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Solitario Bolognese: La luna e la neve, e altri racconti
Solitario Bolognese: La luna e la neve, e altri racconti
Solitario Bolognese: La luna e la neve, e altri racconti
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Solitario Bolognese: La luna e la neve, e altri racconti

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Solitario bolognese è un libro di racconti, un campionario di storie di uomini bolognesi, di solitudini che si aggirano per la città cercando di sopravvivere ai propri errori, al proprio destino. Uomini qualunque in una Bologna affascinante, surreale e ricca di contraddizioni e lati oscuri. Racconti brevi affilati, taglienti, che ci riportano uno spaccato preciso di una certa miseria umana quotidiana: il momento esatto del fallimento, della caduta, della debolezza, del rimpianto, del rammarico della vita di ogni giorno, sempre a un passo dal fatale sbaglio, dalla scelta che cambierà irrimediabilmente la vita dei protagonisti. Sono ritratti di vita famigliare, alle prese con il lavoro, le riunioni scolastiche, le cene tra amici, nuovi innamoramenti e infatuazioni, e tante frustrazioni in ogni ambito privato e sociale.
Fagnoni, abilissimo nella narrazione breve, ha una scrittura asciutta, esatta, minimalista, onirica e realistica al contempo, raccoglie in questo libro delle indimenticabili short stories che rientrano nella migliore tradizione di questo genere letterario.
LanguageItaliano
Release dateOct 6, 2015
ISBN9788861556119
Solitario Bolognese: La luna e la neve, e altri racconti

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    Solitario Bolognese - Massimo Fagnoni

    SOLITARIO

    BOLOGNESE

    La luna e la neve, e altri racconti

    Massimo Fagnoni

    Collana Uplit 11

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 9788861556119

    Illustrazione in copertina di Claudio Trabucchi

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2013

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    A rigor di termini, non esiste affatto qualcosa come la ritorsione o la vendetta. La vendetta è un’azione che si vorrebbe compiere quando e proprio perché si è impotenti: non appena questo sentimento di impotenza scompare, svanisce anche il desiderio di vendicarsi.

    George Orwell, La vendetta è amara (Tribune, 1945)

    Dolce è l’ira in aspettar vendetta.

    Torquato Tasso,Gerusalemme liberata(1581)

    Dedico il mio primo libro di racconti agli uomini e le donne del Reparto Sicurezza Urbana della Polizia Municipale di Bologna. In quel Reparto ho trascorso i dieci anni più belli della mia intera vita lavorativa.

    Da quei ricordi, da quelle emozioni, è nata la voglia di inventare storie.

    Grazie

    colleghi, amici, fratelli.

    La Luna e la neve

    Sabato notte, estate. Luna piena, Pietro la guarda, sbadiglia. La luna illumina la strada ghiaiosa sulla quale hanno deciso di fermare l’auto. Stanotte caccia grossa. Qualche ubriaco, tossico, pazzo sfrassolato deciderà di entrare nella loro trappola. A ognuno il suo mestiere.

    Pietro è un agente della polizia locale, gli piace il suo lavoro, questa notte è di pattuglia con due colleghi, Andrea Serotti e Alfio Biasi. Indossano camicie azzurre con le maniche corte, sopra casacche gialle rifrangenti. È una notte calda, dolce; uno controlla l’ultimo verbale, l’altro sta chattando sul suo Iphone.

    Pietro è il più anziano, ha quasi cinquant’anni (portati alla grande), uomo d’esperienza, vent’anni in divisa, un matrimonio naufragato alle spalle, una vita solitaria piena soprattutto di strade, a fare il più bel mestiere del mondo.

    Gli altri due componenti della pattuglia sono più giovani, hanno figli piccoli e famiglie costose da mantenere, e altri interessi. Una notte di pattuglia è solo lavoro da finire presto e bene per tornare alle loro case.

    Pietro li capisce, si chiede se loro riescano a capire lui, la sua ansia di fermare ubriachi al volante, sequestrare auto, contrastare inciviltà, cattive abitudini, stili di vita discutibili. Si toglie il berretto giallo sporco, deterge il sudore dalla fronte larga, asciuga la fascetta di pelle sotto la visiera, poi lo ripone nuovamente al suo posto, sulla testa rasata.

    A poche centinaia di metri si vedono luci laser proiettate verso il cielo nero provenienti da una discoteca che sorge in via Mattei, luogo isolato nella periferia bolognese, sempre affollato in serate come questa. Pietro non si chiede perché migliaia di giovani abbiano deciso di andare a spappolarsi cervello e fegato in quel posto; rimane in attesa, le mani sui fianchi, l’aria umida delle due di notte a bagnargli il viso. La luce della luna illumina la strada ciottolosa bazzicata da alcuni come scorciatoia per la statale, da altri come luogo di consumo per amplessi veloci o inalazione sussultante e affannata di eroina e cocaina.

    I tre uomini non parlano, ognuno è impegnato nei propri pensieri, come una macchina con le connessioni scollegate fino al prossimo allacciamento.

    «Ancora mezz’ora poi ce ne andiamo, che ne dite?», chiede Pietro con voce profonda e pacata.

    Andrea alza appena la testa di capelli ricci dai verbali e sorride senza dire nulla.

    Alfio, appoggiato all’auto bianca e blu, continua a digitare a due mani sullo schermo del suo cellulare, poi stacca per un millesimo di secondo: «Come vuoi, stanotte si sta bene qui, meglio che in ufficio», borbotta già risucchiato dalla rete e dalla comunicazione nevrotica, digitata in punta di dita, un professionista del nulla.

    Pietro lo guarda e si chiede se Alfio stia chattando con fantasmi qualsiasi o con un’amante lontana e misteriosa.

    Un tempo non esisteva l’opportunità invischiante della rete, Facebook, Twitter, immagini rubate di frammenti privati, fotografie di figli e mogli ostentate come status symbol di benessere, una felicità spesso solo simulata, incollata in un qualsiasi network come merce di scambio.

    Pietro non ama internet, non usa la rete, il suo sogno è tornare a casa, togliersi le scarpe e immergere i piedi lunghi nelle acque di un qualsiasi fiume, con la canna da pesca vicino lasciando scivolare i pensieri. È giunto alla conclusione che la serenità è determinata da piccole cose, quelle che compongono il suo quotidiano fuori dal lavoro, ha superato da tempo il periodo delle nevrosi da conquista, da consumo obbligatorio. Centellina il tempo, lo assapora come un buon bicchiere di vino, sorseggiandolo. Il suo fine è quel famoso centro di gravità permanente tanto lontano dagli obiettivi dei suoi colleghi più giovani.

    «Pietro, c’è una mega offerta su Groupon», esclama eccitato Alfio alzando la testa dall’Iphone.

    «Non sono iscritto.»

    «Sai cosa ci vuole… con il mouse ci metti cinque minuti.»

    «Non ho la carta di credito.»

    «Acquisto io, così accumulo punti e tu mi dai il contante.»

    «Quale sarebbe la bazza del giorno?»

    «Completa tinteggiatura di casa a un prezzo stracciato.»

    Pietro sbadiglia. «Casa mia non ha bisogno di essere imbiancata.»

    «Ma è praticamente regalata.»

    «Ma chi se ne frega», replica Pietro.

    «Sei troppo vecchio Fabbri.»

    Pietro si asciuga di nuovo la testa con un fazzoletto di cotone umido, strofina i capelli cortissimi, si sofferma sul cranio, ne saggia la consistenza dura come la corazza di una tartaruga, gli piace grattarsi la testa, è un gesto consolatorio, un sentirsi, quasi a ricordare alle mani dove inizia e dove finisce.

    Ripone di nuovo il berretto in posizione come un soldato disciplinato, si volta verso Alfio che sta già digitando a mille anni luce dall’ultima considerazione.

    «Hai ragione.»

    Alfio con una parte del cervello lo intuisce. «Dici a me?»

    «Stavamo parlando io e te… mi pare.»

    Alfio sbuffa, inciampando su un tasto virtuale, poi recupera e gli dedica di nuovo attenzione. «Ho ragione in merito all’imbianchino?»

    «Hai ragione a dire che sono vecchio.»

    «Ma che vecchio e vecchio», interviene Andrea che, dopo avere finito di riordinare verbali e materiale cartaceo, rimane mollemente appoggiato con il sedere al portello anteriore dell’auto.

    «Hai un gran fisico per la tua età, ma la testa è già da pensionato, se non ti adegui alle nuove tecnologie non vai da nessuna parte», insiste Alfio.

    «Ma dove dovrebbe andare?» risponde Andrea.

    «Da nessuna parte, sto bene dove sto, mi basto, ogni mese pago il mutuo, ho il denaro sufficiente per i miei vizi, una casa vicino al fiume e un corpo che ancora funziona a dovere, inoltre un sacco di libri che devo ancora leggere e film da vedere e rivedere.»

    Alfio sghignazza, nella notte la risata si perde per strada rimbalzando su muri sgretolati di magazzini chiusi.

    «Mi sa di malinconia e solitudine, Fabbri.»

    «E lascialo perdere, io credo che lui stia bene così, o pensi di essere più felice tu con due piccoli mostri da crescere che costano come un mutuo e le tue amiche virtuali?»

    Alfio per la prima volta stacca le mani dall’Iphone concentrandosi sul collega. «Ma cosa stai dicendo? Amo i miei figli e mia moglie, coltivo i miei contatti e non mi sono mai sentito più vivo, piuttosto te che ti sei accorto quanto sia faticoso crescere due femmine e farsi dirigere a bacchetta da una terza.»

    Andrea sbuffa: «Almeno sono sincero, non mi nascondo dietro frasi fatte, Ambra, la più piccola, è stato uno sghetto, le voglio bene, ma non era in programma.»

    Alfio ride di nuovo. Pietro non capisce quel modello di risata, contratta, sputata fra i denti, come un messaggio storpiato, nulla di liberatorio, piuttosto una sorta di frapposizione fra un pensiero e l’altro.

    «Questa cosa che due adulti fanno un errore nel 2011 e oplà arriva un figlio non cercato, per me rimane un mistero.»

    «Però è successo.»

    «A meno che Cristina non ti abbia fatto uno scherzone.»

    «Che palle però, dici sempre le stesse cose.»

    «E tu hai la coda di paglia.»

    Pietro stringe appena gli occhi stanchi per guardare meglio due fari tremolanti a un centinaio di metri in avvicinamento lento e irregolare.

    «Ragazzi facciamo una pausa nella seduta di autocoscienza, stanno arrivando potenziali clienti.»

    Alfio stringe le spalle: «Meglio, mi stava venendo a noia la discussione.»

    Andrea stringe le labbra sottili in un’espressione appena corrucciata. «Sapessi a me.»

    Pietro sorride continuando a guardare il veicolo ancora non identificato.

    Andrea e Alfio, appena possono, si beccano come due galletti costretti nello stesso pollaio, ma alla fine si cercano sempre, colleghi, amici, amiche le mogli, lui è convinto che i due uomini si vogliano bene, è una cosa che sente sotto pelle.

    I tre uomini si preparano a fermare l’automezzo che comincia a essere identificabile. Sembra un vecchio Ford Transit per il trasposto merci, bianco sporco, arrugginito e ammaccato; un fanale sta per spegnersi definitivamente proiettando una fievole luce giallognola e opaca. L’automezzo si sposta cercando di evitare le numerose buche presenti sulla strada, il suo moto appare lento e ondeggiante come quello di un ubriaco.

    Andrea accende l’auto, attiva gli strobo che illuminano la strada con la loro intermittenza bluastra, Alfio mostra la paletta e con una torcia elettrica segnala al furgone l’area destinata al suo arresto. Pietro tasta istintivamente il fodero bianco sdrucito dove è custodita la Beretta in polimeri.

    Si va a cominciare.

    Il vecchio Ducato con un rumore di ferraglia in collisione si arresta a lato della larga strada deserta, gli agenti si dispongono come da copione uno dietro al mezzo, uno a fianco dell’autista e uno subito dietro di lui solo a un metro di distanza.

    Quasi professionisti della sopravvivenza di strada… quasi.

    La prima cosa che Pietro intuisce e riconosce è la musica altissima proveniente dall’abitacolo, è uno scherzo della memoria, immediatamente si accende un’immagine: lui a diciotto anni in piazza Maggiore, servizio d’ordine pagato per un concerto che allora passò alla storia nella città, i mitici Clash. Il brano è uno dei più famosi: Should i stay or should i go. Pietro sorride, pensa che in quella strada nessuno ha visto i Clash da vicino come lui. Con la torcia elettrica illumina l’abitacolo, si rilassa immediatamente scoprendo tre giovani ossuti e poco bellicosi, una ragazza capelli cortissimi e occhi accesi da qualche fiamma sconosciuta, l’autista capelli crespi da rasta e un anello al naso e dall’altra parte dell’abitacolo il più interessante dei tre, biondo, occhi chiari, forse grigi a sfumare nella luce falsa della torcia alogena, un viso tagliato con l’accetta, un sorriso sicuro di chi ha ancora molto da vedere e poca paura di vivere.

    Fa un gesto con la torcia esplicito e la musica altissima si abbassa a un livello accettabile.

    «Ragazzi non è un po’ tardi, o forse troppo presto, per andare in giro?»

    L’autista, che sembra il più grande avrà venti, ventidue anni al massimo sorride, gli occhi appena arrossati da cannabis, l’alito un poco inquinato da qualche birra di troppo. È già arrivato, lascerà lì il suo mezzo sgangherato e la patente, ma non c’è fretta, non deve esserci con chi ha superato il limite, Pietro lo sa.

    «Ci perdoni agente, mi sa che venendo via dalla discoteca abbiamo imboccato la strada sbagliata.»

    Impercettibile arriva una specie di rimescolio dalla parte posteriore del furgone, come un frullo di ali in una gabbia stretta.

    Alfio illumina a sua volta l’autista che stringe gli occhi infastidito.

    «Dietro il furgone cosa portate?»

    «Niente di che agente, una gabbia di canarini, si staranno agitando per l’improvvisa frenata.»

    «Canarini?», chiede Pietro sorridendo.

    «Sono miei, me li porto sempre dietro quando cambio città», risponde la ragazza con una voce roca da adulta, sporcata da mille sigarette, canne e una vita al massimo come cantava Vasco un secolo prima.

    «Non vi dispiace se diamo una controllata al carico… così in amicizia?», replica Andrea, nel tono nessuna nota amichevole.

    L’autista sempre sorridendo apre lo sportello che cigola in maniera preoccupante come se si dovesse staccare dalle cerniere. «A disposizione agente, nessun problema», dice lo smilzo, e con un salto atletico scende a terra, magro, ossuto, il busto scompare dentro una t-shirt nera con disegnata sopra una A bianca trafitta da una riga rossa. Cammina lento verso la parte posteriore del Ducato, i pantaloni scendono sotto la vita mostrando i boxer neri, Alfio da una parte e Andrea dall’altra si spostano fino allo sportello posteriore, mentre Pietro rimane davanti con la giovane coppia seduta all’interno dell’abitacolo.

    «Una curiosità, tu li conosci i Clash?», chiede al biondo più che altro per cercare un contatto.

    Il biondo sorride di lato, una smorfia strana, una di quelle che Pietro nel suo catalogo istintivo cataloga come minacciosa, poi si volta verso la ragazza, le infila con disinvoltura la lingua in bocca, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

    Si volta di nuovo verso Pietro rimasto congelato con la torcia a illuminare la scena.

    «Hai sentito Laura? Un vigile che conosce la buona musica.»

    La ragazza sorride a sua volta, con un solo movimento dà un calcio allo sportello rimasto aperto e salta a terra, gira intorno all’abitacolo e si avvicina a Pietro che la sovrasta di circa trenta centimetri, sembra un elfo oscuro delle foreste del Nord, anch’essa vestita di nero, con diversi piercing disseminati sul viso.

    «Non ti ho chiesto di scendere», dice Pietro guardando Laura e il biondo rimasto a bordo, trovandoseli a sinistra e a destra.

    «Mi intriga un vigile acculturato», risponde la ragazza avvicinandosi a Pietro fino quasi a sfiorarlo.

    «Ti devo chiedere di stare a distanza ragazzina, qualsiasi sostanza tu abbia inalato o bevuto, non ti avvicinare», le intima facendo un passo indietro, ancora tranquillo davanti alla nanerottola.

    In quel momento lo smilzo è intento ad armeggiare con il portellone posteriore.

    «Pensi di farcela entro domani? Sai vorremo andare a casa prima o poi», gli dice Andrea illuminando le mani sporche e tremanti dell’autista.

    Quello scoppia a ridere, una risata secca e stridula come quella della strega di Biancaneve. «Sai sbirro che sei proprio una sagoma?»

    Alfio sorride pregustando la reazione di Andrea ma in quel momento il portellone posteriore del Ducato si spalanca e la torcia degli agenti illumina due cani scalpitanti trattenuti da un quarto figuro che li sta tenendo con le mani a morsa sui musi frementi. Sono due pitbull piccoli, sudati, compressi come molle.

    L’uomo dentro il furgone dà un solo ordine secco, «attacca», e i due cani spiccano un balzo insieme all’uomo che saltando di lato comincia a correre verso il vicolo buio d’accordo con lo smilzo che ha aperto il furgone.

    I due pitbull attaccano Andrea, primo bersaglio utile, uno lo morde alla faccia, stringendogliela fra le mandibole dure e metalliche, il secondo gli morde un braccio. Alfio, impietrito dalla sorpresa e dall’orrore della scena, indietreggia di un passo senza pensare. A Pietro l’urlo penetra le orecchie come la detonazione di una bomba, è un urlo sincero, niente di simulato e cinematografico, sa di dolore e paura, sangue e disperazione.

    «Pietroooo», riesce ad aggiungere Alfio e lui capisce che la situazione sta precipitando da qualche parte, schiaccia il pulsante della radio appoggiata sulla spalla: «Codice emergenza, via Mattei, punto di controllo sedici, fate presto, ambulanza e ausilio.»

    Non sente il ricevuto ma confida che il messaggio sia arrivato, dimentica la coppia slinguazzante, si volta verso il retro del furgone e sente un dolore lacerante fra l’inguine e lo stomaco, come un attacco di ulcera perforata, apre le mani, guarda verso il basso e fa in tempo a vedere la mano piccola di Laura estrarre un coltello a serramanico dal suo ventre per poi piantarlo di nuovo nel gluteo destro, un movimento rapido, deciso, come se non avesse fatto altro in tutta la sua vita, come infilare un coltello nel burro, in una torta di compleanno. Oggi la torta è lui. Riesce a guardare gli occhi spiritati della ragazza e quelli freddi, azzurro-acciaio del suo compagno, e si rende conto di non avere capito nulla, una vita in strada senza avere imparato un bel niente. Le ragazzine alle tre di notte non vanno in giro ascoltando i Clash, quelle normali sono a letto da sole o in compagnia, non in una strada di periferia, non con quegli occhi da matta.

    Il biondo scende dal furgone e lo colpisce duro con un martello alla nuca, un solo colpo ma ancora Pietro non cade, piroetta su se stesso, con una mano si tocca la testa. «…ma siete matti?», riesce a farfugliare con la bocca impastata di sangue.

    Cade, lento, stremato, nel ciottolato polveroso d’estate, intanto afferra la Beretta, la sente pesante fra le mani, mentre il sangue, il suo sangue, corre veloce fra

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