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Ripaferdine: (Storie di cortile)
Ripaferdine: (Storie di cortile)
Ripaferdine: (Storie di cortile)
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Ripaferdine: (Storie di cortile)

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Milano. Una zona come tante, abitata da persone come tante. Almeno a prima vista. Perché quella zona è in qualche modo unica, e unici, nel bene come nel male, sono coloro che vivono lì; un esercito di vinti, di sconfitti, una “crociata di pezzenti” che tuttavia, al di là delle difficoltà in cui si trova, vive, e in qualche misterioso modo riesce persino a essere felice, o quantomeno non smette di provarci. Di questa gente, uomini e donne, Ripaferdine (storie di cortile) racconta le vicende, storie minime eppure importanti, sospese tra sorriso e pianto, commedia e tragedia. E il racconto è memoria, memoria di un uomo che giovane visse in quella zona e che ora, per lavoro (è ingegnere edile del Comune di Milano e deve supervisionare una serie di migliorie decise per Expo 2015), è costretto a tornarci.
«I giorni d’estate. Per noi ragazzi si consumavano in interminabili sfide a calcetto. Il nostro campo da gioco era un cortile ingombro di macchine. Il rettangolo irregolare di spazio che divideva i cinque palazzoni popolari nei quali abitavamo: due su un lato lungo, un terzo a fronteggiarli e i restanti due ai due lati. La gente della zona passava, noi la guardavamo. Giorno dopo giorno la imparavamo. Imparavamo le persone».
LanguageItaliano
Release dateNov 29, 2017
ISBN9788861555020
Ripaferdine: (Storie di cortile)

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    Ripaferdine - Paolo Vitaliano Pizzato

    Paolo Vitaliano Pizzato

    RIPAFERDINE

    (storie di cortile)

    Collana: Uplit

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-502-0

    Foto di copertina: © maxbertoli

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2017

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    Make love your goal.

    Frankie goes to Hollywood (The Power of Love)

    Se tu penserai, se giudicherai, da buon borghese, li condannerai a cinquemila anni più le spese,

    ma se capirai, se li cercherai fino in fondo,

    se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo.

    Fabrizio De André (La città vecchia)

    So, for once in my life, let me get what I want;

    Lord knows, it would be the first time;

    Lord knows, it would be the first time.

    The Smiths (Please, please, please, let me get what I want)

    Prologo

    L’Esposizione Internazionale era ovunque. E neanche a dirlo, il merito era tutto della pubblicità, scientificamente organizzata per colpire, e conquistare, tutti e cinque i sensi. La vista innanzitutto. E allora ecco un’invasione pianificata nei minimi dettagli di gigantografie dedicate a sorridenti personalità politiche di rilevanza nazionale che si congratulavano tra loro scambiandosi educate pacche sulle spalle e vigorose strette di mano, e poco distante altri immensi cartelloni che magnificavano le nuove zone della città nate grazie all’Expo, e per finire, nelle strade, nelle piazze, negli angoli più caratteristici di Milano, quelli toccati dai pullman rossi e scoperti del sightseeing, quelli dove ti capitava di incontrare i turisti, di sentire l’allegra, rotonda parlata americana, di incrociare i disciplinatissimi giapponesi intenti a fotografare qualsiasi cosa vedessero come se si trattasse del David fiorentino, bandiere con il logo della manifestazione replicato all’infinito: la scritta EXPO colorata arcobaleno che lasciava intravedere l’anno in cui si sarebbe svolta, 2015, vale a dire tra un anno, mese più, mese meno. E poi teorie di bandiere di tutti i Paesi del mondo, in fila perfetta, sistemate su aste di metallo, rigide, impettite, appena scosse dai rari aliti di vento, gonfiate o ingobbite da improvvise folate come fossero in preda al singhiozzo. Di garrire fiere neanche a parlarne; quelle, in fondo, non erano vere bandiere, più che altro somigliavano a biglietti da visita, o ai cartoncini di invito a una festa che si consegnano al portiere prima di fare il proprio ingresso nel salone splendidamente illuminato che ospiterà il ricevimento, prima che le danze abbiano inizio. E a ben guardare era normale che le cose stessero in questo modo, che le bandiere fossero allo stesso tempo così piacevoli alla vista e sembrassero così posticce, come quelle ridicole banconote che sul fronte recano la scritta facsimile e hanno il verso completamente bianco, perché cos’era l’Expo se non una festa? Un grande, colorato appuntamento cui erano stati invitati tutti i Paesi del mondo? Un gigantesco ballo delle debuttanti che nessuna delle partecipanti avrebbe mai più dimenticato? L’Expo, a Milano. La città dei navigli, del genio di Leonardo, degli Sforza e delle cinque giornate che apriva le sue porte al mondo. Benvenuti. Siete tutti benvenuti ripeteva a ogni angolo di strada con la calda, avvolgente voce di un imbonitore professionista.

    Alla vista seguiva l’udito, cui pensavano gli spot che passavano in radio, su tutte le radio (e, va da sé, anche in televisione, su qualsiasi canale, che fosse del satellite o del digitale terreste non importava), a qualsiasi ora del giorno e della notte: messaggi istituzionali del Governo, della Regione, del Comune, proclami entusiastici del sindaco e di tutti gli assessori, poi la vetrina dei partner ufficiali dell’evento, che si portava dietro (e poteva forse essere altrimenti?) il carrozzone di tutti quelli che dei partner erano fornitori, soci di minoranza, parenti poveri o solo meno fortunati, o chissà cos’altro. Ciascuno con la mano alzata, il collo tirato, gli occhi quasi fuori dalle orbite, come uno scolaretto con i muscoli tesi fino allo spasimo nel tentativo di attirare l’attenzione dell’insegnante. Siamo qui, siamo l’Expo, siamo tutto ciò di cui avete bisogno, abbiamo qualsiasi cosa desideriate.

    Gusto, olfatto e udito, infine, nell’imperdibile offerta 3 in 1 erano appannaggio pressoché esclusivo di coloro che si erano assunti il compito di declinare, secondo creatività e inventiva personale, il tema dell’Esposizione Universale: Nutrire il pianeta. Energia per la vita. Nutrizione, per associazione immediata, equivaleva a cibo, e cibo equivaleva, altra associazione facile facile, a preparazioni di ogni genere per ogni genere di palato. E la Terra? Il pianeta? Dov’era finito il nostro meraviglioso e fragilissimo corpo celeste? Nessuna paura, il pianeta c’era, ma era rimasto, diciamo così, sullo sfondo, citato più che presente; a giudicare da quanto ci si dava da fare per le persone, il pubblico, quelli che di lì a qualche mese sarebbero stati i visitatori, cioè coloro che avrebbero decretato il successo o il fallimento dell’appuntamento su cui Milano contava per rilanciare la propria immagine a livello globale (dicevano proprio così, a livello globale, a me sembrava un tantino esagerato, ma era un’opinione strettamente personale, che preferivo non divulgare, anche perché sospettavo fosse condivisa da pochissimi e apprezzata da ancor meno persone), il messaggio principale sembrava essere: nutrite i suoi abitanti, sfamateli, anzi rimpinzateli; meglio ancora dategli leccornie da sogno, fate che i loro amplessi con la tavola siano indimenticabili e così nutrirete il pianeta come meglio non si potrebbe. Un po’ come dire: volete che il vostro cane goda ottima salute? Be’, prendetevi cura delle sue pulci.

    L’Expo. Lo conoscevo bene, visto che ci lavoravo dentro. Ingegnere edile del Comune, responsabile di un’area metropolitana interessata da grossi lavori di ristrutturazione. Ricordo che quando mi fu affidato l’incarico ero al settimo cielo; era la cosa più importante che mi fosse mai capitata. Le prime riunioni furono elettrizzanti; mi buttai a capofitto nel lavoro, partecipai alla redazione dei bandi di gara per la selezione delle imprese con cui avremmo operato, disegnai e ridisegnai, assieme ad architetti, progettisti e altri professionisti, alternative di slarghi, viali e giardini, inventai fontane, proposi l’inserimento di qualche opera d’arte, arrivai perfino a contattare scultori, pittori e artisti concettuali affinché mi mostrassero i loro lavori. Poi una convocazione inaspettata, e la sorpresa. Mi avrebbero assegnato una nuova zona di competenza, la mia, quella in cui ero nato e dove avevo vissuto fino all’adolescenza. La zona la chiamavamo confidenzialmente noi che ci abitavamo, quasi fosse una vecchia amica. Il piano di ristrutturazione era già pronto; non avrei avuto voce in capitolo sui lavori, il mio compito sarebbe stato soltanto uno: vigilare che tutto venisse fatto come previsto e nei tempi previsti.

    La zona. Non potevo credere che sarebbe scomparsa, che sarebbe stata stravolta così tanto e così a fondo da risultare irriconoscibile perfino a chi era cresciuto lì, e a chi ancora ci abitava. La zona non era come il resto della città, era particolare, unica, non sarebbe dovuta morire. Morire per rinascere, sentivo dire da tutti, ma io sapevo che in questo caso ci sarebbe stata solamente la morte. Perché se non ci eri nato, o vissuto, non potevi conoscere la particolarità di quel posto, neppure sospettarla. Non ti rendevi conto di che cosa fosse, nel bene come nel male. Agli occhi di tutti i miei colleghi, quella disegnata sulle mappe non era che una parte della città, un quartiere da rinnovare al pari degli altri. Se avessi detto loro che si sbagliavano, se avessi provato a raccontargli cos’era davvero la zona, mi avrebbero riso in faccia, o peggio preso per pazzo. Ma qualcosa dovevo fare, non potevo semplicemente restare a guardare.

    Quella sera rientrai a casa febbricitante, nella testa un rincorrersi folle di pensieri, o forse di un unico pensiero; fu con foga che mi chiusi la porta alle spalle, come se stessi fuggendo da qualcuno deciso a catturarmi, e quasi di corsa mi diressi fino in camera da letto. Dal fondo dell’armadio estrassi una scatola di plastica trasparente color verde acido colma di fotografie della mia infanzia e giovinezza, mi sedetti per terra, la sistemai tra le gambe, la aprii e mi misi a sfogliare gli album. Guardai le immagini una per una. Fu come rivivere. Assaporai ogni emozione con la medesima intensità della prima volta, e non mi accorsi del pianto, né del riso scrosciante che lo sostituì; non sentii i sospiri e non udii ciò che dissi. I nomi che pronunciai mi rimasero sulle labbra, e tutto quel che la mia memoria dipinse evaporò in pochi istanti non appena staccai gli occhi dalle istantanee. Mi ritrovai solo, come un goffo apprendista stregone deluso dall’ennesimo incantesimo fallito. Eppure qualcosa era accaduto, e non per caso. Di questo ero certo. Per qualche ragione la mia vita di un tempo era tornata a farmi visita. Non l’avevo dimenticata, non avrei mai potuto farlo, neppure se l’avessi voluto, però dovevo ammettere di averla messa da parte, come se non mi riguardasse più, come se avesse cessato di appartenermi nel momento stesso in cui me ne ero andato dalla zona.

    Avevo trattato la zona con indifferenza, come un vecchio amico che si è smesso di frequentare, un ex compagno di scuola sbiadito insieme agli insegnanti amati e odiati, alle aule e ai loro odori, abbandonato nell’eterno sovrapporsi dei giorni. Avevo avuto le mie buone ragioni per comportarmi così, lo sapevo bene, ma in quel momento era come se le mie motivazioni di un tempo avessero perduto la loro importanza. Adesso c’era soltanto la zona, e il terrore di perderla per sempre.

    Era quasi l’alba quando mi riscossi e presi la mia decisione. La zona non sarebbe scomparsa. L’avrei tenuta viva raccontandola.

    Avevo davanti ancora tre ore buone prima di uscire per recarmi al lavoro. Feci una doccia, mi preparai un caffè, sedetti alla scrivania, accesi il computer e cominciai a scrivere.

    La zona (e Giulio)

    Giulio ha forse vent’anni, forse trenta. Nessuno di noi, nella zona, lo sa con certezza. Lo vediamo spesso. Cammina lento, strascicando i piedi. Le suole delle sue scarpe carezzano ruvide l’asfalto, come una lingua di gatto sulla pelle; sono scarpe basse, color marrone, di pelle, e sono consumate in più punti. Scarpe prossime a sfasciarsi. Ha gambe molli, Giulio; tiene le ginocchia semipiegate e i suoi arti inferiori, che si indovinano arcuati e magrissimi attraverso la stoffa consunta di un paio di pantaloni che un tempo dovevano essere stati grigi, e nuovi, perfino eleganti, lo fanno sembrare un cowboy fuori moda, nostalgico e sofferente per la cavalcatura perduta chissà dove, chissà quando. A coprire il torace smunto di Giulio sono soltanto una lisa camicia bianca di stoffa grezza e una giacca, grigia come i pantaloni, ma nessuno di noi, nella zona, sa se quello sia il vero colore del suo capo di vestiario o se invece si tratti di sedimenti di polvere e sporco. Sedimenti vecchi di anni. È come se non avesse torace, Giulio, come se il suo tronco fosse esploso lasciando come unica traccia dell’avvenimento un cratere. Le spalle sono cadenti e curve. Nessuno di noi, nella zona, sa come faccia a reggersi in piedi. Il volto è scheletrico e congestionato; il vivo rossore delle guance contrasta ridicolmente con il bianco cereo delle labbra. E a guardarlo in faccia Giulio somiglia a un osceno clown, un clown orfano del proprio circo, senza più neppure un camerino dove ripulirsi dal trucco di scena. Quest’uomo, così simile a un cowboy nella sua andatura dinoccolata ed esausta, e che ricorda un clown nelle screpolature rubizze della pelle del viso, per tutti noi, nella zona, non è nient’altro che Giulio, un alcolizzato all’ultimo stadio, di vent’anni, o forse di trenta. Ma nessuno sa esattamente quale sia la sua età. Come tutti noi, Giulio vive nella zona.

    Noi siamo solo dei ragazzi, un piccolo gruppo di adolescenti come tanti, e la zona è il nostro mondo. La zona è un quadrilatero, una serie di vie che tagliano schiere di palazzi popolari e piccoli negozi per finire nella strada principale, pavimentata a sassi e incisa dalle lunghe lame parallele dei binari del tram. La strada principale è tanto lunga che non se ne vede la fine. Da dove siamo noi corre dritta a destra e a sinistra.

    Corre, più veloce del nostro sguardo, più viva dei nostri pensieri, infinitamente più popolata delle nostre fantasie.

    Corre, e diventa piazze, slarghi, viottoli e viali di Milano, diventa la città nella quale anche noi abitiamo ma che non conosciamo e che ci ignora, diventa tutto ciò che non è zona, diventa miraggio, qualche volta desiderio, qualche altra invece, quando decidiamo di avventurarci oltre la nostra zona, diventa scoperta. Ma il più delle volte è solo una strada dritta di cui non riusciamo a vedere la fine, una strada che più che portarci fuori dalla zona, attrae verso essa. È una strada che conduce a noi, una strada che ognuno di noi, anche se non ricorda quando, ha percorso.

    Anche Giulio l’ha fatto. Anche lui è stato portato qui dalla strada. Forse quando è accaduto Giulio non era ancora quell’ombra d’uomo d’età indefinibile che si trascina attraverso i giorni regalando svogliati e dolci gesti di saluto con la mano ai passanti che incontra senza riconoscere, e alle cui voci, probabilmente percepite come lontani ronzii d’insetto, risponde più per riflesso condizionato che per volontà propria biascicando gentilezze, memoria d’un tempo ormai troppo lontano; forse quando Giulio è comparso in zona i suoi abiti erano puliti e il suo volto era del colore della giovinezza; forse allora il dolore, la solitudine – o qualsiasi altra cosa l’abbia condotto a offrire, quasi si trattasse di un sacrificio a qualche severa, feroce divinità, ogni sua energia, ogni fibra del suo essere, ogni pensiero, ogni attimo della giornata e ogni giorno della vita alla bottiglia – erano solo momenti passeggeri, un frusciare d’ali di malessere, di quelli che tutti provano, che tutti sentono, e che in qualche modo tutti, o quasi, spesso senza neppure sapere perché, senza capire come, superano. Ma forse queste sono solo riflessioni oziose, irritanti capriole di balbettante razionalità che niente hanno a che vedere con il disordinato tambureggiare del cuore di Giulio e con il suo mondo rappreso in un soffio di fiato odoroso di vino a buon mercato. In fondo, noi della zona Giulio l’abbiamo conosciuto a percorso ultimato, ci siamo abituati a incontrarlo quando il suo essere sobrio non era in nulla diverso dalla devastazione senza speranza dell’ubriachezza. Giulio era solo uno della zona, un alcolizzato; quel che era stato in passato non aveva nessuna importanza.

    Ciao Giulio.

    Un saluto, che ci lasciava sulle labbra stirate in un sorriso di commiserazione e imbarazzo un curioso, inspiegabile sapore di destini condivisi, era tutto ciò che riuscivamo a regalare alle sue mattine d’estate.

    Ciao rispondeva lui in un sussurro, il palmo della destra aperto, le dita tese quanto glielo permettevano i muscoli agonizzanti, carezzate dall’aria densa di città. Nessuno di noi ricorda quando morì.

    I giorni d’estate. Per noi ragazzi si consumavano in interminabili sfide a calcetto. Il nostro campo da gioco era un cortile ingombro di macchine. Il rettangolo irregolare di spazio che divideva i cinque palazzoni popolari nei quali abitavamo: due su un lato lungo, un terzo a fronteggiarli e i restanti due ai due lati. La gente della zona passava, noi la guardavamo. Giorno dopo giorno la imparavamo. Imparavamo le persone.

    Arnaldo

    Ci credereste? Era innamorato di mia madre, voleva sposarla. Faceva sul serio, sapete?. Lo disse uno di noi non appena Arnaldo ci ebbe superato. D’istinto, ci voltammo tutti a guardarlo. Il suo corpo massiccio si muoveva apparentemente senza fatica; più che camminare, Arnaldo sembrava scivolare sull’asfalto. Dava l’idea di un macchinario perfettamente oliato, in grado di svolgere agevolmente quantità inimmaginabili di lavoro. Una locomotiva, di quelle che magari non corrono particolarmente veloci ma che sulla lunga distanza non hanno rivali.

    Una sera, a casa mia, ha fatto una cosa incredibile… una cosa… se ve la dicessi non ci credereste mai, proprio mai. Non c’è proprio possibilità che ci crediate.

    Non gli credemmo infatti. Poi però continuammo a raccontare e a raccontarci quel che ci era stato detto con accenti che tradivano il desiderio di crederci. Era una bella storia, divertente; vera o falsa che fosse, che cosa importava?

    Andò così.

    Arnaldo non aveva un lavoro. O meglio, nessuno di noi riusciva a chiamare lavoro quel che faceva. Era un ladro, rubava, ma forse sarebbe più esatto dire che ci provava, a rubare, sfortunatamente per lui con scarsi risultati. Una volta (il suo appartamento era al secondo piano), senza un soldo, con la dispensa desolatamente vuota e i morsi della fame a tormentarlo, non trovò niente di meglio da fare che arrotolare e legare tra loro delle lenzuola, fissarne un capo alla ringhiera del balcone e calarsi nella casa al piano di sotto. L’inquilino, che naturalmente Arnaldo conosceva – nella zona ci si conosceva tutti – era al lavoro. Lui prese soltanto un pacco di pasta; né olio, né sale, né altro condimento. Solo pasta. La prima volta che incontrò la sua vittima (che non aveva fatto caso al furto), gli confessò l’ardita azione, ringraziandolo per aver lasciato aperta la finestra. L’uomo gli rise in faccia, bonariamente; gli disse che avrebbe fatto molta meno fatica se avesse preso le scale, avesse bussato e gliel’avesse domandata, la pasta. Arnaldo fece spallucce e girò sui tacchi. Del resto, lui era un ladro, il suo lavoro era rubare, non chiedere, senza contare che l’uomo, al momento del furto, non era in casa.

    Qualche tempo dopo (stava tornando al suo appartamento da chissà dove), adocchiò un camion parcheggiato in una rientranza della strada principale. Dovette piacergli, perché si fermò a fissarlo per qualche tempo, evidentemente considerando quali e quante possibilità ci fossero di portarlo via, poi si avvicinò. Con cautela all’inizio, addosso l’aria, studiata alla perfezione o quasi, di chi non presta attenzione a quel che fa ma ha i sensi all’erta, pronti a cogliere ogni segnale, la più piccola opportunità, l’ombra di un allarme, e infine con maggior decisione. L’abitacolo era deserto, negozi nelle immediate vicinanze non ce n’erano. Arnaldo si chiese dove potesse essere il proprietario del veicolo, ma non riuscì a darsi una risposta. La sola cosa che riuscì a pensare con chiarezza fu

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