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La consistenza del sangue: L'omicidio di Porta Lame
La consistenza del sangue: L'omicidio di Porta Lame
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La consistenza del sangue: L'omicidio di Porta Lame

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Giuseppe Castaldi, commissario bolognese, sessant’anni, sta per andare in pensione e a un mese dalla conclusione di una dignitosa carriera alla Omicidi di Bologna si trova costretto a indagare su due diversi casi, una strage familiare in un appartamento di via Zanardi, a due passi da Porta Lame, e il presunto suicidio di un collega e amico trovato morto nella sua vasca da bagno. I due casi sembrano semplici e scontati, Castaldi conta di chiuderli prima del sospirato pensionamento e, coadiuvato dalla sua squadra, comincia a lavorare su entrambi i fronti. Grazie ad alcuni indizi lasciati dal suicida prima di morire, l’intera indagine si complica svelando un risvolto oscuro e inaspettato che coinvolge la migliore borghesia bolognese.
Le conseguenze saranno dirompenti e nonostante i tentativi di depistaggio la verità verrà a galla sconvolgendo equilibri sociali fino ad allora immutabili.
LanguageItaliano
Release dateApr 28, 2018
ISBN9788861557345
La consistenza del sangue: L'omicidio di Porta Lame

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    La consistenza del sangue - Massimo Fagnoni

    Massimo Fagnoni

    La consistenza

    del sangue

    L’omicidio di Porta Lame

    Collana CrimeGiraldi n.4

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-734-5

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2018

    Immagine di copertina: rielaborazione grafica di una fotografia di Claudio Trabucchi

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Questa è una storia di fantasia, i personaggi potranno evocare immagini o associazioni di idee, è uno degli scopi della narrativa, ma non hanno nulla a che fare con la realtà.

    Ogni coincidenza con nomi o fatti è da considerarsi casuale e non voluta.

    Per quanto riguarda l’orrore, quello del mondo reale, nessun libro potrà mai eguagliarlo.

    L’orrore ci accompagna tutti i giorni, ne siamo talmente assuefatti da non riuscire neanche a riconoscerlo, è tutto intorno a noi, ci intingiamo i biscotti tutte le mattine, prima di uscire nel mondo.

    A Cinzia

    Ah che sarà che sarà quel che non ha governo né mai ce l’avrà quel

    che non ha vergogna né mai ce l’avrà quel che non ha giudizio.

    C. Buarque de Hollanda, I. Fossati

    ROMA – In famiglia, in Italia, si registra un omicidio ogni due giorni: due vittime su tre (il 63%) sono donne, l’85% degli autori sono uomini. Un omicidio familiare su due (il 48,6%) avviene all’interno della coppia. Sono alcuni dei dati contenuti nell’aggiornamento statistico dell’ultimo rapporto Eures sull’omicidio volontario.

    Nel biennio 2009-2010, gli omicidi in famiglia sono stati 371, il 10,1% in più rispetto al biennio precedente: negli anni si riscontra una media di 180 casi l’anno, con i valori più bassi nel 2007 (166 vittime) e quelli più alti nel 2006 e nel 2009 (rispettivamente 195 e 194). Il contestuale decremento del numero degli omicidi compiuti complessivamente in Italia, pari a 530 nel 2010 (il 10,2% e il 13,3% in meno rispetto ai due anni precedenti) consolida – secondo i ricercatori – il primato della famiglia e della sfera affettiva quale principale ambito omicidiario, contandosi in tale contesto circa un terzo degli omicidi censiti in Italia.

    L’area geografica più a rischio continua ad essere il nord, dove si conta quasi la metà degli eventi complessivamente censiti (il 48% del totale tra il 2006 e il 2010); inferiore il dato del sud (33,1%) e quello del centro (18,9%). Negli ultimi due anni presi in esame la Lombardia si conferma la prima regione per numero di omicidi in famiglia (64 in valori assoluti, il 17,3% del totale), seguita da Sicilia (36 e 9,7%), Lazio (30 e 8,1%), Emilia Romagna (29 e 7,8%) e Campania (26 e 7%).

    Nel 60,7% degli omicidi di coppia autore e vittima risultano conviventi: significativo anche il dato relativo agli omicidi avvenuti dopo la fine della relazione di coppia, pari al 27,5% mentre inferiori sono le vittime tra partner e amanti (21, pari all’11,8%). Il secondo gruppo coinvolto negli omicidi familiari si riferisce alla relazione genitore/figlio, che complessivamente raccoglie il 27,6% delle vittime.

    UNO

    1

    A Bologna, ci sono i viali di circonvallazione che corrono intorno alla città costeggiando fantasmi di antiche mura medioevali che a testimonianza della loro esistenza hanno lasciato grandi porte di pietra ristrutturate da un’amministrazione previdente. Se passerete da queste parti vi capiterà di notare, all’altezza di Porta Lame, due statue in bronzo raffiguranti due giovani partigiani.

    Sembra che il bronzo necessario per costruirle sia stato ottenuto fondendo la statua equestre di Benito Mussolini preesistente all’interno dello stadio calcistico Dall’Ara.

    Quelle statue di baldanzosi guerrieri sono lì a ricordare una delle battaglie metropolitane più cruente avvenute durante la guerra di Liberazione, dove morirono una dozzina di tedeschi da una parte e una dozzina di partigiani dall’altra.

    Ma oggi, primo maggio 2012, nessuno si ferma davanti a quelle statue a riflettere sulle conseguenze imprevedibili dell’imbecillità umana, alle otto di mattina, più o meno, di una splendida giornata di sole, nessuno pensa a quel periodo.

    Sicuramente non ci pensa Piera Carlini, che all’epoca, autunno 1944, aveva sei anni e viveva a Monzuno, sfollata con la famiglia. Piera ricorda poco di quel periodo, alcuni suoni, sirene che preannunciavano bombardamenti, il fischio delle bombe subito prima dell’esplosione, la consistenza densa della farina di castagne e l’odore del fumo di legna, aspro e secco, che impregnava tutte le cose.

    Oggi non ha voglia di ricordare la guerra, sta camminando a testa bassa, lenta, verso via Parmeggiani e intanto gesticola piano contro il mondo, come un pugile in fase di riscaldamento. Non le frega nulla degli altri, dei bolognesi che allegri si dirigono, appiedati ed elastici, verso piazza Maggiore, dove alle nove si svolgerà il consueto comizio del primo maggio, giorno di festa per tutti i lavoratori. Piera non nota due giovani abbracciati nel sole del mattino, venticinque anni lui, ventidue lei che camminano dall’altra parte di via Zanardi. Lui ha una bandiera della Cgil arrotolata intorno all’asta appoggiata sulle spalle larghe e magre, lei ha capelli corti biondo sporco. Il sole rimbalza sulla strada, bagnata dai camion Hera, illumina i loro occhi, corre da una finestra all’altra, scivola veloce di palazzo in palazzo, gioca con il bronzo verdognolo delle statue guerriere e sembra sorridere nell’arco in pietra di Porta Lame in un clima rarefatto e freschissimo, diciotto gradi in lento e progressivo aumento.

    Via Zanardi è un canyon dai colori mescolati, il rosso dei tetti, il marrone delle pareti, il giallo ocra delle imposte, una grande strada verso la periferia sgretolata da una parte e il centro cittadino dall’altra. È strada di grande percorrenza, palazzi anni Sessanta, insieme a palazzi più antichi, senza un ordine preciso, ma con una fortuita armonia. Un tempo questa era già periferia.

    Piera Carlini cammina piano per via Zanardi e intanto brontola fra sé e sé.

    Lei è invecchiata in questo spicchio di Bologna e sa che qui morirà, non sa ancora quando, ma non se ne preoccupa, è troppo impegnata a controllare i suoi malanni, la schiena rigida di vertebre schiacciate, le gambe dure, scure di vene varicose, le mani adunche di artriti, i dolori alla cervicale, una carrellata di sofferenze che le rendono il sonno difficile e la vecchiaia noiosa.

    Piera è donna abituata a soffrire, ha sempre lavorato, e adesso, a settantaquattro anni suonati, tira ancora la carretta per aiutare il figlio in cassa integrazione.

    Cal bagâi d’un bagâi! Fiòl d ’na trója! Dsgraziè e vigliâc! Quajån! Bòcia pérsa!… Int la têsta l à såul la parpâia dla sô zavâia, e pó magnêr e durmîr, e incôsa… in dspèt a mé!… in fâza a mé! coi mî bajûc!¹

    Piera mastica sottovoce una litania di improperi dedicati al sangue del suo sangue, alla carne della sua carne. Già quando è nato, suo figlio l’ha fatta penare, il parto avvenne in casa come era consuetudine all’inizio degli anni Sessanta, un’ostetrica sgraziata e rabbiosa le spingeva il ventre gonfio, mentre sua cognata di fianco urlava di spingere. Già nel parto doveva capire che quel figlio le avrebbe dato solo problemi.

    I sacrifici Piera li conosce bene, non conosce altro, e se adesso continua ad alzarsi dalla poltrona sdrucita e polverosa del suo tinello lo fa per la nipote Jespica, Mo che fât nómm ridéccuäl!², pensa, mentre entra in via Parmeggiani. Lei avrebbe voluto chiamarla Anna, come sua madre, ma si è messa in mezzo la nuora, Cla vagabånda d ’na maruchéŋna, lî e la sô famäja d mafiûs d la Calâbria!³ Le hanno dato il nome di una di quelle attricette televisive, Ónna ch’ l è bôna såul pr andèr a fèr L’isola dei famosi… sé…famosi un azidänt! cumpâgnna sô fiôl e sô nôra⁴.

    Il figlio è innamorato come un gatto in calore, lei non lo voleva quel matrimonio con una meridionale disoccupata, ma lui ha perso la testa per Romina Morabito, né arte né parte. Oggi lui, cinquantenne, è a salario ridotto, lei quarantenne ha uno stipendio da fame in una cooperativa di pulizie aziendali, a fatica sopravvivono e dopo lo sfratto sono piombati nel suo piccolo appartamento popolare in via Zanardi, dove il figlio è cresciuto.

    Scrolla la testa di capelli color rame sbiadito, colpa della tinta di cla cinäisa maladätta!⁵ La parrucchiera meno cara che abbia mai conosciuto, quindici euro tinta e messa in piega, ma non si chiede con cosa le tinga la chioma di capelli duri secchi e radi che si ritrova in testa.

    Piera progettava di condurre una vecchiaia decorosa dopo la morte di suo marito, autista di Menarini per l’azienda tramviaria locale, defunto per infarto fulminante a sessantaquattro anni. Fumava come un turco il suo Antonio, e aveva un’ulcera duodenale, guadagnata come una medaglia guidando autobus bolognesi. Ha aspettato la pensione per farsi venire un colpo, mentre cuoceva carne alla brace alla festa dell’Unità di Villa Torchi.

    Pensava che con mille e sessantaquattro euro al mese e un affitto da centocinque euro mensili di casa Acer⁶ non avrebbe avuto più un pensiero fino alla morte, loculo già pagato in Certosa vicino al marito. Pensava male, non aveva calcolato il governo Berlusconi, lo spread, le speculazioni finanziarie, la Grecia, il governo Monti e la grande nevicata del 2012. Lei non sa cosa sia lo spread, lo sente citare cento volte la settimana, all’inizio pensava fosse un morbo, come l’ebola o l’AIDS, poi ha capito che non è una malattia, è una carestia e si è abbattuta anche sulla sua famiglia.

    Suo figlio, inoltre, invece di sposarsi una bolognese, magari una del partito democratico, si è innamorato di una calabrese conosciuta in vacanza e per sicurezza l’ha subito ingravidata, La sbrôza tänt ed chi fantgéŋ ch’ la m pèr una vâca, cla trója d na maruchéŋna!⁷ Pensa con rabbia Piera, mentre si avvicina al palazzo della famiglia Tamarri.

    Verso di lei continuano a muoversi lenti e ciarlieri diversi cittadini, con le bandiere rosse della Cgil, o con le righe bianche e verdi della Cisl. Oggi sarà giornata di festa, ma non come quando era giovane lei, allora il primo maggio era davvero la festa del lavoro, lei e il suo Antonio si agghindavano con l’unico vestito buono che puzzava di naftalina, e si trovavano con gli altri compagni alla sezione del partito, quello vero, l’unico partito che avesse un senso, il grande Partito Comunista Italiano, e la giornata del primo maggio era una festa totale, cominciava la mattina presto e andava avanti tutto il giorno, non c’era spazio per i padroni quel giorno lì, o per governi democristiani, o per le istituzioni con le loro esternazioni untuose. Era la loro festa, festa della città, festa dell’Italia, quella vera.

    Una lacrima involontaria ruzzola fra rughe profonde come crepe nel deserto, le arriva alle labbra ancora morbide, nonostante l’età, e lei assaggia quel pezzettino di ricordo, sa di sale e di vita consumata fino all’osso.

    Ma hanno ancora bisogno del suo corpo artritico in questa città fasulla.

    È piccola Piera, non arriva al metro e sessanta, ma sa ancora costruire i tortellini come si facevano una volta, piccoli come la punta del suo mignolo, sa cucinare il brodo con la carne, conosce tutte le ricette bolognesi, e sa come pulire una casa o stirare le camicie. È ambita, desiderata, coccolata e corteggiata, la Piera, da quelle famiglie, molte a Bologna, che possono ancora permettersi una governante a metà servizio, che parli italiano, e meglio ancora il dialetto. Di badanti ucraine gonfie di birra e acide di cattivi pensieri se ne trovano molte in città, pensa lei soffiandosi il naso lungo e gibboso da strega indigena, ma di bolognesi vere ormai non ce ne sono quasi più.

    Piera controlla l’ora nel vecchio orologio placcato oro regalato a suo marito dai colleghi l’ultimo giorno di lavoro, sono le otto in punto.

    Il palazzo di via Parmeggiani dove vive la famiglia Tamarri è uno dei pochi edifici eleganti della strada, cancello automatico e portiere diurno, un altro meridionale naturalizzato. Piera non lo sopporta, tutte le volte che la vede le chiede ricette di piatti bolognesi, la ricetta della torta di riso, quella della salsa verde, quelle delle lasagne. Lei non lo regge, è un salernitano e propone sempre scambi di ricette culinarie, ma lei non le vuole conoscere le ricette campane, dall’Emilia in giù tutta Africa, Romagna compresa.

    A quest’ora sicuramente dorme ancora il portiere, come si chiama? Ciro, sì Ciro e come poteva chiamarsi altrimenti? Invece la famiglia Tamarri… quella è una vera famiglia bolognese… pensa Piera con un sospiro di soddisfazione, come se fosse una missione per lei lavorare per una delle poche famiglie petroniane rimaste in città.

    Entra nel grande ingresso del palazzo, semibuio, freddo di marmi anni Settanta, con un tappeto rosso sbiadito, bullonato al suolo, che accompagna il viandante fino all’inizio delle scale, larghe, pulite, con i gradini alti e il corrimano d’ottone lucido.

    Anche le cassette della posta sono eleganti nel condominio, un’eleganza che piace alla vecchia Piera, è l’eleganza dell’ordine, cassette di legno grandi, marrone scuro, con i nomi delle famiglie incisi nell’ottone, in rilievo.

    Sono cassette della posta capienti per contenere missive importanti, riviste in abbonamento, quotidiani, plichi pesanti. La corrispondenza che richiede una firma la ritira direttamente il portiere, che come un custode vigila sulla quiete del palazzo, un’oasi borghese in una strada tutto sommato popolare.

    Le famiglie hanno nomi rilassanti, Fabbri, Scorzoni, Spisni, Trebbi, Sacchetti, Petrarolo, eccezione meridionale per un famoso avvocato, Guidicini, Tognetti, Tartari.

    Piera conosce alcuni residenti.

    Professionisti, impiegati dello Stato, avvocati, docenti universitari, militari.

    Famiglie distinte, silenziose, garbate, benestanti senza ostentazione, come la famiglia Tamarri.

    Professore universitario lui, psicopedagogista lei, tre figlie due piccole e una grande ora all’estero per una vacanza studio, un cane, e un grande televisore in 3D.

    Piera non sa cosa voglia dire tre d, ma sa che è cosa buona, cosa da ricchi.

    Sale nell’ascensore, si guarda nello specchio di traverso, quasi di nascosto, si trova brutta e vecchia, ma sa che il suo valore non è nella bellezza, bensì nella qualità del suo patrimonio professionale.

    Lei sa come pulire un appartamento, sa come farlo bene, velocemente ed efficacemente, sa come mettere ordine fra gli oggetti, non fa domande quando trova assorbenti usati sotto il grande letto della signora Alba Tarozzi Tamarri, li raccoglie e li fa sparire. Non giudica i suoi padroni, loro pagano bene e sono sempre gentili, a differenza dei suoi familiari che le rubano i soldi dal portafoglio e se la schifano con tutti i sentimenti.

    Piera ama il palazzo dove vive la famiglia Tamarri, al suo interno nemmeno un extra comunitario, nel suo palazzo popolare e sgraziato, composto di appartamenti piccoli, umidi e maltrattati, ormai è un’invasione.

    Appena un anziano muore o viene ricoverato in una struttura residenziale arrivano i nuovi barbari, i nuovi marocchini, come li definisce lei.

    Soprattutto cinesi, pakistani, nord africani, bangladesi, rumeni, nigeriani.

    Il palazzo è una babele di dialetti incomprensibili, urla e canti a tutte le ore, odori nauseabondi di tutte le cucine del mondo, dal cuscus al kebab, olezzo di incensi e spezie africane e panni umidi distesi ad asciugare.

    Ogni tanto scoppia una rissa per motivi religiosi, o razziali, ogni tanto arriva la polizia, i carabinieri, la municipale a liberare un appartamento occupato abusivamente.

    Un tempo era un privilegio avere una casa del Comune. Oggi è una specie di condanna al purgatorio.

    Purgatorio in terra, e l’inferno subito dietro l’angolo.

    Piera si rigenera quando arriva in via Parmeggiani ed è con un sospiro di sollievo che esce dall’ascensore, quarto piano. Oggi sarà una bella giornata di lavoro in nero.

    Nel ballatoio fresco e ampio sono disposte alcune grandi piante, dalle foglie lucide e consistenti, che il portiere annaffia regolarmente.

    Ci sono tre appartamenti allo stesso piano, con le pesanti porte blindate e i nomi dei proprietari bene leggibili incisi in targhe rettangolari con i colori dell’oro e dell’ottone.

    Il silenzio è perfetto.

    Il silenzio della quiete sazia e consapevole, famiglie che oggi si alzano con calma, bambini che guardano cartoni animati e fanno colazione con frutta, yogurt, toast, spremute, in cucine luminose e pulite. Piera è orgogliosa mentre si avvicina alla porta di casa Tamarri.

    Non può sapere come sono le altre cucine, ma quella di casa Tamarri è sicuramente in ordine perché è lei che se ne occupa, ed è un po’ come fare parte della famiglia. Annuisce a questo pensiero consolatorio e sta per suonare, ma si ferma, perché sente parlottare concitatamente, voci che arrivano dall’appartamento. Accosta l’orecchio per capire se stanno parlando di lei, guarda l’orologio, è puntuale come al solito, quindi lo esclude. Ascolta con l’orecchio sordastro e sente una voce stridula e sgraziata giungerle alle orecchie, non capisce subito, poi sorride riconoscendola, è la voce della moglie di Homer Simpson, Marge. Ha imparato a conoscerla in casa Tamarri e talvolta, mentre fa i lavori, si ferma ad ascoltare alcuni dialoghi di quei due personaggi grotteschi. Ha deciso che sono simpatici a loro modo, soprattutto la moglie con quella testa di capelli impossibile, la voce acuta e una grande pazienza.

    Doveva arrivare a settant’anni suonati per scoprire i cartoni animati. Ha scoperto che può esistere il tempo dell’ozio, della pura contemplazione, del divertimento gratuito e l’ha imparato osservando le due belle bambine di casa Tamarri e ascoltando i consigli di Alba, la loro madre. Tante volte Alba l’ha pregata di fermarsi, di riposarsi, e insieme hanno bevuto un tè insipido sedute come due signore nella cucina che lei aveva appena lucidato, con dedizione, come si fa con l’argenteria. A quei momenti non rinuncerebbe per nulla al mondo e si rende conto che in casa Tamarri lavorerebbe anche gratis.

    Scuote la testa, mentre tocca dolcemente il campanello di casa, sicuramente sono già tutti svegli. Immagina le due bambine, capelli chiari e lentiggini, nei loro pigiamini di cotone candido, distese e abbracciate sul grande divano a guardare la televisione.

    Rimane in attesa, le mani intrecciate, la borsa di pelle plastificata nera a penzoloni dell’avambraccio secco e rugoso contenente le chiavi di casa, un pacchetto di fazzoletti di carta e gli occhiali con la montatura nera che usa per leggere le istruzioni dei detergenti.

    Piera guarda con occhi acquosi l’occhiello della porta e attende da un momento all’altro di vedere Alba, la bella signora, nella sua vestaglia azzurra – regalo del marito – i capelli castani sciolti sulle spalle e quel sorriso sempre luminoso, fin troppo.

    Lei fa un po’ fatica con la loro cordialità, la trova appiccicosa e di circostanza, ma nel tempo ha imparato ad accettarla.

    Preferisce la spontaneità delle bambine che la trattano come una nonna aggiuntiva e forse la preferiscono alle altre due, una preside di liceo e l’altra commercialista, donne altere, eleganti e lontane da qualsiasi stereotipo di nonna.

    Lei invece è nonna Piera, profuma della sua cucina, di varechina e sapone di Marsiglia, ha quella consistenza granulosa delle cose che durano e ha sempre buoni consigli per le due bambine e anche per quella più grande che da tempo veleggia verso nuovi orizzonti, sempre più spesso altrove.

    Le due bambine sono sempre contente di vederla per casa, non le dedicano molte attenzioni ma lei capisce che le vogliono bene.

    Il tempo è trascorso in questi pensieri ma la porta rimane chiusa e non si sente più la voce di Marge Simpson, adesso è iniziato un altro cartone animato, American Dad, conosce anche quello, perché inizia dopo I Simpson la mattina, ma sa anche che le bambine non lo gradiscono, e solitamente cambiano canale subito dopo.

    La cosa che non capisce è perché nessuno si presenta ad aprirle la porta.

    Suona il campanello di nuovo, attende.

    Dopo un minuto buono suona con maggiore energia, insiste con il dito sul campanello.

    Nulla.

    Comincia a preoccuparsi.

    Televisione accesa, giornata festiva, erano d’accordo, non c’è dubbio.

    Rimane in piedi, un formicolio sale dai polpacci duri e si installa all’altezza dello stomaco, frustrazione, ansia, delusione.

    Che siano andati fuori città? L’avrebbero avvisata, Alba avrebbe spento il televisore,

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