendere l’ombrello.

    L’ombrello lo hanno inventato per i falliti era la frase che martellava la testa di Marco.

    I falliti per lui erano i figli di papà che hanno come unico scopo nella vita quello di andare all’happy hour con la camicia figa. L’ombrello era stato inventato per loro. Per quelli che concepivano la pioggia come l’undicesima piaga d’Egitto, devastatrice di ciuffi arrembanti, sterminatrice di mocassini e acerrima nemica dell’uomo alla moda post-contemporaneo.

    Chissà se è vero che dio è nella pioggia pensava. Forse veramente si impegna nel distruggere i ciuffi imbalsamati, nell’insudiciare i vestiti patinati, nell’infangare le scarpe lucidate, nel far cadere le maschere di plastica, nell’abbattere le corazze di carta. Forse davvero fa piovere per lavare via le sofisticatezze, le complicazioni, le banalità. Fa piovere semplicemente per ricordare agli uomini che sono solo degli uomini.

    L’assenza dell’ombrello permetteva all’acqua di cadere incontrastata sul volto di Marco. Scendeva a fiotti dai suoi lunghi, ricci capelli castani, impregnati di quel leggero sudiciume tipico di quella parte di liceali convinti che quel briciolo di sporco addosso ti faccia apparire più interessante agli occhi delle ragazze. I capelli, al mescolarsi con l’acqua piovana, formavano, più che un effetto bagnato, quello che si potrebbe definire un effetto impeciato. Gli si appiccicavano unti alla fronte, appena sopra i giovani occhi smeraldo. Sua madre diceva sempre che i suoi occhi erano dello stesso colore che aveva il cielo il giorno in cui aveva visto la luce, in quell’afoso pomeriggio d’agosto. Ma sua madre raccontava sempre un sacco di balle, quindi chi lo sa se fosse vero? Dove si era mai visto un cielo verde? Neanche fosse nato al Polo Nord, sotto l’aurora boreale!

    In realtà Marco era nato e aveva vissuto tutto l’arco della sua breve esistenza in un paesino della provincia di Venezia. Aveva trovato lì il suo posto nel mondo, la sua dimensione esistenziale. È questo che più di ogni altra cosa lo affascinava: i paesaggi rurali e le anime di quelli che li abitavano. I casi umani del paese, al limite del neurodeliri, lo attraevano come poche cose nella vita. La provenienza da quella terra sanciva un’appartenenza di sangue inviolabile e inscalfibile al loro stesso universo. La provincia, lì, era uno stato d’animo. La si poteva respirare. Le persone di quella periferia non avevano nulla a che vedere con il resto della razza umana. Vivevano a un ritmo tribale di esistenza. Erano tutti convinti, venendo dalla periferia del regno, di avere qualcosa di meglio da offrire rispetto alla decadenza imperiale. Alla loro ignoranza, sopperivano con la passione. Ovviamente il prendere la vita sempre di petto risvegliava in loro una perenne belligeranza che sfogavano imprecando, bestemmiando e azzuffandosi gli uni con gli altri. Non erano affatto degli esseri perfetti, né tanto meno dei campioni di rispettabilità morale. Però erano veri. Non facevano nulla per nascondere la propria indole. Per questo era impossibile non appassionarsi a loro. Marco ne era totalmente rapito. Gli sembrava che quegli esseri in via di estinzione costituissero ormai l’unico baluardo di autenticità all’interno della decadente finzione moderna.

    Ma chi la vuole la città? pensava.

    Con la sua frenesia, la sua noia, la sua monotonia. In città non c’erano tutti quei casi umani. Benito, il nonno di Franz, ad esempio, lo avrebbero arrestato dopo nemmeno un secondo. E poi a cosa serviva vivere, se non ci si poteva coricare sull’erba lungo l’argine di un fiume a pensare? Ecco, questo era il guaio della città. Erano tutti talmente assorti nel fare qualcosa che avevano smesso di pensare alle cose. Perché se pensi alle cose, quando hai vent’anni, non puoi avere come unico scopo nella vita quello di finire in ufficio a comprare derivati sui mercati finanziari e come prospettiva ultima il rimanerci per il resto dei tuoi giorni.

    E poi, se vogliamo dirla tutta, c’erano i tramonti.

    No, non dei normali tramonti. Quel tipo di tramonti struggenti che ti squarciano dentro, con il sole che si tramuta in una palla di fuoco incandescente che specchiandosi nelle acque dei canali sembra incendiare il firmamento.

    Quel giorno lì, però, il sole non si era proprio palesato. Continuava a piovere incessantemente.

    Marco si divertiva, sotto la pioggia. Sembrava che stesse danzando sotto quel cielo plumbeo, pernicioso, il cui spettro di colore contemplava ogni tipo di grigio immaginabile. Saltava giocosamente i rivoli d’acqua che si formavano sulla stradina di campagna come uno stambecco. Le buche diventavano a poco a poco pozzanghere e si riempivano di un intruglio melmoso di acqua e terra. E lui balzava qua e là, mentre la pioggia cresceva d’intensità. Cominciava a diventare fastidiosa. Iniziò a diluviare. L’aria s’intrise di quell’odore di cemento umido tipico dell’asfalto bagnato. Gli penetrava nelle narici e si confondeva con quello putrido dello smog rilasciato dalle auto che correvano indifferenti sulla strada principale, poco lontano. Infinitamente lontana. Infinitamente diversa.

     Si ritrovò di colpo bagnato fradicio. La strada gli sembrava interminabile nonostante l’avesse percorsa centomila volte. La sua felpa e le sue Vans s’inzupparono, iniziando a pesare come macigni. S’impregnarono d’acqua, divennero sempre più scure a ogni goccia caduta. Ormai stavano assumendo un color grigio topo. A dire il vero, quelle che calzava non erano delle semplici scarpe. Le portava più come un talismano, come il simbolo di un legame indissolubile. Gliele aveva regalate Franz, il suo migliore amico, che quando gliele aveva consegnate l’aveva avvertito: «Ricordati che è soprattutto dalle scarpe che si valuta la gente. Stai sempre attento a quelli che hanno le scarpe pulite. Vuol dire o che non sono stati da nessuna parte in cui valesse la pena andare o, peggio, che sono dei feticisti del pulito e che le lucidano centosettanta volte al giorno ‘ste cazzo di scarpe! Manco fossero fatte di pelle di figa!»

    Marco come al solito aveva recepito all’istante. Quello che diceva Franz, per lui, equivaleva alla Torah. Non avrebbe mai più pulito delle scarpe in vita sua.

    A interrompere il suo idillio con la pioggia ci pensò una macchina che, sfrecciando su una pozzanghera proprio in un punto in cui le due strade correvano affiancate, creò un effetto onda che lo bagnò fino al midollo.

    «Stronzo tu, e stronzo chi ha inventato la pioggia e le pozzanghere!» esclamò imprecando.

    «Sei più bagnato di una cagna in calore!» strillò una figura dall’altro lato della carrozzabile.

    Nonostante piovesse a dirotto portava degli occhiali da sole alla moda, con una montatura blu che si abbinava in maniera pressoché perfetta al cerchiello che aveva in testa, al vestito che indossava e alle ballerine che aveva ai piedi. Dulcis in fundo, si riparava sotto un ombrello bluastro che reggeva con il mignolino alzato. Esisteva una sola persona al mondo in grado di raggiungere un grado tanto maniacale nell’abbinamento del vestiario: Jasmine.

    «Mi sono sempre chiesto, Jasma, dove hai imparato a parlare così. A Oxford? O forse a Cambridge?»

    «Oxford, Oxford!»

    «Sì, certo, come no. Sai cosa detesto di più al mondo che sentirti blaterare delle tue stronzate?»

    «Il mio culo?» chiese girandosi e indicando il fantastico fondoschiena che poteva tranquillamente essere la dimostrazione che gli esseri umani sono stati effettivamente creati a immagine e somiglianza della divinità.

    «Esatto! Quel tuo fantastico culo. Perché non te lo meriti. D’altronde sappiamo benissimo che purtroppo non c’è meritocrazia in questo Paese, basta guardare chi ci governa...»

    «Ma sparati! Il mio culo me lo merito eccome, se non altro per il semplice fatto che vado in palestra tre volte la settimana! E poi piantala di parlare di politica, sembri Franz.»

    Le corse incontro e la abbracciò come se non ci fosse stata altra creatura rimasta sulla faccia della terra. Rischiò di farsi investire da due o tre macchine, i cui autisti non persero l’occasione di dimostrargli tutta la loro benevolenza, chi alzando il dito medio, chi strombazzando forsennatamente con il clacson. S’incazzarono con lui come se li avesse privati di una ventina di diritti costituzionali. A lui non importava. Avrebbe patito le pene dell’inferno pur di stringerla, pur di poter afferrare quel corpo così esile e perfetto, pur di farsi sfiorare dal profumo di quei soffici capelli, pur di poter accarezzare le sue scapole.

    «Ciao imbecille!» lo salutò Jasmine che si dimenava spasmodicamente, stritolata dall’abbraccio dell’amico.

    A dire il vero, la loro amicizia faceva parte della categoria amici mai.

    Più che un’amica, era la sua ossessione. Il suo pensiero fisso da quando apriva gli occhi la mattina fino a quando li chiudeva la sera.

    «Non riesco a capire che cosa andiamo ancora a fare a queste cene. Il livello medio di intelligenza è quello di una gallina.»

    «Ma sono i nostri amici!»

    «Sono rimasti i soliti immaturi di quando avevano quindici anni. Io quindici anni non ce li ho più.»

    «Tu quindici anni non ce li hai mai avuti!»

    «No, sono loro che sono la personificazione dello squallore.»

    «Secondo me sono i migliori.»

    «Sì, certo. Non ne parliamo più che è meglio.»

    Giorgio si spaparanzò sul letto. Era comodissimo. Si girò di lato per sistemarsi ancora meglio quando incrociò lo sguardo con quello della sua ragazza. Lo stava fissando, appollaiata sulla sedia con quello sguardo che lui aveva sempre odiato. Era l’occhiata di sfida che gli lanciava ogni volta che lui diceva qualcosa che secondo lei era sbagliato. L’espressione del suo volto non dava adito a interpretazioni, comunicava un unico e inequivocabile concetto:

    Non ce l’hai abbastanza duro.

    Il problema peggiore per Giorgio era che era vero. Era vero in tutti i sensi. Non ce l’aveva abbastanza duro. Ultimamente aveva iniziato ad accusare sempre più frequenti problemi di erezione dovuti all’ansia che gli metteva addosso quella ragazza. Più che una ragazza, a essere sinceri, era il mostro di Lockness senza il lago. Non tanto dal punto di vista estetico, anche se non assomigliava propriamente a una fata, quanto per la perfidia con cui si relazionava al mondo.

    Il loro amplesso era stato organizzato in modo maniacale, ovviamente da lei, per raggiungere il massimo del piacere nel minor tempo possibile. L’efficacia e l’efficienza del sesso erano state minuziosamente calcolate, volta per volta, livellate pian piano con l’unico scopo di raggiungere il maggior godimento possibile senza che si sprecasse del tempo inutile. Il metodo di sterminio ideato da Wirth a Treblinka al confronto era un mix di dilettantismo e di improvvisazione allo stato puro. Marta era il Quarto Reich.

    Le posizioni e il relativo minutaggio erano i seguenti: due minuti alla missionaria, due a cucchiaio e tre a pecorina. Una vera e propria catena di montaggio dell’amplesso. Se Giorgio non raggiungeva l’orgasmo erano affari suoi! E in effetti qualche volta andava a masturbarsi di nascosto, dopo che l’avevano fatto. I preliminari erano ormai una cosa superata, come qualsiasi altra cosa che deviasse dall’ortodossia. Le cose si erano complicate ulteriormente quando lui aveva iniziato ad accusare dei problemi di erezione dovuti a tutta quell’ansia che gli veniva messa addosso. Ingabbiato in tutte quelle regole, si sentiva angosciato. Il sesso era diventato una routine, nella migliore delle ipotesi, nella peggiore una tortura medioevale.

    «Non ti preoccupare, sono cose che capitano a tutti» gli ripeteva continuamente Marta con un sorrisetto beffardo dipinto sul volto, come se ne gioisse sotto i baffi.

    Non era vero. Era l’unico che conoscesse che a vent’anni non riusciva a fare sesso con la sua ragazza. Franz, che amava sempre mettere il dito nella piaga, sarcasticamente lo aveva soprannominato Mogio Giorgio.

    Oggi era un altro giorno, però. Gliela avrebbe fatta vedere a quella creatura mefistofelica. Stasera sarebbe tornato a farlo come diceva lui. Come dio comandava. Le si avvicinò con aria quasi minacciosa, convinto di se stesso. La prese per il sedere e la sbatté contro il muro. Le mise una mano tra i ricci e iniziò a tirarglieli delicatamente. Le infilò l’altra nelle mutande e iniziò a massaggiarle il clitoride. Sentire quell’effetto bagnato sulle sue mani accese in lui un desiderio incontenibile. Contemporaneamente le avvicinò la testa e iniziò a baciarle il collo.

    «Ma che ti prende? Cosa stai facendo?»

    «Sto provando a cercare di fare l’amore con la mia ragazza.»

    «Perché i preliminar...»

    La girò. La baciò. Le mise la lingua in bocca. Doveva farla tacere. Oggi doveva essere lui ad avere il comando. Iniziò a penetrarla con le dita.

    «Ahi! Non usare due dita. Mi fai male. Usane solo uno.»

    Se ne fregò.

    Qualcosa però non funzionava. Era nella merda. Dalle parti basse non arrivava ancora alcuno stimolo, e le tre birre che aveva bevuto prima non è che lo aiutassero. Le levò rabbiosamente le mutande, la rigirò e pregò. Provò a pensare a qualcosa di arrapante. Si mise a pensare a quel bel pezzo di signora che era Maria, la madre di Marco. Funzionava. La libido cresceva di pari passo con il suo membro. Campioni del mondo! Iniziò a penetrarla. I loro liquidi si mescolarono. Le vene sul collo gli si gonfiarono. Gli addominali si tesero. Le si strusciò sul ventre a intervalli semiregolari.

    Nel frattempo Marta pensava alternativamente a cosa avrebbe mangiato il giorno dopo per pranzo e al test di matematica della settimana successiva. Casa o ristorante? E nel secondo caso, pizza o sushi? E cosa ripassare prima? Derivate o limiti? Tutto quel pensare le disegnava sul volto uno sguardo perso nel vuoto, distaccato da ogni esperienza terrena.

    Il suo grado di sadismo raggiungeva l’apice nel guardare Giorgio con quel suo sguardo da so tutto io, mentre lo facevano. Sapeva che lo irritava terribilmente. La sua occhiata era la stessa di un pugile che a ogni colpo dell’avversario volesse ribadire il suo: «È inutile che colpisci, non mi stai facendo niente.» Al confronto i boia medioevali avevano delle crisi di coscienza ragguardevoli.

    Eppure non si poteva dire che non stesse godendo. Aveva semplicemente un sorriso beffardo stampato sul volto, dettato dalla solita volontà di dominio. Non aveva nulla a che fare con l’Estasi di Santa Teresa. Il suo non era un vero orgasmo, era il piacere dettato dalla volontà di sopraffazione sul mondo. O almeno sul suo ragazzo. Si limitò con indifferenza a lasciarsi fare quello che voleva lui.

    Giorgio nel farlo si guardava riflesso nello specchio gigante che copriva un’intera anta dell’armadio. Si piaceva. Eccome, se si piaceva! Vedere quel suo fisico atletico lavorare alla perfezione mentre la possedeva lo faceva sentire uomo. Incrementò l’andatura. Era ritornato se stesso. Il suo sguardo venne però catturato di nuovo dall’espressione facciale di Marta. Alla vista del suo volto, iniziò a preoccuparsi. Come al solito.

    Ma che cazzo di faccia fa? Che le prende? Starò andando male? E soprattutto, da quand’è che mi faccio questi problemi? Sono diventato una mammoletta, pensava angosciato. E più pensava, più le cose peggioravano.

    «Giorgetto, ma secondo te domani sera dove sarebbe meglio andare a mangiare? Cenetta a casa o si potrebbe uscire?» lo stuzzicò lei, che godeva infinitamente nel vederlo in difficoltà.

    «Ma che cazz...?»

    Era a un passo dall’orgasmo e questa con che domande se ne usciva? Incrementò l’andatura della penetrazione.

    «Perché stavo pensando...»

    Ma cosa diavolo faceva? Cos’era, un’interrogazione culinaria? Tra un po’ si sarebbe messa a parlare di filosofia? Ma cosa le passava per il cervello? Era sempre stata insondabile, ma a questo livello di follia la situazione non era più tollerabile.

    «... che poi però se è pieno di gente e non troviamo posto, non mi porterai mica da quell’orrendo ristorante cinese dove si mangiano i cani, vero?»

    Centrò l’obiettivo. L’aveva distratto. La sua libido svaporò in un attimo. Si ammosciò come un fiore appassito. Solo un colpo di reni all’ultimo minuto poteva salvarlo.

    Adesso le faccio vedere io chi comanda pensò. Adesso glielo metto nel culo. Sì, sì, glielo metto nel culo, ma non metaforicamente, per davvero! Lo faccio davvero. Lo giuro.

    Non lo fece. Non trovò il coraggio. Si ammosciò come il ramo di un salice piangente. Si buttò sul letto, sfinito e depresso.

    «Non preoccuparti, Giorgino, sono cose che capitano» gli sussurrò lei all’orecchio con un sorriso soddisfatto.

    Non poteva andare avanti così. Proprio non ce la faceva più. L’unica consolazione era che quella sera avrebbe rivisto i suoi amici. Sarebbe tornato felice e spensierato, almeno per un po’. Sarebbe uscito, anche se per poco, da quel tunnel infernale chiamato Marta. O forse no. Forse non sarebbe mai uscito dal tunnel. Si mise a fissare il soffitto. Per un istante gli sembrò altissimo.

    «Franz».

    «Che c’è?»

    «Stavo pensando che domani se fa bel tempo potremmo andare al mare.»

    «Non c’ho voglia.»

    «Ma dai, ci divertiremmo un sacco, il mare è bellissimo a maggio, perché c’è quel caldino che non è fastidioso e non c’è tutta quella ressa. È davvero romantico. Romantico.»

    «Ascolta, se vuoi andare al mare, vai al mare, non è che ti servo io».

    «Allora ci vado con Antonio.»

    «E chi sarebbe questo?»

    «È un mio compagno di corso, quello che abbiamo incontrato l’altro giorno.»

    «Ah, ho capito chi è! È quel cazzone che abbiamo incontrato quella volta. Odorava di inutilità, ma se vuoi andare a parlare di quanto sono grossi i bicipiti che ha allenato in galera, vai pure!»

    «Sei il solito stronzo.»

    «Lo so. Ma non riesco a capire come voi donne possiate essere sempre attratte da gente che vi tratta da battone.»

    «Neanche io. L’unico ad avere il guinness world record per il numero di volte che mi ha trattata da battona sei tu. Il grande Francesco Sorel. Com’è che ti facevi chiamare? Il dottor scopata? Immagino di avere il ruolo della dottoressa cornuta...»

    «Smettila.»

    «No, piantala tu. Sei patetico.»

    «Intendevo: smettila di sminuirti. Sappiamo entrambi che sei l’unica per me. L’unica non so cosa, ma di certo la prima, in tutto.»

    «Sì, la prima scema» ribatté accarezzandosi la parte rasata dei capelli.

    «Mi sembra impossibile che tu non riesca a capirlo. Per quante hit del momento ci possano essere, i grandi classici rimangono sempre i grandi classici, restano pietre miliari inscalfibili nella storia della musica. Non è che Wish you were here viene demineralizzato da tutta la merda che ascoltiamo adesso. Rimarrà per sempre un capolavoro. E tu sei come un classicone, rimarrai per sempre nella storia della mia vita.»

    A Jessica scappò un sorriso. Non poteva resistere a quelle adulazioni così patetiche e al tempo stesso così rassicuranti.

    Jessica non era bella quanto Jasmine, ma poco ci mancava. Però un po’ se ne vergognava di essere così bella. La sua bellezza la mascherava, provava ad annacquarla nascondendola dietro un trucco vistosamente pesante, cupo e sbavato. Dietro l’ombretto, il rimmel e il mascara si nascondevano lineamenti delicati ma decisi che le conferivano un’aria dolce e cazzuta al tempo stesso. I suoi occhi lasciavano trasparire una tragicità e una malinconia che solo quelli che ne hanno viste troppe nella vita possono avere. Le era stato insegnato che devi tirare fuori le palle, se non vuoi che tutti ti mettano i piedi in testa. Il suo posto nel mondo se l’era guadagnato da sola, combattendo, affilando gli artigli e aguzzando l’ingegno. Il suo principale problema, ora, era che si trovava completamente in balia di Franz. È vero che il cuore ha ragioni che la ragione non conosce, ma porca troia Jess, ti devi dare una svegliata continuava a ripetersi. Il lusso dell’ingenuità non se l’era mai potuto permettere. Lo sapeva. Non era una di quelle che veniva abbagliata dall’amore per una persona. Con lui però era diverso. Quando era con Franz si sentiva come una falena, non poteva che lasciarsi attrarre dal fuoco per poi venirne incenerita viva. Di quel fuoco conosceva ogni scoppiettio, ogni sfumatura, ogni tonalità di colore. Era il suo fuoco. Sembrava che fosse destinata a lasciarsi consumare le carni a poco a poco. Non poteva evitarlo, l’attrazione era troppo forte. Il desiderio di avvinghiarsi a lui la divorava dall’interno, con una spietatezza letale e inesauribile. Jessica aveva sempre immaginato di essere da sola contro il mondo. Ora che il suo mondo si era allargato a due persone, si trovava estremamente in difficoltà. Aveva scovato qualcuno che odiasse il mondo quanto lei, e si era aggrappata a lui come fanno i koala con le piante d’eucalipto. Senza quella pianta così scontrosa e impervia, non sarebbe più riuscita a vivere. Quella pianta era diventata una parte di lei.

    «Ma vuoi tenermi sotto quest’ombrello? Fai il gentiluomo per una volta nella vita!»

    «Ma ti sto tenendo sotto! La prossima volta, Marta, ti porto in giro con l’impermeabile, anzi, con la muta da sub, o lo scafandro da palombaro, così almeno non ti bagni.»

    «Ma cosa stai dicendo? È così che tratti la tua principessa? Sei veramente un rozzo, un grezzo, un cafone. Ma come farò mai a sopportarti» disse, prendendolo a manate sullo sterno.

    Ma come faccio io a sopportare te, maledetta rompicoglioni pensava Giorgio in cuor suo.

    «Beh, forse mi sopporti perché sono estremamente bello e ce l’ho enorme» le disse cingendole i fianchi.

    Marta si dimenò, si sottrasse all’abbraccio e gli rifilò un coppino come risposta.

    «Ma che dici, cafone? Chiedimi subito scusa!»

    «Sì, sì, va bene, non ce l’ho enorme, ce l’ho mastodontico!»

    Volò una seconda sberla, leggermente più forte.

    «Veramente a volte non so come faccio a stare con un immaturo come te.»

    «Io non vedo cosa ci sia di male nell’essere immaturi, alla fine non ho neanche vent’anni, perché dovrei fare cose mature?»

    «Vent’anni? E ti sembra poco? Sei un uomo ormai, e dovrai comportarti come tale.»

    «E come si comporterebbe un uomo?»

    «Beh, è meglio che ti metti a studiare. E se non sai cosa fa un vero uomo, puoi direttamente trovarti un’altra ragazza.»

    «Ma io voglio stare con te!»

    Il dubbio che in realtà non fosse vero lo assalì per la prima volta. Le accarezzò delicatamente il volto.

    «Allora cresci. E in fretta.»

    La fissò per un istante, poi gli occhi di Giorgio cominciarono a fissare l’asfalto del marciapiede. Si specchiò in una pozzanghera. Era veramente lui, quello? O era solamente un riflesso passeggero? Qual era il suo vero io? Quello leggero e spensierato di quando stava con i suoi amici o quello riflessivo e serioso di quando stava con lei? Si osservò nuovamente nel riflesso. Non era più un bambino. Forse aveva ragione Marta, forse doveva crescere, diventare un uomo. Venne colto da un’ondata di nostalgia. Gli mancavano atrocemente le serate passate a sparare cazzate dal primo all’ultimo minuto con i suoi amici. Doveva fare i conti con la sottile linea di demarcazione tra la pesantezza e la leggerezza dell’essere. Avrebbe dovuto scegliere se varcarla o no. Però che noia quella pesantezza! E poi non parlava mai di niente con lei. Si limitava ad annuire e a rispondere garbatamente. Ma perché si ostinava a rimanere con quella spietata calcolatrice? Quella non era vita! Sentiva che ormai il tempo lo stava consumando. Più tempo passava con lei, più gli era difficile risincronizzarsi sulle lunghezze d’onda dei suoi amici. Lo scollamento si stava facendo incolmabile. Continuava a saltare di qua e di là la faglia che li separava. La faglia però si allargava a vista d’occhio. Un giorno avrebbe dovuto decidere: o lei o

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