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1982 Estate di sangue
1982 Estate di sangue
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1982 Estate di sangue

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About this ebook

Roma, luglio 1982: due ex detenuti di lungo corso escono da Regina Coeli e vanno in giro per l’Italia a bordo di una camionetta della polizia lasciandosi dietro lunghe scie di sangue. Rapine cruente, omicidi e crimini efferati. Lo scenario crepuscolare degli anni di piombo sullo sfondo, la Banda della Magliana, poliziotti corrotti, cronache nere e trame rosso-sangue.

Estate di sangue: la storia di una vendetta. La storia di un amore negato. La storia di tante storie, intrecciate in un’iperbole al vetriolo di spietata realtà. Un ritmo incessante pieno di colpi a effetto, suggellato da un rocambolesco finale al cardiopalma.
Una storia di sangue. Un’estate di sangue.


«Il treno lasciò la stazione di Bologna. I suoi pensieri tornarono a Cicalino, seppellito a due passi da lì, in mezzo alle campagne. Gli tornarono in mente le sue ultime parole prima che gli ficcasse quattro pallottole in corpo: “Fratello mio, la vita è un viaggio strano. E non sai mai come va a finire”. Beh, aveva ragione. Cicalino, pace all'anima sua. Non c’era più spazio per nessun sentimento.
Le forze lo stavano abbandonando. La stanchezza e l’effetto delle amfetamine erano scese in picchiata tutte d’un colpo.
Calò il sipario: Cicoria sprofondò sul sedile e crollò in un sonno profondo senza sogni.
La vita è un viaggio strano. E non sai mai come va a finire fino all'ultimo».
LanguageItaliano
Release dateJan 1, 2017
ISBN9788861553590
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    1982 Estate di sangue - Nicolas Trashnikòv

    Nicolas Trashnikòv

    1982

    estate di sangue

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-359-0

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2017

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    Lascia che avvenga ora,

    perché bisogna che così adempiamo

    a tutto ciò che è giusto.

    Matteo 3,15

    I

    Estate di sangue

    1.

    Roma, 10/07/1982 – h. 18.40

    Afa e vuoto: un caldo torrido da togliere il fiato, la mente sospesa e nessun domani ad attenderlo. Paura era la sua sposa, e il sole era un fuoco nemico che squagliava il cemento e fomentava la follia del genere umano.

    Chilometri d’asfalto macinati sotto un caldo rovente, vessato dal peso di un incessante senso di irrealtà. Strade morte, facce morte, palazzi sudici, tubi di scappamento, cartacce ingiallite, stronzi di cane: Roma non gli era mai sembrata più vicina all’inferno come in quel momento.

    Lui: una faccia inosservata in mezzo a migliaia di altre facce. Era strano; l’Italia intera era sospesa in una frenetica attesa per la finale dei campionati mondiali di calcio, e il suo unico pensiero era rivolto a come sopravvivere in mezzo al guado; unica certezza: la morte.

    Lui: Giovanni Taddone, per tutti il Cicoria, neo cittadino redento a piede libero. Dieci anni dopo.

    Rivedere il mondo esterno: un effetto impronunciabile. La città era cambiata, e l’idea di riabituarsi a una qualsiasi parvenza di libertà gli sembrava maledettamente lontana.

    Istantanee, impressioni, intuizioni: polvere, caos e disperazione all’unisono; dentro o fuori era la stessa identica merda. Cicoria annusò l’aria calda del tardo pomeriggio; nessun segnale d’uscita da quel tunnel del terrore in cui la sua mente veleggiava instabile da giorni.

    Il bar Nello offriva la possibilità di starsene in pace a bere bianchetti freschi delle campagne di Frascati a prezzi abbordabili. Il bar Nello era una piccola icona di oasi in mezzo a immense distese di niente. Il bar Nello era una bettola merdosa di proprietà di un ex detenuto compare suo a Regina Coeli, tale Guastaniello. Guastaniello era impiegato in pianta stabile nella criminalità organizzata. Guastaniello però non era nei paraggi. Amen. Cicoria riconobbe qualche volto noto. Nessuna faccia diceva granché. Cicoria si limitò a salutare qualcuno con un cenno del capo. Per il resto era tutta la solita messinscena di sempre.

    Vuotò d’un fiato il bicchiere. Il vino era ottimo, fresco al punto giusto, andava giù a meraviglia. La radio passava Modern love di Bowie e le ragazze là fuori sfilavano dentro a vestitini leggeri. Gli sembravano tutte così dure e omologate; in un decennio anche le donne erano cambiate.

    Un moscone da merda continuava a dargli il tormento. Cicoria impugnò il giornale arrotolato con la mano buona, l’alzò molto lentamente e lasciò scattare una frustata secca: un colpo perfetto. Guardò con indifferenza il corpo esploso del moscone e si stupì leggermente scoprendo budella mollicce di mosca morta; non pensava che un essere così piccolo e insignificante potesse contenere un quantitativo tale di viscere. Scacciò via dal tavolo la carcassa deforme di quella che fino a una manciata di secondi prima era stata una mosca, poi fece cenno al barista di portargli un altro giro. Faceva un caldo infernale anche dentro al bar, e il concetto di realtà non gli era mai sembrato tanto avulso come in quei giorni.

    Roma a luglio: crepuscolare e rovente. Un sole rosso-sangue imponente come un dio pagano filtrava attraverso i vetri lerci del bar, investendo di raggi ambrati il locale. Era strano essere di nuovo fuori.

    I primi tre giorni di libertà li aveva trascorsi rintanato tra le mura amiche della vecchia cascina di Santo, in quel di Primavalle, poi si era deciso a mettere fuori il naso nell’orrore cittadino. Al quarto giorno di libertà, la realtà convulsa al di fuori delle sbarre non era altro che un presente appannato.

    Il ragazzo arrivò con un altro giro di bianchetto. Appoggiò il bicchiere sul tavolo e lanciò uno sguardo incuriosito sul moncherino deforme che c’era al posto della mano sinistra del Cicoria, poi passò in rassegna lo sfregio che segnava metà di quella faccia consumata. Cicoria gli restituì uno sguardo tremendo. Il ragazzo abbassò gli occhi, girò i tacchi e sparì nel retrobottega. Povero, piccolo stronzolino tenero, disse tra i denti Cicoria scuotendo lentamente il bicchiere nella mano buona. Mandò giù un’oliva. Sapeva di merda.

    Il vino in compenso sembrava ancora più fresco e dolce, proprio niente male quel bianchetto. Cicoria tirò fuori dal pacchetto una Nazionale, la pressò sul tavolo con l’aria stanca e l’accese. Rimase seduto a sudare e a pensare, assorto in una miriade di sensazioni contrastanti.

    Tornò alla realtà statica da bar. Prese a buttare fuori anelli di fumo gaudenti e rimase incantato a osservare il corpo fresco di una ragazza che consumava una Tassoni al bancone. Un impulso di eccitazione lo colse di sorpresa; era così giovane, e così svestita anche. Aveva un culo meraviglioso, fasciato alla perfezione in un vestitino leggero dai motivi floreali. Cicoria sentì la morsa della passione contrargli le viscere. Non riusciva a schiodarle gli occhi di dosso. Non andava con una donna da nove anni e dieci mesi, ovvero per tutto il tempo di detenzione trascorso presso i duri cortili di Regina Coeli. Si era masturbato regolarmente però, almeno 20/25 orgasmi mensili, in media.

    Le sue fantasie furono interrotte di soprassalto. Il solito vecchio segnale d’allerta gli risuonò nel cervello: din-don, din-din-don; si girò verso la porta d’ingresso esattamente nello stesso istante in cui comparve sulla soglia Cicalino.

    Cicalino: suo socio, suo allievo, suo ex compagno di cella, ex pugile professionista, ladro e rapinatore a piede libero da sette mesi a questa parte.

    Cicalino: all’anagrafe Antonino Cicalea, per tutti Cicalino. Considerato a tutti gli effetti latitante negli schedari della questura. Un nuovo mandato di cattura sulla testa per violazione delle prescrizioni della libertà vigilata e un articolo 103 marchiato a fuoco sul groppone: soggetto considerato delinquente abituale.

    Cicalino oggi: sbandato tossicomane dedito ai furti e alle rapine per sopravvivere alla dura legge del buco, e un debole irresistibile per le puttane di strada.

    Cicalino era stato rilasciato da Regina Coeli sette mesi prima, alla vigilia di Natale. Per i primi mesi erano rimasti in contatto tramite una fitta corrispondenza postale; brevi lettere farcite di sterili aneddoti sulla quotidianità dentro e fuori le sbarre. Poi Cicalino aveva improvvisamente interrotto la corrispondenza. Un mese prima del suo rilascio Cicoria aveva ricevuto una cartolina raffigurante un paesaggio marittimo di Ostia; due righe in croce: un indirizzo, un numero di telefono di Roma e un breve saluto, firmato "El Chico Loco": il chiaro monito che Cicalino si trovasse di nuovo in una latitanza fitta di guai.

    Ed ecco che avevano appuntamento proprio lì, al bar Nello: sette mesi dopo, per pianificare insieme il futuro prossimo in libertà, e Cicalino aveva quaranta minuti abbondanti di ritardo. 

    Cicoria prima che i loro occhi si incrociassero, notò immediatamente inequivocabili segnali di astinenza da robba veleggiare tutt’intorno allo spirito inquieto del suo compare.

    Cicalino finalmente lo individuò. Si avvicinò a passo spedito con la sua solita aria furtiva verso il tavolo del suo socio.

    Cicoria osservò la sua figura esile avvicinarsi. Occhi spenti; occhiaia ridotte a profondi solchi neri e quel volto affilato di un pallore cadaverico: Cicalino stava dimmerda.

    Quando gli si parò davanti, Cicalino si sforzò di sorridere; uno sforzo indicibile per la sua faccia granitica.

    – Pensavo che te presentavi co ’na carrozza de verginette belle ’nfracicate – esordì il Cicoria.

    Cicalino rispose con un sorriso stanco. – Se, e ’n cocchiere frocio. A Cico’, ’tacci tua… Vie’ qua...

    Si lasciarono andare a un lungo abbraccio virile, condito da pacche fraterne sulle spalle.

    Un tacito silenzio cameratesco fu la conferma che in realtà non c’era granché da dirsi e che l’unica soluzione immediata al momento era berci un po’ sopra. Ordinarono un giro di bianchetto. Arrivò quasi subito.

    – Embè, sei ’na colombella fori da quattro giorni e me chiami solo oggi, Cicò? Ho capito, va’, sei stato tutto er tempo a inzuppa’ er biscottino...

    – No, macché, nisba – rispose Cicoria scuotendo la testa. – Me ne so’ stato bello tranquillo in campagna, da un vecchio amico mio che nun vedevo da ’na vita. Sai com’è, nun è facile pe’ niente l’impatto con l’orrore, qua fuori.

    – Cioè me stai a di’ che nun hai ancora visto ’na fregna?

    Cicoria scosse la testa e buttò fuori una lunga boccata di fumo. – Niente di niente, frate’.

    – Che c’è, nun te ricordi più come se fa? O a forza de sta’ ar gabbio sei passato ai ragazzetti? Eh, Cicò? – disse Cicalino prima di scoppiare a ridere. Cicoria non era più abituato alla risata diabolica del suo socio.

    – No, frate’, so’ ancora bono! Non te preoccupa’! Si me mandi tu sorella, magari me fa ritrovà ’a retta via.

    Scoppiarono tutti e due a ridere. – Me sa che te devo portà da qualche zoccola amica mia, altrocheccazzi.

    – Beh, nun è mica ’na cattiva idea.

    La conversazione scorse via farcita di stronzate e aneddoti da galera: ricordi dei tempi trascorsi fianco a fianco dietro le sbarre, rivelazioni su ex compagni, usciti o rientrati al gabbio, oppure morti ammazzati; routine. Parlare di niente era pur sempre la via di fuga migliore per non pensare troppo alla pesantezza del niente.

    Fumarono un paio di sigarette a testa e fecero altri due giri di bianchetto. Cicoria considerò che il vino aveva perso di poesia, ma gli stava alleggerendo il cervello esattamente come voleva. 

    Cicalino beveva in fretta, sforzandosi in tutti i modi di tenere a bada la bestia e di inscenare una parvenza di brillantezza e lucidità che non poteva permettersi. Un’ansia sempre più pressante lo stava divorando dentro: la rota da buco cominciava a farsi insostenibile. Cicalino sudava veleno e si grattava di nascosto, violentandosi per non darlo a vedere al suo socio-mentore. La smania con cui beveva era uno sterile tentativo di tamponare la voragine dell’astinenza.

    Cicalino era stato suo fratello a Regina Coeli, fianco a fianco nella stessa cella per ventotto mesi. Cicoria gli voleva bene come a un fratello, ma ora non lo riconosceva più: il morso dell’eroina gli stava divorando via velocemente quei pochi pezzi di anima che gli rimanevano aggrappati. E Cicalino continuava a bere come se non esistesse un domani.

    Il bar si era notevolmente ripopolato. Ubriachi che baccagliavano a voce alta, operai alcolizzati, gente di malaffare. Troppi decibel. Il vino si faceva sentire. Alla radio un pezzo di Battisti e zero fica nei paraggi. Eccesso di testosterone. Odori maschi, sudore, birra e piscio. Fastidio.

    Dietro di loro un coatto coi capelli rasati ci dava dentro al flipper come un matto. Cicoria gli lanciò uno sguardo: la classica faccia perduta da periferia su un corpo taurino. Un macilento tutto-cazzo con lo sguardo indurito che faceva casino per quattro. Il coglione scossava, spingeva, imprecava; il flipper non era il suo sport, a occhio.

    Cicalino a ogni nuova bordata schizzava su come un cane allarmato. Cicalino aveva i nervi a pezzi.

    Un altro scossone, un’altra pallina d’acciaio in buca. Testa rasata cacciò una manata sul flipper e una bestemmia alla Madonna. I nervi di Cicalino cedettero definitivamente.

    – A testa de cazzo! – schizzò in piedi. – Senti ’n po’: sto a prova’ a parla’ co ’n amico mio e ce stai te qua dietro co ’sto flipper demmerda! E tin tin tin– gli vomitò addosso marcando il suo miglior accento borgataro. – Ma porcoddio, manco riesco a pensà co’ tutto er casino che stai a fà! E levate un po’ dar cazzo!

    Il tizio si staccò dal flipper e fece un passo in avanti: aria interdetta e la solita faccia da cazzo dura e omologata da periferia proletaria. Il tizio era visibilmente incazzato; era stato minacciato e sfidato in pubblico da un piccoletto con l’aria da tossico merdoso. Il tizio aveva irrigidito la schiena in classica postura pre-bellica. Scena già vista e rivista.

    – Ahò, a stronzo, placate! Ma che cazzo te urli? – replicò gesticolando platealmente. – A ’mbecille, ma che cazzo vòi? Ma chi cazzo te se…

    Cicalino balzò in avanti come un animale feroce: nemmeno il tempo di fargli finire la frase che la sedia era già rovesciata a terra e un diretto destro vibrava nell’aria.

    Il buon vecchio Cicalino non l’aveva mai persa la sua furia e il suo antico vizio per le risse. Era tutto un fascio di nervi, tesi come corde di violino, perennemente pronto a scattare in qualsiasi momento. Un destro d’incontro tremendo si stampò in pieno sulla bocca di testa rasata, cogliendolo impreparato. Seguirono rapidissimi un gancio sinistro brutto come un frontale in auto e un altro diretto destro che lo centrò sulla tempia. Testa rasata crollò a terra con un k.o. tecnico che non lasciava spazio a repliche.

    Cicoria gli arrivò da dietro. Cercò di trattenerlo con una presa energica, ma Cicalino gli sgusciò via facilmente con una spallata. Cicalino lasciò partire un calcione di collo pieno. L’uomo lanciò un grido strozzato che suonò parecchio goffo. Prima che Cicalea scattasse di nuovo, Cicoria riuscì a cinturarlo all’altezza del petto, trattenendolo con tutta la forza che aveva nelle braccia: un lavoraccio; Cicalino aveva una forza mostruosa nonostante il suo corpo sottile e consumato da eroinomane.

    Il cuore impazzito di Cicalino tuonava dentro a quella cassa toracica filiforme. Cicoria gli posò una mano fraterna sulla spalla e gli avvicinò la bocca all’orecchio. Gli sussurrò qualcosa. Cicalino si calmò di botto e si lasciò trascinare via senza più opporre resistenza. Cicalino lasciò alla velocità della luce la modalità schizzato fuori di testa e si ricompose. Cicoria era l’unico uomo sulla faccia della terra in grado di calmarlo e di farlo ragionare; di lui si fidava ciecamente. Cicalino avrebbe dato la vita per il suo mentore.

    Non volava più una mosca dentro al bar. Tutti gli avventori erano rimasti interdetti. Tutti gli occhi dei presenti erano puntati su di loro, ma nessuno aveva aperto bocca; nessuno evidentemente aveva voglia di guai. Cicoria sistemò tutto quanto in maniera autorevole.

    – Nun è successo niente, è tutto a posto, signori! – voce baritonale e mani alzate in aria. Cicoria gettò un’occhiata al barista, impassibile dietro al bancone. – Lo spettacolo è finito. Mo pagamo per il disturbo e ce ne annamo.

    Afferrò Cicalino per un braccio. – Levamose! – Se lo trascinò via.

    Testa rasata si rotolava per terra qualche metro più indietro, confuso e ferito. Umiliato assai era il verdetto. La radio passava Lilly di Venditti e Cicoria lasciò due banconote da diecimila sul bancone del bar. Tutti gli occhi li seguirono mentre uscivano in strada: i cattivi se ne andavano finalmente. Cicalino aveva un’aria tremenda e l’inferno negli occhi.

    Cicalino si calmò e il viaggio in macchina fu un monologo a senso unico. Si lasciò andare. Ne aveva bisogno. Una confessione, come ai vecchi tempi. Cicalino fece scorrere come un fiume in piena i fotogrammi da incubo dei suoi ultimi sette mesi di libertà.

    Venne fuori che aveva ripreso col buco dopo appena tre mesi dal rilascio. Venne fuori che era indebitato fino al buco del culo. Venne fuori che non mangiava da un secolo. Venne fuori che saltuariamente cenava a base di scatolette di tonno e cibo per gatti. Venne fuori che la sua vita era più incasinata, disperata e merdosa che mai.

    All’inizio aveva provato a rigare dritto. Aveva tenuto alla larga tutti gli stronzi del passato. Aveva lavorato in un cantiere edile come carpentiere. Aveva rispettato gli orari per tutto il periodo di obbligo di firma in questura. Aveva vissuto nell’alienazione che gli avevano prescritto, da bravo, piccolo stronzo cittadino integrato nell’orrore quotidiano.

    Poi la depressione aveva cominciato a farsi insopportabile. La precarietà di lavoro e la mancanza di soldi lo avevano messo alla gogna. E un paio di incontri con personaggi del passato avevano decretato fine della rettitudine. Ed ecco che il suo antico amore per l’ozio e lo sballo avevano avuto il sopravvento ancora una volta nella sua vita, come una perenne tappa obbligata.

    C’era dentro fino al collo. Da uno era passato a tre buchi al giorno di zucchero marrone – trentun giorni al mese. Ogni tanto, quando gli entrava qualche colpo buono, si concedeva uno speedball ero-coca; gli piaceva, lo faceva svalvolare selvaggiamente.

    Per pagarsi il vizio spacciava e rubava, automobili o autoradio generalmente, che rivendeva per due lire a un ricettatore del Testaccio. Con le rapine non gli era andata tanto bene ultimamente: colpi poco redditizi in società col suo vecchio socio, er Palletta, e P.S. alle costole.

    Er Palletta era stato pizzicato ed era finito di nuovo dentro. E Cicalino era rimasto di nuovo solo con la sua disperazione.

    Cicalino aveva un disperato bisogno di rimettersi in carreggiata. Cicalino aveva un disperato bisogno di una direzione. Cicalino aveva un disperato bisogno di soldi. E di un socio.

    Cicalino viaggiava su una vecchia Fiat 126 bianca: un catorcio devastato vecchio di sedici anni. Il catorcio era lurido. Un substrato di ruggine avanzava implacabile fino alle lamiere interne. I sedili erano pieni di buchi di sigarette e impregnati di un odore rancido: un misto di pollo fritto, peli di cane e polvere stantia.

    Cicoria non se lo ricordava più il traffico dell’ora di punta sul Grande Raccordo: una cosa insopportabile. Centinaia, migliaia di auto che procedevano a passo d’uomo sotto un caldo torrido, al termine di un’altra lunga giornata di lavoro. Uomini piccoli dentro auto piccole, in direzione mare, casa, famiglia, figli, amanti, al riparo delle loro esistenze sicure e confortevoli, ignari che in mezzo a loro si mimetizzassero animali feroci assetati del loro sangue e delle loro fortune, predoni insaziabili, come lui e Cicalino, animali senza più gloria, senza più anima e senza più niente da perdere. Questo era il suo unico vantaggio, Cicoria lo sapeva bene. E voleva prendersi tutto quanto prima di finire di nuovo dentro a un buco nero di cella o di bara, giusto o sbagliato che fosse. Lo sentiva un suo diritto.

    Cicoria venne sottratto a questi pensieri nell’istante in cui il suo socio si attaccò al clacson e si mise a vomitare insulti contro un tizio su un Dyane che evidentemente ci stava a suo agio in fila.

    Cicoria lanciò fuori la sigaretta dal finestrino, sputò sull’asfalto rovente e maledisse il buco di culo di mondo nel quale era relegato.

    2.

    Roma, 10/07/1982 – h. 19.34

    Cicalino viveva in una topaia sulla Prenestina. Era un anfratto umido, ricavato da un ex locale caldaie nel seminterrato di una vecchia palazzina. La latitanza e la sua attuale condizione di reietto gli offrivano ben poche possibilità, e Cicalino si era rintanato in quel buco merdoso di venti metri quadrati di proprietà di uno spacciatore in cambio di due spicci.

    Cicoria si guardò intorno: disordine e spazzatura all’unisono. Un odore pungente di umidità, piscio di gatto e carne putrefatta gli levarono il fiato.

    – Fratellì, ma come cazzo fai a vive’ qua dentro?

    Cicalino si fiondò immediatamente in bagno, saltando a piedi pari spiegazioni e inutili rituali di benvenuto.

    Cicoria si sistemò su una sedia logora e impolverata. Rimase in contemplazione della tana del suo socio in cerca di qualcosa di decente: il niente più assoluto. Quel posto faceva davvero cagare. Gli unici elementi d’arredo consistevano in un divano lercio e un tavolino di truciolato incorniciato da una coppia di sedie impagliate. Un vecchio armadio malmesso sistemato in fondo alla stanza completava un arredamento misero che sapeva di disperazione.

    Cicoria si accese una sigaretta. Un’ondata di tristezza affiorò a galla prepotentemente. Una lampadina penzolante dal soffitto illuminava di una fioca luce giallognola lo squallore che regnava di casa. L’unica fonte di luce naturale del locale proveniva da un piccolo lucernario con le inferiate arrugginite. Un debole raggio di luce proiettava una scia di polvere per tutta la lunghezza della stanza, e tutto quanto gli sembrava così maledettamente triste. Osservò uno scarafaggio scorazzare beatamente sul cucinino arrugginito. Dal lavello proveniva una puzza di fogna nauseante. Il rubinetto perdeva. I muri scrostati trasudavano umidità e fetore da tutti i pori. Quel buco di culo di posto era dieci volte peggio di una cella; evidentemente Cicalino amava proprio sguazzarci in mezzo alla merda.

    Cicalino era proiettato esclusivamente a una rapida soluzione da buco. Armeggiò per qualche istante dietro alla tazza del cesso, poi da un anfratto nascosto da una piastrella amovibile ne estrasse una busta di nylon. Mani ansiose tremavano. Pescò una pallina presa a caso tra tante altre palline identiche: dosi già pronte per essere smerciate al dettaglio. Da un altro involucro di forma allungata tirò fuori cucchiaino e spada. Le mani presero a tremare ancora più forte. Si sedette sulla tazza e si avvolse rapidamente il laccio emostatico al braccio, stringendolo coi denti. Preparò con meticolosità la mistura. Non fu semplicissimo: le mani andavano un tantino a cazzi loro. Una manciata di fiammiferi ardenti riscaldarono il cucchiaino, facendo friggere l’eroina fino a liquefarla in una soluzione iniettabile.

    Le sue braccia erano un en plein di buchi, zero spazio libero. Cicalino lasciò perdere le braccia e optò d’urgenza per il piede. Si bucò in un lembo di pelle costellato tutto intorno da tanti altri buchi.

    L’ago in vena sancì ancora una volta un punto d’approdo. Flutti vorticosi di torpore divino lo travolsero in pieno, trascinandolo via in un colpo solo dall’orrore esistenziale: di nuovo in salvo, di nuovo in alto, cullato tra le braccia protettive di sua maestà eroina.

    Antonino Cicalea si palesò una manciata di minuti più tardi con un volto totalmente transumato: quella maschera dura da indios pericoloso si era trasformata in una morbida distesa di estasi triviale. Cicalino fece un inchino davanti all’immagine del suo mentore, poi si lasciò sprofondare nella stoffa sudicia del divano.

    – Scusame, Cicò, nun c’ho avuto il tempo de sistema’ casa. Ce lo so che è un mondezzaio qui. – Cicoria spense la sigaretta e rimase in silenzio a osservare l’amico appollaiato sul divano. Studiò quel viso stravolto: pallore cadaverico, occhi ridotti a due fessure.

    – Te vedo nervoso, Cicò.

    – Da quando sò uscito nun faccio che lavarme. Sta puzza de sbarre nun se leva. Ce l’ho qua, sotto ar naso quello schifo. E nun se leva.

    Tirò su col naso. – Lo sai quante cazzo de docce me faccio al giorno?

    Cicalino scosse la testa.

    – Almeno dieci. Me lavo co’ la spazzola, me riempo de sapone, de shampoo... niente da fa’! ’A puzza der gabbio me s’è appiccicata addosso, m’è entrata dritta ner cervello. Quanno cazzo se leva nun lo so.

     – Quella nun se leva, Cicò. Io ce l’ho addosso da quanno so’ pischello... Me sa che nun se leva più...

    Ci fu un lungo silenzio, carico di amarezza. Da fuori proveniva il ronzio del traffico e in lontananza il suono distorto dello stereo a palla di un vicino.

    – E insomma, che intenzioni c’hai, Cicò? – gli domandò con un filo di voce impastata.

    – De mette’ a ferro e foco ’sto bucio de culo de città prima de spari’ pe’ sempre.

    Cicalino scoppiò in una risata folle, seguita da spasmi di tosse marcia. Poi quando gli spasmi finirono si accese una sigaretta.

    – Me piace come piano, socio. Me piace proprio.

    Ci fu un lungo silenzio. Cicoria decise di andare subito dritto al sodo.

    – Socio… Sei ancora er socio mio? – gli domandò a bruciapelo, serissimo. – Me posso ancora fida’ de te?

    – Ce puoi giura’ sulla tomba di mi’ fratello. E pure sul mio culo calabro.

    Cicalea sbuffò fumo. – Vedi, Cicò, ho intenzione di ripulirme un po’ da ’sta merda – disse indicandosi il braccio. Le sue braccia: una distesa di ematomi neri-bluastri.

    – Me so’ rotto de vive’ da pezzente. Prima de fini’ sottoterra quarche soddisfazione me la vojo pija’. C’ho bisogno d’azione, e de un sacco de sordi.

    – Bene, perché pure ne ho bisogno, e ho bisogno di un socio con le palle. E nun ne conosco altri tranne te.

    Cicalino sorrise; un sorriso debole. – E la tua libertà vigilata? Hai già deciso de mannarla a fanculo?

    – Te che dici?

    Cicalino annuì, realizzando che la sua era stata solamente una domanda stupida e retorica.

    – Beh, c’ho un paio de contatti boni, gente de borgata fidata; amici miei del Testaccio che me possono da’ tutti i ferri che ce servono co ’na stecca onesta.

    – Che armi?

    – Tutto quello che vogliamo, fratellì. Hanno certi fucili a pompa, mitragliatrici e pure pistole automatiche. Robba de guera.

    – E quanto sarebbe ’sta stecca?

    – Venti percento. Me pare regolare, no?

    Cicoria annuì. – ’Mbè sì, è regolare. Io però preferisco comprarle le armi, e c’ho ’n aggancio bono. In ogni caso, teniamocelo buono il tuo contatto, può sempre tornarci utile. Per il momento l’artiglieria l’ho già procurata io, e se per questo ho anche un paio de colpi pronti. Il mio basista sta lavorando per me.

    – E chi è ’sto basista? Lo conosco?

    Cicoria scosse la testa. – È un mio vecchio compare; lavoravo con lui molto prima che mi ingabbiassero. Parlamo di ’na vita fa. È ’n ’omo d’onore, della vecchia scuola: su di lui si può sempre contare. È un fratello per me. In cambio si prende il venti percento di stecca, ma stamo a parla’ de colpi boni, roba grossa, ’n sacco de piccioli.

    – Mmm, sembra bono…

    – È più che bono. Appena uscito so’ stato da lui quarche giorno, sta a Primavalle. M’ha parlato de certi colpi, e ti assicuro che c’ha un paio de cosette per le mani, che se le organizziamo bene ce fanno svolta’.

    – Tipo?

    – Te ne parlerò meglio con più calma in questi giorni. L’idea, tanto per cominciare è ’na pompa de benzina: è un grosso distributore sulla Nomentana. Girano un sacco de sordi là dentro; pochi rischi e solo tre ragazzetti alla chiusura. È un colpo facile facile da qualche milioncino. Ma la parte più bella è un assalto a ’na bisca. Come te pare, socio?

    Cicalino fece un lungo fischio. – ’Tacci tua, Cico’! Stai fori da quattro giorni e hai già organizzato un assalto epico!

    Cicoria per la prima volta dopo tanto tempo si lasciò andare a un sorriso vero, genuino: era pura soddisfazione sentire pronunciare dal suo giovane allievo-socio la parola epico; tutta farina che gli aveva seminato per bene dentro a quella zucca da bifolco dopo anni di pazienti impartizioni lessicali dietro le sbarre. Cicoria si godette una lunga boccata di fumo. La vita ricominciava a prendere una forma e una direzione.

    – Cicalì, so’ sorvegliato speciale: du firme ar giorno per altri du anni – disse accompagnando due dita della mano. – Nun c’ho nessuna intenzione de sta’ al loro regime di schiavitù, ne ho pieni i coglioni. Ho già dato abbastanza. Lo Stato me vuole un cittadino modello; bene, ma come? Nun c’ho più una lira, nessun aiuto, nessuno che me dà un lavoro onesto. Nun c’ho una residenza e me tocca de paga’ quindicimila lire al giorno per stare in ’sta stanzetta d’albergo demmerda. E come dovrei fare per campà? È la solita vecchia storia, la sai: ci lasciano cuoce’ nella merda aspettando che crepiamo o che ci facciamo pizzica’ ’n’altra volta. Lo Stato se ne fotte della gente come noi. Noi siamo solo un problema da insabbiare… 

    Cicalino annuì lentamente. Cicoria diede una lunga boccata alla sigaretta, la mente lontana, assorto in pensieri amari. Il ronzio del traffico da fuori rendeva ancora più ipnotica l’atmosfera in quella stanza squallida.

    – Io non so’ il tipo che se lamenta o che va in giro a mendica’, lo sai, Cicalì. Voglio esse’ libero, e alle mie regole. In quarantadue anni nun ho mai chinato la testa davanti a nessuno e nun c’ho intenzione de comincia’ proprio mo… 

    – Fratelli’, nun c’è nessuna possibilità de scampo, semo in guerra. Stasera ho firmato in questura per l’ultima volta: entro quarche giorno sarò ricercato per violazione della libertà vigilata e nel giro de qualche settimana sarò a tutti gli effetti latitante. C’avrò un ordine de cattura sur groppone. Te sei latitante da mesi. Quanto pensi che potemo dura’ ancora là fori se nun c’organizziamo bene? – Cicalino annuì, con gli occhi che luccicarono per un istante di una nuova luce folle. – E allora famo la nostra guera e poi levamo pe’ sempre le tende da Roma. ’Sta città ormai puzza demmerda.

    – E ’ndo annamo, Cicò?

    – In giro pe’ l’Italia. Ce spostamo. Tocca solo organizzarsi bene. Se azzeccamo ’na decina de colpi boni come dico io, se mettemo da parte un buon gruzzolo pe’ annna’ in qualche posticino tranquillo a spassarcela.

    – E dove, Cicò? – La voce di Cicalino si era fatta robotica e lontana: un filo sottile monocorde che sembrava provenire da un aldilà tremendo, mentre le palpebre gli diventavano sempre più pesanti.

    – Annamo ’ndo ce pare. Coi sordi vai ’ndo te pare –. Cicalino annuì e rispose con un fischio. – Ce sta un caro amico mio, un tizio che è stato in carcere con me tanti anni fa, è uscito, ha fatto du lire e s’è trasferito in un’isola alle Canarie. L’isola di Gran Canaria, la conosci? – Cicalino scosse la testa, lentamente. – Mbeh, un bel posto dove trasferirsi: clima mite tutto l’anno e un sacco de turismo che porta sordi a palate. Si è aperto ’na pizzeria con un investimento minimo; lavora, sta bene, nun je manca niente…

    – E te vorresti trasferirte su un’isoletta der cazzo a fa’ e pizze, Cicò? – Ne seguì una risata, una lenta risata diabolica, folle, che non lasciava spazio a nulla di buono in quella testa tormentata.

    Cicoria per un attimo trasalì in reazione a quella stoccata che sbriciolava cinicamente in mille pezzi un sogno romantico che lo aveva accompagnato per mesi: un porto sicuro in cui attraccare la mente durante certe notti eterne dietro le sbarre.

    L’ex pugile con la faccia da indios farfugliò confusamente qualcos’altro circa le isole spagnole, ma la sua voce si era fatta sempre più incomprensibile e lontana, fino a scomparire del tutto, inghiottita in un rantolo di godimento perpetuo. Le palpebre erano diventate macigni insostenibili. Le parole suoni gutturali sconnessi. L’esistenza trivialità liquida. Cicalino scivolò via, ogni residuo di dolore scivolò via, mentre i flutti leggeri dell’eroina pompavano a pieno regime nella circolazione sanguigna l’estasi oppiaceo, avvolgendo la totalità del suo essere in una parabola ascendente in piena orbita. Cicalino collassò sereno.

    Cicoria rimase in silenzio a osservare il corpo di Cicalino liquefarsi in un ammasso di carne privo di sensi.

    Poi una dietro l’altra gli balzarono davanti agli occhi le istantanee di vita del suo socio, che aveva appreso attraverso i suoi racconti-confessioni durante tutto il percorso di detenzione trascorso fianco a fianco.

    Antonino Cicalea era un prodotto del sottoproletariato più povero. Classe 1951, cresciuto nelle campagne Aspromontine, era il quarto di una nidiata di cinque figli. Il padre era un mezzadro alcolizzato che nel ’58, in condizioni di estrema miseria, era emigrato nella capitale in cerca di lavoro con tutta l’allegra famigliola al seguito.

    Il vecchio Cicalea aveva subito trovato impiego come carpentiere nel mastodontico progetto C.O.R., in mezzo alla catena di lavoro umana impiegata nella costruzione dei villaggi olimpici per le Olimpiadi del ’60. L’aria romana lo aveva ringalluzzito, spingendolo a un uso dell’alcol sempre più smodato e privo di ritegni, e facendogli ben presto scoprire la sua vera passione: il gioco d’azzardo.

    Il vecchio Cicalea si era indebitato a strozzo fino al collo, mettendo l’intera famiglia sul lastrico. Per sfogare le sue miserie esistenziali, la sera, quando tornava ubriaco, si sfogava con la cinghia sulla moglie e sui figli. Cicalino, molto simile alla madre e remissivo per natura, era uno dei suoi bersagli preferiti, e spesso veniva pestato a sangue da quel vecchio mezzadro calabro che puzzava di alcool, sudore rancido e infamia.

    Il vecchio Cicalea era un merdosissimo figlio di puttana. Il piccolo Cicalea, di forte estrazione cattolica indotta, la sera, prima di coricarsi pregava per la sua vita e per quella di sua madre. Ogni notte un urlo soffocato nel buio implorava Dio che si prendesse la vita miserabile di suo padre. E ben presto le sue preghiere presero forma, quando nella primavera del ’62 suo padre fu stroncato da un infarto. Il vecchio crepò in un cantiere edile nel bel mezzo della pausa pranzo mentre addentava un panino e ingollava birra gelata. Antonino Cicalea da quel giorno stabilì che Dio è grande; lo incise anche col temperino sulla panchina di legno della scuola.

    La madre, casalinga timorata di Dio e indebitata fino al collo, decise di affidare i tre figli minori – due maschi e una femmina – in un collegio cattolico. Le due sorelle maggiori invece le tenne con sé a casa, in quanto fonte di sostentamento grazie ai loro impieghi come sarte.

    Cicalino, ribattezzato così dai compagni per via del suo cognome e della sua corporatura sottile e minuta, all’interno delle mura del convento-collegio ben presto scese ancora più in basso nella scala dell’inferno: una serie di violenze e abusi reiterati da parte dei ragazzi più grandi, e come unico conforto notturno, la compagnia scabrosa di don Vincenzo, che non perdeva occasione di infilarsi sotto le sue coperte con frequenza quotidiana.

    Cicalino toccò con mano la malvagità umana fino in fondo. Cicalino decise che Dio non era poi così grande se permetteva che tutto quel male toccasse a lui. Cicalino chiuse il cuore a doppia mandata, crebbe e si indurì sempre di più, giorno dopo giorno. Finché un giorno decise che ne aveva avuto abbastanza di bere merda.

    Il terzo giorno dell’anno 1965, non ancora quattordicenne, Cicalino ferì con una coltellata un ragazzo più grande, un bulletto di 17 anni che da mesi abusava di lui:

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