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Il Cristallo
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Ebook327 pages4 hours

Il Cristallo

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About this ebook

Cristina può sentire i pensieri della gente come se fossero suoni. Possiede questo potere fin da bambina, da quando aveva dieci anni e un incidente stradale le ha portato via tutto: la famiglia, i ricordi, il passato. Adesso di anni ne ha diciassette, ma non ha ancora deciso se quel potere sia un dono o una maledizione.

Shun ha una missione, deve proteggere il Cristallo e per farlo è stato costretto a lasciare la sua casa, i suoi sogni e il mondo che avrebbe voluto salvare.

Una sera di fine ottobre, su un vaporetto che scivola lungo il Canal Grande, il potere di Cris diviene un suadente richiamo che la spinge ad avvicinare quel giovane schivo e solitario. È così che le loro vite si intrecciano e per un attimo i due assaporano una normalità che non avrebbero mai sperato di conoscere. Una normalità che fa abbassare la guardia a Shun e che porterà Cris a scoprire di essere più speciale di quanto non credesse.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateOct 2, 2019
ISBN9788831641784
Il Cristallo

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    Il Cristallo - Shirll Weirdrow

    all’impatto.

    Nella loro testa

    Cristina spalancò gli occhi.

    Sopra di lei una lama di luce tagliava il soffitto, entrando dalla finestra socchiusa. All’esterno la notte era ancora fonda e una nebbia densa avvolgeva i lampioni di campo della Bragora, nel cuore di Venezia.

    Nella stanza l’aria era fredda, le coperte erano scivolate a terra e le lenzuola si erano avvolte come un bozzolo attorno al corpo snello. Lottò per liberarsene e quando ne fu emersa un brivido le percorse la schiena sudata. Il sudore non era l’unica cosa che l’incubo le aveva lasciato: un’angoscia sorda le opprimeva il petto e nelle narici il ricordo del fumo acre le rubava il respiro.

    Cercando di riprendere il controllo dei propri sensi, sollevò la mano sinistra e la portò davanti al volto. Dal palmo all’avambraccio la pelle era raggrinzita, pallida. La cicatrice della vecchia ustione scendeva ancora, verso il gomito, e scompariva sotto alla manica della camicia da notte. Cristina la fissò a lungo, cercando risposte a domande che non osava più porsi.

    L’unica cosa che vi trovò, fu il ricordo delle fiamme che le mordevano la pelle, del calore che le entrava nelle ossa. Non esisteva nient’altro prima di quel fuoco. La mano ricadde pesante sopra al cuore che pulsava impazzito.

    Si girò su un fianco, verso la foto incorniciata che la guardava dal comodino. Ritraeva una donna anziana dal portamento aristocratico, i capelli grigi raccolti in una crocchia fuori moda e una grossa spilla appuntata sulla camicia. Un fiocco nero si stringeva ad un angolo della cornice.

    Dopo il fuoco, quel volto era il suo ricordo più lontano e vero, un ricordo che ora si riempiva di nostalgia.

    Annarita, la donna del ritratto, era stata la sua complice, la sua custode, l’unica luce che l’avesse tenuta legata a quella vita e ad una famiglia che non era in grado di riconoscere. Da quando non c’era più, Cristina sentiva di essere sul punto di perdersi.

    Le labbra le tremarono, incerte se tirarsi in un sorriso o incresparsi nel pianto. Il braccio sfigurato si protese verso la foto, le dita accarezzarono il vetro.

    «Nonna, mi manchi tanto…»

    Era ancora sveglia quando la radio al piano inferiore si accese con un bip e la voce di un dj si spanse per la casa.

    La paura fece vibrare il suo corpo. Si tirò le coperte fino al mento e rimase immobile, ascoltando i movimenti degli zii che si preparavano ad uscire: l’acqua del bagno che scorreva, le stoviglie della colazione che tintinnavano, le voci. Se si fosse concentrata un po’, li avrebbe visti come se si fosse trovata lì con loro e avrebbe potuto ascoltare i loro pensieri.

    Nascose la testa sotto le lenzuola e attese: nessuno sarebbe salito a metterle fretta. Se lei non desiderava trovarsi faccia a faccia con loro, i suoi zii erano altrettanto felici di dimenticarsi della nipote.

    Non si mosse finché il grosso portone borchiato non si fu chiuso con un tonfo, lasciando la grande e vecchia casa nel silenzio. Accanto alla foto della nonna l’orologio digitale segnava le otto: aveva fatto tardi.

    Saltò giù dal letto. Non c’era un tappeto a proteggere i suoi piedi dal freddo del pavimento in graniglia, ma ormai non vi faceva più caso. Tutta quella stanza spoglia era gelida quanto i suoi zii.

    Corse in bagno.

    Dalla parete un vecchio specchio macchiato la guardò con due occhi marroni che spiccavano su un ovale pallido e smunto. Cristina si contemplò per pochi istanti prima di lavare via la stanchezza dalla propria pelle. Domare i ruvidi capelli castani fu l’operazione che le richiese più tempo. A volte odiava quei capelli crespi, grossi, che forse i geni stranieri ereditati dal padre avevano reso refrattari a qualsiasi prodotto disponibile sugli scaffali dei supermercati italiani.

    Indossò i primi abiti puliti che le capitarono sotto mano, afferrò lo zaino già pronto dalla sera prima e si precipitò fuori, nella uggiosa mattinata veneziana.

    La nebbia aleggiava ancora tra palazzi e calli, rendendo incerti i confini del mondo. Da qualche parte una motonave segnalò la propria presenza con un fischio cupo, le rispose solo il rumore della risacca contro i pontili.

    Riva degli Schiavoni era insolitamente deserta e Cristina dovette fare uno sforzo per non rallentare il passo, soccombendo alla pace che i momenti di solitudine crepuscolare riuscivano a donarle. I suoi occhi feriti dai bagliori delle esplosioni avevano faticato a riabituarsi alla pungente luce del sole, la sua mente troppo aperta mal sopportava il brusio continuo che permeava i luoghi abitati.

    Con un sospiro si costrinse ad accelerare il passo e a lasciarsi quell’attimo di paradiso alle spalle. Raggiunta calle delle Razze, a un ponte di distanza da piazza San Marco, si sottrasse alla bruma infilandosi nella piccola saletta interna di un anonimo e confortevole bar.

    Una ragazza dai capelli di un improbabile blu elettrico stava sfogliando un testo scolastico, sul tavolino c’erano due spremute d’arancia, un piattino con un croissant al miele e una fetta di torta mezza mangiata.

    Si sedette davanti a lei. «Grazie, Becca.»

    «Sei in ritardo» Becca diede un altro morso alla torta.

    «Gli zii oggi si sono attardati più del solito…» Cristina si morse un labbro e guardò il bordo scheggiato del tavolo.

    «Mica devi aspettare loro per…» la ragazza si interruppe. «Cris, devi smetterla con questa storia! Non ti mangiano se li incroci per casa!»

    Cristina scrollò le spalle e si dedicò al croissant.

    «Dico sul serio, Cris. Non è normale.»

    «Da quando ti sembro normale?»

    Becca sospirò. «Sai cosa intendo.»

    «E tu sai cosa intendo io. Quando vedo mio zio so cosa pensa, so che mi guarda cercando di riconoscere in me qualcosa di mia madre e lo sento quando dubita che io sia sua nipote. Non mi ha mai vista come tale. E la zia è ancora peggio, gli rivolge certi sguardi e pensa che dovrebbero farmi fare il test del dna…»

    Dietro alla frangia blu, gli occhi di Becca si fecero più profondi. «Non stare ad ascoltarli, quando sei con loro spegni l’interruttore e ignora quello che pensano.»

    «Come se non ci avessi provato…» borbottò Cris.

    «Senti, tua nonna ti ha riconosciuta e mi pare che loro neanche ti avessero mai vista prima dell’incidente, quindi che ne sanno? Sono solo incavolati perché devono dividere l’eredità, te lo dico io.»

    Cristina scosse la testa e bevve un po’ della spremuta. Avrebbe voluto abbandonarsi alle rassicurazioni dell’amica, ma conosceva troppo bene la mente degli zii. Quando sua madre era tornata in Italia per presentarla alla famiglia, zio Vincenzo si era rifiutato di incontrarla. Solo Annarita aveva trascorso qualche giorno insieme alla nipote.

    Poi c’era stato l’incidente. Vincenzo era certo che Annarita avesse riconosciuto la bambina solo perché non poteva sopportare di aver perso per sempre la figlia appena ritrovata.

    Cristina però sapeva che la nonna era davvero convinta della sua identità. Era stata proprio quella sicurezza a difenderla dai dubbi che lei stessa aveva nutrito.

    Ma adesso nonna Annarita non c’era più e prima o poi gli zii avrebbero richiesto quell’esame. Avere una famiglia che la odiava era doloroso, ma non averne nessuna era qualcosa che non osava nemmeno immaginare. Quando ci pensava, l’angoscia le rivoltava lo stomaco.

    L’amica fissò per un po’ le sue occhiaie e il colorito pallido.

    «Hai un aspetto orribile, sicura di stare bene?»

    «No.» La fronte le si increspò e un brivido la scosse. Per poco non le scivolò il bicchiere di mano.

    «Ancora l’incubo?»

    Cristina annuì. «Sempre uguale. Dovrei averci fatto l’abitudine, invece mi sento uno straccio come ogni volta.»

    Becca appoggiò il mento alla mano destra, mentre dava un morso alla torta. «Chissà, magari un giorno riuscirai a trovarci qualche indizio della tua vita passata.»

    Cris scrollò le spalle. «Quella vita era in America e lì non potrò mai arrivarci. E anche se potessi andarci, zio Vincenzo non si è preoccupato di recuperare le cose di mia madre, probabilmente a quest’ora sarà già tutto sparito, venduto a qualche asta.»

    Becca si sporse verso di lei. «Non stavo parlando di quello. Potrebbe essere il tuo subconscio a fornirti qualche ricordo mentre sogni, qualche immagine di quando eri piccola. Giusto per sapere che vita facevi, là negli Stati Uniti… Sarebbe bello, no?»

    «No» Cris cacciò indietro il groppo che sentiva stringerle la gola. «La dottoressa Michiel dice che ormai le possibilità che ricordi qualcosa della mia infanzia sono inesistenti. Se poteva succedere, sarebbe accaduto da un pezzo. Non c’è più nulla, qui dentro.» Sospirò picchiettandosi la tempia con l’indice. «Non so nemmeno se ciò che sogno di notte siano ricordi reali. Forse sono fantasie nate da tutte le volte che ho sentito quella storia.»

    «Hai iniziato ad avere quell’incubo quando eri ricoverata, no? Quindi non potevi averla sentita così spesso.»

    Cristina la fulminò. «Va meglio se specifico ‘fantasie nate dai pensieri rubati a chi mi stava vicino’?»

    Becca abbassò lo sguardo sul libro, girando qualche pagina a caso.

    «Me lo confermi, vero?» cambiò argomento.

    Cristina annuì. «Sì. Compito a sorpresa per oggi. Il prof ci pensa da una settimana, ieri andava a stampare i fogli con le domande.»

    Le labbra di Becca si tirarono in un sorriso provocatorio. «Se mi hai fatto passare il pomeriggio a studiare per niente…»

    «Quando mai ti ho delusa? Le domande che ci farà sono quelle che ti ho detto. Mi è bastato concentrarmi un minuto per trovarle, non aveva nemmeno provato a nasconderle.»

    Il sorriso di Becca si allargò. «Perché qualcuno dovrebbe anche solo pensare di ‘nascondere’ una cosa che sta nel suo cervello, la sai solo tu.»

    Cristina arrossì.

    Becca chiuse il libro e lo infilò in un vecchio zainetto blu come i suoi capelli. «Forza, paghiamo e andiamo a scuola. Paola ci starà aspettando e quella è capace di entrare in ritardo anche se è là da mezz’ora.»

    Proprio come previsto, l’amica le aspettava nel cortile della scuola, appoggiata al pozzo al centro della corte. La luce di un tablet si rifrangeva nella nebbia, illuminandole il volto e le dita sottili e finendo per trasformarla in un inquietante fantasma tecnologico.

    «Avete studiato per il compito?»

    Becca impallidì. «Zitta!» bisbigliò. «Se sospettassero che sapevamo del compito, potrebbero pensare che abbiamo imbrogliato in qualche modo!»

    Paola fece una smorfia.

    «Beh, potrebbero pensare che abbiamo rubato i fogli delle risposte, per esempio», si chiarì becca, «e noi non lo abbiamo fatto, quindi non metterci nei guai!»

    La disapprovazione di Paola le uscì dai polmoni in un profondo sospiro. «Ve lo permetto solo perché sapere in anticipo le domande, non vi evita di dover studiare le risposte.»

    Guardandole battibeccare, Cristina sentì sollevarsi parte dell’angoscia che la seguiva dall’alba. Erano le sue migliori amiche, le uniche persone al mondo a conoscere il suo segreto. Quando era con loro si sentiva quasi normale e tutto diventava semplice e leggero.

    Becca afferrò entrambe per le spalle e le attirò a sé. «Mi raccomando, se il professore annuncia il compito in classe, infastiditevi come tutti.»

    «Di cosa confabulate?»

    La voce maschile le pietrificò. Ci volle qualche istante prima che lo sguardo assassino di Becca trafiggesse il ragazzo emerso dalla nebbia.

    «Niente che ti riguardi, Federico.»

    Federico sfidò quello sguardo con un sorrisetto sfrontato. «Se stai cercando di rubare l’intelligenza dalle due secchione, guarda che ti è andata male. Anzi, mi sa che stai instupidendo anche loro.»

    Alle spalle di Becca, Paola sussultò e Cristina si morse un labbro. La ragazza dai capelli blu strinse i pugni e fece un passo verso il compagno di classe.

    «Se vuoi attaccar briga, io sono sempre disponibile a farti nero, ma non offendere le mie amiche.»

    «Altrimenti?»

    Gli occhi di Cristina si mossero veloci dalla ragazza al compagno. Si infilò tra loro un attimo prima che Becca lasciasse partire il pugno che aveva caricato.

    «Cosa volevi, Federico? Non ci cercavi solo per litigare, vero?»

    Il ragazzo continuò a fronteggiare Becca, i suoi occhi grigi si mossero solo per sprofondare in quelli di Cristina, mentre le rispondeva. Le labbra si incurvarono in un sorriso che lasciava scoperti i denti bianchi e perfetti.

    «In effetti no. Franz festeggia gli anni oggi e pensavamo di andare tutti insieme all’UCI. Danno quel film che voleva vedere. Siete dei nostri?»

    Cristina incrociò lo sguardo con quello delle amiche. Paola scrollò le spalle e Becca, seppure imbronciata, accennò di sì col capo.

    «Va bene, contate anche noi.»

    Federico alzò il pollice. Prima di entrare a scuola le fece l’occhiolino.

    Il ragazzo del vaporetto

    La nebbia della mattina si era alzata del tutto e in lontananza si vedevano le luci di Murano che tremolavano nella notte. Cristina le osservava dal finestrino dell’autobus che la riportava a Piazzale Roma. Accanto a lei, Becca scriveva messaggi a raffica sul cellulare, mentre Paola, seduta di fronte, mandava nel panico più di un compagno elencando le risposte corrette del compito a sorpresa.

    «Ti è piaciuto il film?» Federico si era sporto dal posto dietro al suo.

    «Carino» gli rispose senza voltarsi.

    Becca distolse lo sguardo dal cellulare, incuriosita, e Cris ne percepì le speranze. Per un attimo prese in considerazione di uscire con Federico e lo guardò con la coda dell’occhio. Era più che carino, capelli corti di un biondo paglierino, occhi grigi, bel fisico, di famiglia ricca. Un dongiovanni che aveva fatto conquiste in tutta la scuola e che adesso sembrava essersi invaghito di lei.

    «Se ti va possiamo vedere qualche altro film insieme, a casa mia.»

    Cristina si concentrò sull’eurostar che in quel momento scivolava verso Mestre, tentando di dimenticare il pensiero imbarazzante che Federico aveva avuto su loro due.

    «No, grazie» mormorò.

    Federico ricadde al proprio posto, la sua mente ribollì di cattiverie del tutto gratuite.

    «Potresti dargli almeno una possibilità», le sussurrò Becca all’orecchio.

    Cris si limitò a scuotere la testa. Becca non capiva il disagio di sapere sempre ciò che i ragazzi pensavano di lei. Nel migliore dei casi erano pensieri imbarazzanti, a volte erano offensivi e cattivi. Quando poi si agitava - bastava l’idea di uscire con un ragazzo a metterla in subbuglio - finiva per perdere il controllo e leggeva tutto, anche le cose più intime e riservate.

    Le porte dell’autobus si aprirono facendo entrare l’aria gelida di fine ottobre. All’ingresso della città, il cartellone digitale segnava le dieci di sera e una marea normale che avrebbe raggiunto il minimo alla mezza.

    Non aveva voglia di tornare a casa, non ancora, non mentre gli zii erano svegli. Il rischio di incontrarli, di dover subire le loro accuse silenziose, la terrorizzava. Era molto meglio rimandare il momento del confronto, magari a per sempre. E anche loro, sebbene fossero i suoi tutori legali, dovevano pensarla allo stesso modo, perché non si preoccupavano mai di dove fosse, non la attendevano la sera e si limitavano a lasciarle gli avanzi nel frigo o i soldi per mangiare fuori.

    Il gruppetto sciamò verso il ponte di Calatrava dove formò un capannello animato. Lei non si fermò coi compagni, ma salì qualcuno dei bassi gradini, andando ad appoggiarsi alla balaustra in vetro. Sotto di lei gli imbarcaderi erano quasi vuoti e ondeggiavano sull’acqua scura del Canal Grande. Poche persone erano ancora in giro e anche i locali attorno alla stazione di Santa Lucia stavano chiudendo.

    Davanti a lei il canale si perdeva verso Mestre. Lo immaginò allargarsi sotto il lungo ponte della Libertà per diventare laguna. A sinistra invece lo vedeva fare una curva e dirigersi verso il terminal del Tronchetto.

    Il faro di un vaporetto si accese mentre il mezzo si avvicinava all’attracco.

    «Potremmo salire su un battello, almeno staremmo al caldo mentre si decide cosa fare…»

    Lo disse ad alta voce, prima di rendersi conto che i compagni l’avevano raggiunta. Di solito nessuno le prestava attenzione, ma un venticello freddo gelava le ragazze, vestite più leggere di quanto non sarebbe stato il caso.

    «Ottima idea!» Non capì a chi appartenesse la voce, ma un minuto dopo stavano passando l’imob davanti ai tornelli, accalcandosi per raggiungere in fretta il riparo della cabina.

    Il vaporetto era quasi vuoto, eppure il gruppetto riuscì a bloccarsi nel centro, perché scegliere come distribuirsi tra i vari sedili sembrava il dilemma più arduo del mondo.

    Qualcuno tirò lo zaino di Cristina.

    Seduto accanto a lei c’era un ragazzo di qualche anno più grande, magro e abbronzato.

    «Uscita di classe?»

    Cris annuì mentre toccava le spalle di Becca e Paola per farle voltare. Il viso di Becca si illuminò, Paola invece squadrò il giovane con sospetto.

    «Non vuoi farci da balia anche oggi, vero Pietro?»

    Pietro rise. «Mi dispiace, sorellina. Oggi sono già impegnato,» parlando aveva indicato i due che gli sedevano accanto. «Questi sono miei colleghi di lavoro, Antonio e Shun. Stiamo andando al Lido, sembra ci sia una festa. Una a cui le ragazzine non sono invitate.»

    Cristina osservò i due compagni di Pietro. Antonio era un tipo massiccio, sulla quarantina. Aveva la pelle abbronzata del muratore e il sorriso aperto di una persona allegra e gioviale.

    L’altro era un ragazzo giovane, forse sui vent’anni. Si limitò a rivolgere loro un cenno del capo tornando subito a guardare fuori dal finestrino.

    «Non fate caso a lui» lo giustificò Antonio, mentre Pietro scuoteva il capo, seccato. «È un po’ riservato, ma non è cattivo.»

    Le tre amiche annuirono, poco convinte, e si sedettero sulla fila dietro a quella di Pietro.

    «Mia sorella Paola e le sue amiche, Cristina e Rebecca» Pietro le presentò ad Antonio, ignorando Shun. «Fino a un anno fa, nostra madre non voleva che Paola andasse in giro da sola e a me toccava fare il baby-sitter.»

    «Non immaginava a chi ci stesse affidando!» Becca gli strizzò l’occhio. C’era stata sempre una complicità speciale tra lei e il fratello di Paola, ma tutte e tre adoravano quel ragazzo più grande che le aveva scarrozzate in giro per locali vegliando su di loro in modo discreto mentre si divertivano. Pietro era stato nominato mamma chioccia e lungi dal sentirsene offeso, non aveva mai smesso di comportarsi come tale.

    Antonio si girò di tre quarti posando un braccio muscoloso sullo schienale della panca e rise. «Al diavolo in persona, immagino!»

    Anche Pietro rise e Paola borbottò qualcosa, imbarazzata.

    Cristina però non riusciva a prestare attenzione al discorso, perché il suo sguardo continuava ad essere attratto da Shun.

    Forse era l’atteggiamento schivo a conferirgli un’aria da bel tenebroso, o il nome che suggeriva un’origine esotica, ma c’era qualcosa in lui che la attraeva, che sembrava ripetere insistentemente guardami.

    Cris lo potè osservare in viso solo un istante, quando Pietro lo aveva presentato, e un’altra volta quando si girò per lanciare occhiate irritate a Becca e agli altri compagni che stavano schiamazzando. Il tempo di un cenno era poco per giudicare, ma sufficiente a farle percepire qualcosa di stonato.

    Il nome non la convinceva, le faceva pensare alla Cina o al Giappone, ma non c’era nulla di orientale in lui. Certo, a Venezia era sempre meno insolito incontrare ragazzi che portavano nomi foresti; c’erano molti immigrati che lavoravano e vivevano in città e la moda di battezzare un bambino ispirandosi più o meno correttamente ai personaggi della televisione era ormai consolidata. E tuttavia le suonava terribilmente sbagliato.

    Ma non erano il nome strano o l’aspetto intrigante, ad attirarla. Più lo guardava, più percepiva dolore e sconforto malcelati dietro a un muro di freddezza e insofferenza. Lo aveva incontrato per un istante, ma nel suo sguardo aveva letto invidia e un senso di dolorosa privazione, il desiderio di unirsi alle risate e l’impossibilità di lasciarsi andare.

    Alla fermata di Rialto un gruppo di turisti riempì quasi completamente il battello. Con la scusa di lasciare il posto a una donna incinta, Shun si alzò e uscì dalla cabina. Cris lo seguì con lo sguardo mentre scivolava tra due inglesi dall’aria distinta e ai andava ad appoggiare al parapetto, i capelli che danzavano nella fredda aria notturna.

    Rimase ad osservarlo per un po’, fino a quando una gomitata di Becca non la raggiunse tra le costole.

    «Vai», la incoraggiò con una strizzata d’occhi.

    Cristina arrossì, all’improvviso insicura delle proprie intenzioni. Era certa di non nutrire nessun interesse romantico verso il ragazzo, eppure più lo guardava, più sentiva il desiderio di avvicinarsi a lui. Una vocina nella sua mente continuava a ripeterle avvicinati, avvicinati e toccami.

    Con il cuore che batteva forte si alzò in piedi, abbandonandosi a quel richiamo. Un attimo dopo era appoggiata al parapetto accanto a lui.

    Shun si limitò a registrarne la presenza, ma non fece né disse nulla.

    L’aria era fredda e una corrente leggera creata dal movimento del vaporetto le pungeva la pelle, eppure sentiva le gote infiammarsi. Ringraziò che l’oscurità celasse il suo turbamento.

    Non aveva mai avvicinato uno sconosciuto prima, tanto meno uno così attraente, e per un attimo pensò di battere in ritirata. Invece gli parlò. «Stavamo facendo troppo chiasso?»

    Il sorriso tirato le rimase stampato in faccia per un tempo indefinito, mentre attendeva una risposta.

    «Volevo prendere un po’ d’aria.» Il tono fu distaccato, freddo, privo di qualsiasi inflessione e trasmetteva un’assoluta, avvilente, mancanza di sentimenti. Né interesse, né fastidio e Cris ne rimase bloccata.

    A San Tomà i due inglesi dall’aria distinta scesero e furono sostituiti da una coppietta che si scambiava tenere effusioni. Venezia era venduta ai turisti come emblema della città romantica, culla di sogni d’amore e di storie struggenti e per la prima volta Cris si sentì trascinata in quell’icona.

    Avvicinati di più, le diceva la vocina. Arrossì e fece uno sforzo per ritrovare il controllo di sé.

    Il vaporetto riprese il suo lento scivolare con un rumore raschiante, l’acqua si increspò e le luci riflesse sul Canal Grande andarono in frantumi.

    Non sono qui per far colpo su di lui si disse. Becca l’aveva mandata alla conquista, ma lei era partita in missione di salvataggio.

    Si sporse un po’ di più oltre il parapetto, cercando di smarrire nell’acqua la propria agitazione.

    «Come mai sei venuto a Venezia?»

    Sbirciò verso di lui, ma quando incontrò il suo sguardo interrogativo tornò a fissare la notte.

    «Hai un nome straniero. Non sei di qui, vero?»

    Il no con cui le rispose fu un monosillabo atono, secco e sterile come le radici di una albero morto. I suoi occhi sembravano volerle penetrare fin dentro al cervello e d’istinto lei innalzò una barriera. Non credeva davvero che potesse leggerle la mente e, anche se fosse stato possibile, non aveva nulla da nascondergli. Ciò che voleva escludere era la vocina che le stava dicendo di saltargli addosso.

    Le gote le si imporporarono ancora di più. Per vincere l’imbarazzo ricominciò a parlare, lasciando che le parole le uscissero dalla bocca senza pensarle.

    «Dev’essere duro vivere lontano dalla propria patria, tra gente straniera, senza poter tornare a casa quando vuoi…» Si bloccò.

    Lo aveva fatto di nuovo. Si era agitata e aveva rubato i sentimenti del ragazzo come se lui li avesse esposti su un grande manifesto. Era spaventato dalla gente, si sentiva solo, un estraneo che non poteva avvicinarsi a nessuno, che non poteva fidarsi di nessuno.

    Nella mente di Cristina riaffiorò il ricordo di se stessa ragazzina, di quando guardava al di fuori di una finestra, nel nulla, sperando di non essere avvicinata da nessuno, terrorizzata da quei pensieri sparsi che vorticavano attorno alle persone e non era in grado di distinguere dalle loro voci.

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