Zanzibar è una bugia
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About this ebook
Un nuovo amore sembra infine regalarle pace, ma non risolve il conflitto che la vede sospesa tra due mondi, quello occidentale e quello africano, due mondi che trovano felice unione nelle sue creazioni di moda, ma non altrettanto nella sua anima.
Una narrazione che attrae il lettore in un vortice di colori, odori, tradizioni, speranze e sconfitte, suggestioni che trasportano con grazia il lettore in una dimensione narrativa molto convincente, da cui è facile e bello farsi coinvolgere e molto difficile uscire.
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Book preview
Zanzibar è una bugia - Margherita Marvasi
Tavola dei Contenuti (TOC)
Copertina
Frontespizio
Copyright
Citazioni
Dedica
Premessa
PARTE I
0.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
PARTE II
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
Margherita Marvasi
ZANZIBAR
è una bugia
Collana: Girovaghi 4
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.
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ISBN 978-88-6155-702-4
Proprietà letteraria riservata
© Giraldi Editore, 2017
Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo
Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.
La solitudine non è un albero in mezzo alla pianura,
dove ci sia solo lui.
È la distanza tra la linfa profonda e la corteccia,
fra le foglie e la radice.
Fernando Pessoa
A Beatrice, Lisa e Sofia
che la forza, la convinzione e il coraggio
siano con voi.
Zanzibar è un arcipelago: due isole tropicali al largo delle coste della Tanzania, nell’Africa orientale. Unguja, la più estesa, prende il nome di Zanzibar, profuma di spezie ed è meta di viaggiatori di ogni tipo, mentre Pemba, a nord-est, meno sviluppata turisticamente e ambita dai sub dal palato raffinato, è verdissima e selvaggia. Nel canale che le divide, Ernest Hemingway amava cacciare i Marlin, ancora oggi sorprendentemente numerosi.
Oltre alle due isole principali ci sono poi un’infinità di atolli, scoglietti e lingue di sabbia immersi nel tiepido Oceano Indiano. Il tutto sei gradi sotto l’equatore, che vuol dire che fa sempre più o meno caldo, a maggio piove, alle sette di sera è buio, i monsoni soffiano sei mesi da nord e sei da sud e quando è inverno, da giugno a ottobre, si dorme con la copertina.
Per gli amanti del genere, è il pezzetto di terra che più si avvicina al paradiso.
PARTE I
IL GIORNO GIUSTO PER FARE STRAGE DI CORVI
0.
A Unguja ho vissuto per dieci anni, in una grande casa dal tetto di foglie di palma intrecciate, su una spiaggia bianca come borotalco e le maree di fronte a scandire il tempo. Ci sono arrivata da Roma seguendo i sogni di un uomo che ho amato. Lui ha realizzato la sua fantasia di libertà costruendo un boutique hotel, sulla costa a sud est dell’isola, mentre io, con l’aiuto di un gruppetto di sarti locali, ho creato un brand i cui abiti sono finiti nelle vetrine di alcuni dei negozi più raffinati d’Italia.
Non solo.
Ho bevuto Kilimanjaro, mangiato riso e pesce e frutta profumata, ho camminato per ore e ore sulla sabbia in compagnia dei miei cani e del vento. Ho infranto qualche sogno e lottato per qualche altro. Ho esplorato i fondali di corallo, i grandi parchi del mainland e sincronizzato il mio respiro a quello dell’Africa.
Ho amato, sperato, riso, perduto, pianto.
E ancora ho vissuto, danzando sotto le stelle, sfiorando gli animali selvaggi che abitano la savana, cercando di comprendere un’umanità diversa dalla mia, imparando a parlare kiswahili e a dare un nome alle piante e ai fiori, a intromettermi nelle chiacchiere delle donne e nei giochi dei bambini, all’ombra delle loro case di corallo.
Ho scoperto il gusto delle spezie, l’aroma ormai irrinunciabile del tè con i chiodi di garofano e lo zenzero, come fare ad aprire un cocco col machete e ricavarne il succo da aggiungere alla cottura di riso e polipo. Ho conosciuto persone da ogni parte del mondo e intrecciato il mio tempo al loro. Ho pure appreso, caparbiamente e con somma gioia, a cavalcare le onde su una piccola tavola di resina e un aquilone tra le mani.
Insomma, ho fatto l’altra vita, sottraendomi al modo di vivere europeo per immergermi nella cartolina tropicale, pagando un prezzo e insieme imparando cose di una parte di mondo i cui stereotipi sono ancora profondamente radicati nella parte di mondo da cui provengo. Tanto da immaginarsi tutta un’altra cosa.
Molte volte mi sono chiesta se ne valesse la pena – quell’essere altrove, quella ricerca, la solitudine di avere sfilacciato le radici – tutte quelle volte in cui la bellezza dell’isola si trasformava in un inganno, e il colore della mia pelle stonava con quello dell’Africa.
«Ma perché hai deciso di fermarti proprio a Zanzibar?», mi chiedono in tanti dopo aver saputo che ci ho abitato a lungo.
È una domanda alla quale ancora oggi non so rispondere d’impulso, ogni volta ci devo pensare. Non sono sicura di cosa mi abbia trattenuta, a parte Luca. Però so con precisione cosa mi manca quando ne sono lontana.
Negli anni ho messo a punto una lista che raccoglie tutti i motivi per cui la amo. Mi è servita nei momenti bui, per non scappare. E quando non ero lì è stata la mia bussola per tornarci.
È una lista infinita perché ogni volta che ritorno trovo almeno un’altra voce che mi sembra più degna di una già annotata e la sostituisco, gustandone il sapore. Oppure, se è un punto abbastanza sincero, lo aggiungo ed è come un mattoncino di più, mezzo chilo di zavorra che aiuta a trattenere l’illusione, perché rimanga su questa terra e io possa camminarci sopra, senza volare via.
Sono arrivata a quarantadue punti, ma quelli che ritengo fondamentali sono otto.
1. La Tanzania mi insegna a essere umile e grata di tutto, mi ricorda di non prendermi troppo sul serio, di ridere di me stessa e che il tempo non ha valore.
2. I locali sono sempre sorridenti e chiunque incontri per strada mi saluta.
3. Tutto è un po’ esagerato. Ovunque posi gli occhi c’è qualcosa che si muove o si sente il verso di un animale o le voci della strada o il canto del muezzin o un nuovo profumo che mi distrae, un sacco di vita.
4. Quando arrivano le piogge e le strade diventano fiumi, perché i tombini si intasano subito, non si può fare altro che togliersi le scarpe, sollevare l’orlo della gonna e correre. La pioggia mi inzuppa, inzuppa tutti e ci si scambiano sguardi divertiti, non è fredda e mi ricorda di quando ero bambina.
5. Si vive sulla spiaggia senza essere miliardari e la vita è semplice in un modo che mi fa sentire libera.
6. Quando un dolore colpisce qualcuno vicino, qui è usanza sedersi insieme – musulmani e cristiani, neri e bianchi e cinesi e indiani – pregare insieme, cantare insieme e condividere le lacrime.
7. Mancano così tante cose che si è incoraggiati a creare, a costruire.
8. Zanzibar è tutta una contraddizione, potente e potenziale e vulnerabile, forse ripone le speranze nei posti sbagliati, ma c’è speranza, c’è gioia, c’è uno spirito che esiste solo qui.
Qui, per molti anni, è stata la mia casa.
Le pagine che seguono sono il mio canto zanzibarino.
1.
Oggi è il giorno della befana, il cielo è terso e Guenda, il mio cane, è vicina a morire. Da un tempo lunghissimo, che non so più calcolare, è accucciata nell’angolo a nord del giardino, in una fossa di sabbia che si è scavata sotto un benjamin frondoso, a ridosso del muro di corallo che dà sulla spiaggia. È mogia, tiene lo sguardo basso, soffre. Non mangia da giorni ma il suo addome mostra un rigonfiamento grosso come un mango maturo. Mohamed, il veterinario locale, si è rifiutato di venirla a visitare, dice che ha paura dei rottweiller. I cani neri qui spaventano un po’ tutti. Gli zanzibarini credono che siano reincarnazioni di spiriti cattivi.
Così, frustrata, qualche giorno fa ho scritto una mail al google-group dei residenti, per chiedere aiuto, e un amico mi ha segnalato un chirurgo norvegese in vacanza per capodanno in un hotel vicino, a due chilometri da qui. Mi ci sono precipitata senza pensare e, sotto lo sguardo sbalordito della moglie, l’ho praticamente sequestrato pregandolo di salire sulla mia vecchia Toyota perché venisse a visitare Guenda. Un medico bianco in Africa è merce preziosa.
«Ha un tumore alla milza, è molto sviluppato e probabilmente ha già attaccato qualche altro organo. Mi dispiace, non c’è niente che io possa fare per salvarla», ha detto costernato, dopo averla palpata per un buon quarto d’ora. «Le rimangono pochi giorni.»
«Cosa posso fare?»
«Se fosse il mio cane, le sparerei al cuore, adesso. No doubt. Non ha speranza e non ha senso che soffra.»
Eppure, nonostante la sentenza di morte, Guenda ha resistito. Quando mi avvicinavo al cancello, negli ultimi giorni, trovava la forza di seguirmi e andavamo insieme alla spiaggia, come abbiamo fatto quotidianamente per otto anni. Per qualche mistero, appena tocca il mare rinasce, salta e corre un po’ incerta sulle zampe e dà la caccia ai pesciolini nelle pozze d’acqua create dalla bassa marea. Se la lascio troppo indietro, velocemente mi raggiunge e mi dà dei colpetti col muso sulle gambe. È sempre stata la sua maniera di farmi sentire che non mi devo preoccupare, che lei era lì per me e ora, credo, è il suo modo amoroso di congedarsi.
È arrivata che aveva circa due mesi, avvolta in un asciugamano grigio, per non dare nell’occhio, all’aeroporto di Zanzibar. Me l’ha messa in braccio Luca, una volta che tornava da Milano, dicendo a voce bassa, con un sorriso emozionato: «È per te, diventerete amiche». Tipico di Luca fare sorprese.
Da allora Guenda e io abbiamo vissuto insieme nella casa in riva al mare.
Stamattina, dopo l’alba, prima che il sole arroventi la sabbia, nonostante stia scuotendo teatralmente il guinzaglio, Guenda non mi segue più al cancello. La chiamo, ma niente.
Mi avvicino, lei muove la coda solo un pochino, mi guarda implorante, dal basso all’alto, come a chiedere scusa. Mi chino, le prendo il muso tra le mani e la guardo dentro gli occhi nocciola dolci, avvicino il naso al suo, inspiro questo suo profumo incredibile di burro e, con una contrazione dello stomaco, improvvisamente lo so.
Martin, che ha osservato la scena da lontano, con ancora la tazza di caffè bollente tra le mani, mi viene incontro e mi accarezza la testa.
«Non ha più senso che continui a soffrire, let her go, lasciala andare» sussurra dando voce, come molte volte accade, ai miei pensieri, ma un attimo prima, per darmi coraggio.
Ecco, ci siamo, questo momento.
Dovere fare la parte di Dio.
Barcollo verso casa, prendo il cellulare, chiamo Mohamed e gli chiedo se può venire con le iniezioni, il sedativo e l’altra. Dice che non ci sono problemi, che ci vorranno solo due minuti e, se le dosi sono giuste – se le dosi sono giuste! – non soffrirà minimamente.
Mi domanda se il cane è vaccinato.
«Che importanza ha visto che sta morendo, che rifiuta il cibo da molti giorni?»
«Allora potremmo fargli una puntura per sverminarlo.»
Riattacco.
Crollo con la schiena appoggiata al tronco liscio del benjamin sui cui rami le scimmie spesso si rincorrono producendo versi da mercato, mi prendo in grembo la testa di questo cane che amo e, senza trattenere le lacrime, comincio a salutarla.
Quando arriva il veterinario dalla città – un omino piccolo, scalzo, che tiene il suo armamentario in un sacchetto di plastica azzurro – è quasi pomeriggio e sono ancora lì seduta a promettere a Guenda che se il suo spirito si reincarnerà in un cagnolino, e imboccherà la mia strada,