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La Fuga: Delitto in Bretagna
La Fuga: Delitto in Bretagna
La Fuga: Delitto in Bretagna
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La Fuga: Delitto in Bretagna

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About this ebook

Il viaggio di una giovane coppia, Julien e Michelle, attraverso la Bretagna si rivela fin da subito qualcosa di più che un viaggio sentimentale e turistico ma una fuga misteriosa da qualcosa e da qualcuno. I loro destini si intrecciano con quelli di un’altra coppia, Jean-Claude Fontana, un ex pugile, e Marie Lacroix, la sua amante, che si ritrovano casualmente testimoni di un omicidio, in cui i due giovani sono coinvolti nella cattedrale di Quimper, dove è custodita la pala di Emile Hirsh raffigurante L’ultima cena di Cristo. A indagare sul caso è il commissario Bertot, un uomo di legge che “vorrebbe fare qualcosa di illegale”, che grazie a uno spiccato intuito scopre il movente dell’omicidio e la storia del Vetro di Quimper, il cosiddetto “Bottone di Cristo”, intorno alla quale girano molti personaggi, tra cui un europarlamentare manovratore di intrighi loschi e furti d’arte. La fuga e l’inseguimento si snodano in altre storie e personaggi nelle varie tappe da Strasburgo a Saint-Malo. Dove la vicenda prende un’improvvisa svolta e il commissario Bertot pone fine al caso, a modo suo.
Un noir avvincente, ambientato nella misteriosa Bretagna con le sue tante leggende di re, fondatori di città, personaggi mitologici, opere d’arte, libri antichi, che costituiscono la maglia sulla quale Schiavon tesse abilmente le vicende intrecciate e parallele dei tanti personaggi coinvolti, fino a un brillante finale inaspettato, in cui “buoni e cattivi” non sono sempre quelli che ci aspetteremmo.
LanguageItaliano
Release dateJul 2, 2016
ISBN9788861556331
La Fuga: Delitto in Bretagna

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    La Fuga - Gianluigi Schiavon

    LA FUGA

    Delitto in Bretagna

    Gianluigi Schiavon

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-633-1

    Proprietà letteraria riservata

    © Giraldi Editore, 2016

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    A mio figlio Gianlorenzo

    Personaggi

    (in ordine di apparizione)

    Julien Vitraux: studente

    Michelle Liebreiz: la donna dei misteri

    Charles Fillon: spacciatore tuttofare

    Marie Lacroix: la donna che accarezzava le sequoie

    Jean-Claude Fontanà: ex pugile

    Lucien Bertot: commissario

    Tarek Racim: cocainomane rapinatore

    Elena Lovinesku: prostituta

    Jacques Poulen: dirigente polizia giudiziaria di Quai des Orfèvres

    Pierre Fonfon: giornalista

    Madame Dumas: libraia

    Omissis (identità secretata): eurodeputato

    Madame Morel: albergatrice

    Antoine: figlio del commissario Bertot

    1. Prima della fine

    Il mare e la terra ridono. Si scambiano effusioni. L’onda allunga carezze sulla spiaggia scivolando sui sassi: indugia, estenuata, poi si ritira e i ciottoli l’inseguono, come migliaia di amanti attirati al largo. Ridono, ancora, i sassi nel fragore della schiuma.

    Un senso di mobile tenerezza abbraccia il golfo di Perros-Guirec inseguendo Julien e Michelle che camminano sottobraccio lungo la costa, stretti in un unico sguardo, fisso sulla vastità della Manica. Non pensano, i due ragazzi, ma dai pensieri si lasciano trasportare, come le pietre sul bagnasciuga. Un gabbiano li sorvola silenzioso, una nuvola ingentilisce di trine il cielo trasparente, la siepe di ortensie fa del suo meglio per completare il quadro con colori discreti.

    Un vecchio bretone ubriaco orina contro le sfumature violacee dei minuscoli petali.

    A Quimper Charles li aveva traditi. Guardando la vetrina di souvenir nel piccolo negozio sotto la cattedrale di Saint-Corentin aveva detto: Vi servirebbe una di quelle. E indicava con l’enfasi di un presentatore, la mano aperta e ondeggiante verso il vetro, una barchetta bianca e blu. La targhetta del prezzo non aveva pretese: 7 euro. A voi costerà un po’ di più, aveva aggiunto Charles. E si era messo a ridere. Julien no, non aveva mosso un muscolo del viso, lo sguardo vuoto, impegnato a evitare l’espressione dura e impaurita che il riflesso della vetrina gli ributtava addosso come una colpa. Fu Michelle, al solito, a tentare di stemperare la tensione, abbozzando un mezzo sorriso, più disperato che indulgente. L’importante è sbrigarsi, Charles, lo sai che ci stanno cercando, aveva detto a un certo punto Julien. Poi null’altro: non restava più molto tempo, nemmeno per le parole. Michelle non ne usò, solo assentì, una volta di più, scuotendo la chioma nera, fluente e agitata.

    Il bretone ubriaco conclude l’opera con un ultimo lascito indolente là dove le ortensie si ritraggono offese. L’occhio opaco non dimostra consapevolezza dell’atto di spregio, il dondolio della testa indica l’impotenza di gesti misurati, nel maremoto di un arduo equilibrio. Ma lo scatto improvviso del collo accende, verso destra, uno sguardo tutto a un tratto vigile e cattivo, che per una frazione di secondo inquadra perfettamente Julien e Michelle sullo sfondo del mare. L’uomo stringe le palpebre a fessura, come per acuire la vista. Poi i suoi occhi tornano a spegnersi. Julien e Michelle non si sono accorti di nulla.

    Hai notato che nessuno ci guarda?, aveva detto Michelle osservando con sollievo i passanti distratti e poi levando gli occhi verdi e profondi sulle imponenti e false facciate in stile XIX secolo del centro di Saint-Malo, ricostruite dopo i bombardamenti del ’44 con pervicacia imitativa. Siamo fantasmi veri in una città finta, aveva aggiunto.

    Volutamente Julien non aveva raccolto la prima domanda scegliendo di completare solo la seconda osservazione di Michelle: Certo, camminiamo in un labirinto di mura false. Ma questo qui, invece, è purissimo inizio Novecento!. E si era toccato la tasca destra dei pantaloni, con gesto tronfio e fanciullesco, sfiorando con le dita l’involucro all’origine dei loro guai. Risero assieme. Come capitava spesso. Anche nei momenti più sbagliati. Erano passati solo tredici giorni dal delitto di Quimper.

    I giovani amanti ora stanno perlustrando, palmo a palmo, il tratto di costa, aiutati dal benevolo sole di Bretagna che alle nove di sera ancora dispensa luce, poiché in quest’azzurro sterminato il suo motto è lo stesso del conestabile di Josselin, Olivier de Clisson: Faccio quello che mi pare.

    Julien, è come se fossi già in prigione, non sono più padrona della mia vita, dice Michelle, le belle labbra imbronciate come quando era bambina, ma oggi increspate da una preoccupazione ben più grave di un capriccio. Julien, io non ce la faccio più. Parole che si perdono tra i sassi: lui non ascolta, troppo impegnato ad aprirsi il varco tra siepi dove le ortensie cedono spazio a più ostili cespugli di rovi di more cresciuti a tradimento, mentre il sole decide improvvisamente di ritirarsi dietro una nube, negando ai due ragazzi gli ultimi raggi di speranza.

    Maledizione!. Michelle ha un soprassalto. Maledetto Charles! continua a imprecare Julien. Aveva promesso che la barca sarebbe stata qui, dietro questi stramaledetti rovi! Guarda, ho le mani piene di spine e della strafottuta barca neanche un remo! Non c’è! Non c’è niente qui per noi!.

    Michelle lo scruta, di nuovo calma e intenerita, così come si guarda un bambino. Infila tra le labbra una mora, poi alza lo sguardo alle spalle di Julien: niente e nessuno lì intorno, a parte loro due. Anche il bretone ubriaco è sparito.

    2. Julien e Michelle

    A Strasburgo avevano ancora tutto. Il viaggio era agli inizi, come il loro amore. Ma avveniva prima dei fatti di Quimper, molto prima che la loro vita andasse in frantumi in maniera irreparabile, come un’antica vetrata, e di certo allora Julien e Michelle non potevano sapere che avrebbero perso i pezzi della propria esistenza per strada, smarrendo anche se stessi, in una lunga fuga attraverso la Bretagna.

    Doveva essere una vacanza. Si erano conosciuti nel Café du Plaisir, in Place de la Cathédral. Lui sorseggiava un espresso all’italiana quando, alzando gli occhi al di sopra della tazzina, la vide: appoggiata al bancone, i capelli lunghi e neri le scendevano sulle spalle con disordine ricercato, in contrasto con l’eleganza del tailleur grigio, i tacchi alti non aggiungevano nulla al fascino indiscutibile delle gambe che la gonna abbondantemente sopra il ginocchio lasciava ammirare, gli occhi verdi e profondi dovevano aver già avuto innumerevoli chance di mostrarsi seducenti. Anche lei stava bevendo: Cointreau. Lui guardò l’orologio: mezzogiorno. Pensò che se quella era per lei l’ora adatta a un liquore, forse era anche il momento giusto per sentirsi rivolgere una domanda cretina.

    Difficile salire fin lassù?, chiese, indicando oltre l’ampia vetrata del Café la cima del torrione della gotica Cathédral de Notre-Dame de Strasbourg.

    Lei lo fissò senza parlare, ma lo sguardo improvvisamente diventò un fulmine verde, rivelando una consuetudine al saper ammaliare sicuramente sperimentata in molte altre occasioni.

    Se è riuscita a salire su quei tacchi, quegli scalini saranno uno scherzo..., aggiunse lui, sentendosi sfidato e in attesa di una replica cattiva. Lei, invece, rispose:

    Giusto. Possiamo provarci assieme.

    Non ebbe nemmeno il tempo di dire: D’accordo.

    Mi chiamo Michelle.

    Julien.

    Andiamo.

    Sull’ampia terrazza della cattedrale, Michelle si appoggiò sulla sua spalla per sfilarsi la scarpa destra.

    In effetti, Julien, questi tacchi non sono i più adatti per una scalata del genere. Ma l’importante, nella vita, è farcela. Sperando qualche volta in un miracolo.

    Lui non capì cosa volesse dire, era troppo impegnato ad aspirare il profumo dei capelli di Michelle, che il vento rendeva ancor più agitati di quanto non fossero naturalmente, spingendoli contro il suo viso di ragazzo con l’effetto di piccole, delicate frustate. Julien recuperò con uno sforzo solo l’ultima parola, non coscientemente ascoltata ma registrata dal suo cervello: pensò seriamente che quell’incontro con Michelle fosse un miracolo.

    Dall’alto del reciproco entusiasmo nel trovarsi a sessantasei metri di altezza sul panorama di Strasburgo, Julien e Michelle giocavano come bambini protesi sopra l’enorme plastico vivente della città, e correvano da un angolo all’altro del parapetto, per indovinare a est il Campus Universitario e, oltre il Parc de la Cittadelle, l’Europabrücke, il ponte verso la Germania, poi a ovest la stazione e dietro lo svincolo autostradale per Nancy, a sud l’Ospedale Civile e i quartieri degli immigrati, finché il loro sguardo non puntò dritto verso nord, attirato dalla sagoma imponente e glaciale del Parlamento Europeo.

    Lì puoi trovare gente importante, disse lui, inchinandosi cerimonioso.

    Michelle rise, per la prima volta da quando si erano incontrati. Julien non colse l’intento fuorviante di quella risata. Non poteva. Ma fu contento che l’effetto straniante dell’alcol mattutino stesse svanendo per lasciare il posto a una dolce arrendevolezza.

    Dove vuoi andare?, chiese Michelle, per proporre subito dopo: Scegli tre posti.

    Senza osare toccarla, con un cenno Julien invitò la ragazza a sporgersi verso il basso.

    Lì, lì e, stasera, lì, rispose. Sotto di loro un demone di pietra, in bilico su un pinnacolo, cercava un equilibrio tra il proprio ghigno mostruoso e quello che parve a entrambi un sorriso compiacente.

    Per desiderio di contrasto con le vette della cattedrale, come prima tappa scelsero di rivedere la città dal basso. Si ritrovarono così a passeggiare sottobraccio, come sarebbe diventata loro consuetudine, lungo le banchine dell’Ill, sotto il livello stradale dei quais, quasi a pelo d’acqua, passando sotto le basse arcate dei ponti dei santi Thomas, Guillaume, Etienne e sotto lo sguardo di tutti gli altri, i Beati, che affacciandosi a ogni angolo in forma di statua, iscrizione o bassorilievo, parevano ben disposti a benedire la nuova unione.

    Fa un altro effetto vista da qui, vero?, disse Julien contento dell’idea di essersi inventato Cicerone alternativo.

    Michelle, ancora una volta, non rispose: stava fissando i sacchi a pelo vuoti e abbandonati sotto i mattoni rossi delle volte dei ponti, accanto a bottiglie riverse, contenitori in alluminio con resti di pasti notturni, vicino a improvvisati stenditoi con panni e calzini appesi a un filo tirato tra un cespuglio e un chiodo piantato nel muro in chissà quale secolo.

    Hanno finito i lavori di casa e sono usciti a far la spesa, provò a scherzare Julien.

    Ecco i veri cittadini di Strasburgo disse solo dopo un po’ Michelle, seria. "Tutti gli altri, sopra i ponti, in cima ai palazzi, negli uffici sui grattacieli, negli attici, vivono sulle spalle di questi poveracci. Se non ci fossero questi barboni, non esisterebbero neanche loro, i re e figli di re in cima alle torri, come potrebbe, tutta questa gente, esibire ricchezza se non ci fossero i poveri? Per stare tanto in alto, i signori di Strasburgo hanno bisogno di qualcuno che all’inverso stia molto in basso, ai loro piedi, così possono schiacciarli, possono spingerli verso il fiume, verso l’acqua e le fogne...".

    A Julien quella tirata socio-filosofica parve fuori luogo, di clochard e derelitti non gli importava un accidente, affari loro, appartenevano a un mondo sconosciuto che tale, pensava, sarebbe rimasto ai suoi occhi, vedeva quei vagabondi come esseri disperati in fuga da tutto, mentre lui non sapeva ancora, nemmeno lontanamente, cosa volesse dire essere inseguiti.

    Julien, tu da dove vieni?.

    Annecy rispose pronto il giovane, ripensando senza nostalgia alla pulita, educata e irreprensibile cittadina lasciata in auto una settimana prima. Per un attimo, fissando distratto le correnti che mulinavano a ogni giro d’ansa in mezzo all’Ill, tornò anche con la mente al suo lago tra le montagne, dove lui, studente di buona famiglia borghese, si allenava in canoa nelle pause dalle lezioni e dagli appuntamenti con le ragazze, la mattina dopo le serate passate a bere al pub. Assicurò a se stesso che, nonostante le sue origini agiate, mai aveva guardato qualcuno dall’alto in basso, tanto meno aveva sentito il bisogno di schiacciarlo, spingerlo verso l’acqua, figuriamoci, e poi non c’erano mendicanti o sbandati lungo le rive del lago di Annecy, solo turisti. Julien raccontò tutto questo a Julien, ma non era sicuro che uno dei due non stesse mentendo. Poi spiegò, stavolta a Michelle, che aveva deciso di prendersi una vacanza, avvertendo il bisogno, l’unico suo bisogno, di mettersi in viaggio da solo. Per questo era partito sulla vecchia Citroën DS bianca, lo Squalo del ’75. Direzione nord, prima. E poi tutto a ovest, fin dove era possibile. Dove voleva arrivare? In Bretagna. Così aveva scelto, guardando la cartina geografica.

    E tu?.

    Michelle disse solo: Sono mezza tedesca. Vengo da là.

    E indicò vagamente in direzione dell’Europabrücke che la mattina avevano cercato di individuare dalla terrazza in cima alla cattedrale.

    Dove vuoi andare?.

    Ovunque.

    Perché?.

    Non saprei.

    Altro non aggiunse, e Julien si impedì di fare nuove domande: era il mistero di quella donna ad attirarlo e lo voleva preservare. Fu in quel momento che camminando lungo la banchina arrivarono di fronte a un muro dove, al di sopra di un mucchio di stracci abbandonati, qualcuno aveva scritto con un pennello rosso, a caratteri giganteschi:

    LA VIE EST UN MIRACLE

    Ecco la risposta a tutto, disse allora Michelle.

    L’avevo pensato anch’io, disse fra sé e sé Julien, riandando con la mente all’immagine tenera di lei che si sfilava la scarpa qualche ora prima, al termine della scalata della cattedrale. Ma non fece in tempo a elaborare la riflessione, dolce e seducente, perché da un angolo sbucò improvvisamente, come un burattino dinoccolato e fuori controllo, uno strano personaggio.

    Serve qualcosa?.

    Michelle fece un salto all’indietro. Julien, imitando uno dei tanti cavalieri medioevali visti in quei giorni raffigurati in dipinti e bassorilievi, le si parò davanti in maniera ridicola, per difenderla dall’inaspettato pericolo.

    Il mio nome è Charles, disse il burattino. Qualunque cosa vi serva, io ce l’ho, ribadì e la frase apparve come uno slogan già collaudato.

    Cocaina, eroina o anche, nell’ipotesi più economica, hashish, era quanto Charles era in grado di offrire seduta stante. Ma con una ragionevole aggiunta di tempo, e denaro, non gli sarebbe stato difficile procurare loro, sempre che ne avessero bisogno, un paio di sacchi a pelo puliti e uno spiazzo sicuro sotto uno di quei ponti, naturalmente contrattato con gli altri inquilini del momento, con l’assoluta garanzia che nessuno li avrebbe disturbati. Oppure, visto che questa gran dama in tailleur sarà abituata ad avere il meglio, anche la segnalazione di un buon albergo ad ancor miglior prezzo. O anche, non si sa mai, un coltello, un’auto, una guardia del corpo discreta ma efficiente. Perfino, dipende dal prezzo, un documento falso.

    Io risolvo problemi, concluse, per meglio spiegarsi, Charles, prendendo in prestito la battuta da un qualche film. E intanto muoveva le gambe magre inguainate in jeans neri e borchiati, senza riuscire a controllare il simultaneo agitarsi delle spalle ossute nascoste dal giubbotto di camoscio. Il pizzetto biondastro appeso al mento puntuto, anch’esso in perenne movimento, esigeva da quei due una risposta, che non tardò.

    Grazie, non ci occorre niente, disse Julien, più infastidito dal fatto che quella marionetta stesse catalizzando l’attenzione di Michelle che dalle sue stesse proposte irricevibili.

    Charles si rese conto che non c’era verso di combinare affari. Ma siccome era uno che difficilmente mollava la presa, estrasse dal marsupio un foglietto di quaderno stropicciato e lo porse ai due.

    Ecco il mio numero di cellulare, non perdetelo, intimò, con l’aria di chi offre un regalo prezioso a chi non può capirne il valore. Julien tenne ostentatamente i pugni prigionieri delle tasche. Ma non servì a nulla, perché vide Michelle tendere la mano, prendere il pezzo di carta e infilarlo nella borsa.

    Grazie, la sentì aggiungere. E quando ebbe finito di fissarla negli occhi con un interrogativo inespresso, si accorse che Charles era sparito.

    La seconda tappa del loro tour cittadino fu più rilassante: il Giardino Botanico. Dalla cima della cattedrale avevano intravisto quella macchia di verde a nord-est. Il colore dei tuoi occhi, aveva detto Julien, dandosi del cretino nel constatare che il complimento aveva suscitato la stessa attenzione di una folata di vento. Ma quando varcarono la cancellata in stile liberty, la concentrazione di Michelle su quanto la circondava improvvisamente si acuì, fino a diventare ammirazione incondizionata per quanto lontano fosse, quel posto, da qualunque segno di presenza umana.

    Non c’è molta gente, vero?, disse Julien, più incolto di un campo di sterpaglie nel scegliere il momento in cui scherzare. Lei lo zittì con un cenno delle belle labbra increspate e lo prese per mano.

    Il Giardino era suddiviso in quartieri botanici, a seconda del tipo di pianta

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