La ragazza del capitano
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Storico - romanzo breve (56 pagine) - Ucraina, 1942. Chi è l’inafferrabile cecchino che spara solo ai tedeschi?
Ucraina, dicembre 1942. Il fronte sul Don ha ceduto e anche nelle retrovie serpeggia l’angoscia. Il giovane capitano ha tanti nemici da combattere: il freddo, l’Armata Rossa, i partigiani, la solitudine, i sensi di colpa per avere mentito alla famiglia, e gli alleati tedeschi, che a volte sembrano più ostili dei russi. Basterà a salvarlo l’amore di una ragazza ucraina? O sarà invece il misterioso cecchino che prende di mira solo i soldati del Terzo Reich?
Nata a Venezia nel 1955, laureata in psicologia, Fiorella Borin per un breve periodo ha insegnato storia e filosofia negli istituti superiori. Nei primi anni ‘90 ha iniziato a proporsi come narratrice, collaborando con molte riviste, vincendo prestigiosi premi letterari e pubblicando più di trecento novelle e alcuni romanzi storici ambientati nel XVI secolo
Con Alberto Perdisa Editore ha pubblicato nel 2003 La Signora del Tempio nascosto. Con Tabula Fati ha pubblicato Il bosco dell’unicorno (2004), Il pittore merdazzèr (2007), La strega e il robivecchi (2010), La firma del diavolo (2010) e Christe eleison (2011). Con Edizioni Solfanelli ha pubblicato nel 2012 Il pellegrino spagnolo (Premio Thesaurus 2013, Premio Locanda del Doge 2013); nel 2014 Le voci mute. Nove storie veneziane (Premio Roccamorice 2015) e nel 2019 I ragazzi del ciliegio. 1918-1945. Con Edizioni Cento Autori l’e-book Premiata Ditta Marina & Piccina (2015). Nel 2017 con Edizioni della Sera il romanzo I giorni dello sgomento (Premio Narratori della Sera 2017, Premio La girandola delle parole 2019). Con Delos Digital i racconti noir La verità è oscura e La notte delle candele nere (History Crime 2019).
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Book preview
La ragazza del capitano - Fiorella Borin
9788825408638
1.
Il 5 dicembre 1942, quando la tradotta militare italiana si fermò nella stazione di Kiev, il primo a scendere fu Cardillo. Studiò perplesso il manto bianco che ricopriva il terreno. In vita sua non aveva mai visto niente di simile. Che cos’era quella strana polvere candida?
– Signor capita’! Signor capita’! – gridò, volgendosi all’indietro. – Quelli i russi stanno proprio ricchi! Quelli la farina la sprecano! Invece di farci il pane, ci fanno le strade!
Mario si affacciò al finestrino.
– Assaggiala, Cardillo, e dimmi se è buona.
Il soldato si chinò, intinse il dito nella neve, lo portò con circospezione alle labbra ed esclamò: – Gesù, che fetenzia! Manca di sale.
Tutti si misero a ridere. Ridevano sempre alle battute di Cardillo, anche a quelle meno riuscite. Quel soldatino bruno, dagli occhi saraceni e i capelli ispidi come una scopa di saggina, era lo spasso di tutta la tradotta. Napoletano verace, aveva portato con sé dai Quartieri Spagnoli l’allegria che non si spegne neanche con la fame, e la capacità di trovare in ogni cosa un lato comico scherzando perfino nelle situazioni più tragiche. Quando si era proposto come attendente, così si era presentato al capitano: – Signor capita’, ve lo dico subito. Vengo da Napule e sono ladro. Rubo a chi non conosco, a chi mi è nemico. Rubo ai fessi, a quelli che se lo meritano. Agli amici, mai. So portare la macchina, lavare, stirare, e come pulisco io gli stivali con spazzola e sputazzo non lo fa nessuno.
– Beata sincerità – aveva mormorato Mario, soppesando quel soldino di cacio che si era alzato sulla punta dei piedi per guadagnare un paio di centimetri, aveva gonfiato i muscoli e sporgeva all’infuori il petto ancora adolescenziale. Lo aveva visto montare di guardia al treno, la prima notte trascorsa in territorio sovietico: Cardillo aveva indossato due cappotti uno sopra all’altro per sembrare più imponente, e atteggiato la faccia a una posa feroce che, anziché renderlo più temibile, accentuava la fragilità di una giovinezza vissuta a fare i conti con la fame.
– Quanti anni hai? – gli aveva chiesto.
– Venti compiuti a maggio, signor capita’.
– E tuo padre che mestiere fa?
– Mille mestieri, signor capita’. Compreso quello di pigliare i figli suoi e mandarli in guerra.
Mario aveva sorriso: – Cardillo, vuoi farmi credere che sei figlio del duce?
– Nossignore, sono figlio a Dio! Di cognome faccio Esposito, ma per gli amici Cardillo.
Non c’era stato bisogno di aggiungere altro, perché senza alcuna esitazione il capitano lo aveva voluto come attendente. Mario evitò, però, di informare la madre sulla qualifica che il giovane Esposito aveva messo per prima sul piatto. Se le avesse rivelato di avere preso con sé un ladruncolo dei Quartieri Spagnoli, come minimo le sarebbe venuto un accidente.
Ma quella non fu l’unica omissione nelle lettere che quasi ogni sera le scriveva; anzi, fu una delle più insignificanti, visto che non le aveva nemmeno rivelato di essere sul fronte orientale. Per non angosciarla, le aveva fatto credere che la sua destinazione fosse il Laboratorio Chimico Militare di Berlino, e non il Laboratorio Chimico Campale che l’Intendenza dell’8a Armata aveva mandato in Russia.
L’uso dei gas urticanti, vescicanti e asfissianti era stato proibito da una convenzione internazionale, che però l’Italia aveva segretamente violato nel 1936 per accelerare la conquista del suo posto al sole nell’Africa Orientale, spargendo tonnellate di iprite e causando la morte di migliaia di civili. Questo trattato consentiva però di farvi ricorso in caso di attacco chimico da parte del nemico; e così, per cautelarsi e tenersi pronti a rendere pan per focaccia, era stato disposto l’invio di queste armi letali sul territorio sovietico. I gas non godevano di buona fama, soprattutto tra chi considerava ancora la guerra come una sfida cavalleresca, dove vince chi sa battersi meglio: erano risorse vili, che toglievano ogni alone di gloria alla vittoria conseguita. Ma erano estremamente utili ed efficaci, come si era visto nel corso della Grande Guerra e, più recentemente, in Etiopia.
Mario, laureato in chimica e impiegato già da svariati anni presso il Servizio Chimico di Roma, aveva dovuto smettere i panni civili, indossare la divisa con i gradi di capitano e rassegnarsi a vivere il suo primo viaggio all’estero con una Beretta infilata nella fondina. Scapolo, aveva trentacinque anni e amava sua madre più di ogni cosa al mondo.
Con l’immaginazione se la figurava serena, invidiata dalle vicine che invece avevano i figli in Africa o sui Balcani, e che di continuo le ripetevano: – Quanto siete fortunata, signora mia! Vostro figlio se ne sta al sicuro, in un comodo ufficio di Berlino, lontano dalla guerra!
E a volte era proprio così: sua madre si sentiva una privilegiata. Una patina di serenità si sarebbe pure potuta stendere sullo scorrere dei giorni, se non fosse stata la mancanza di notizie da parte di Mario ad angustiarla sempre più. Allora indossava di corsa il cappotto e si precipitava alla Basilica del Santo, ad accendere candele e a bagnare di lacrime il fazzoletto che si passava sul viso sciupato. Nel giro di un mese, i capelli le erano diventati tutti bianchi.
Le lettere che partivano dall’Italia indirizzate ai soldati in territorio di guerra non avevano altra indicazione sul destinatario che il suo nome e cognome, grado, reggimento di appartenenza e un numero di Posta Militare. Non veniva indicato lo Stato estero né la città: bastava un PM seguito da una cifra di cui solo il Comando conosceva il significato. L’indirizzo di Posta Militare di Mario era il 102; ma fino a quel giorno non aveva ricevuto neanche una cartolina da casa. Lui, come nessun altro dei militari italiani saliti sulla tradotta numero 367680, per il semplice motivo