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Come il grano a giugno
Come il grano a giugno
Come il grano a giugno
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Come il grano a giugno

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Come il grano a giugno è la storia di un gruppo di amici. Libero, Anna, Fabio, Davide e Luciano vivono la loro infanzia in provincia, nella Romagna degli anni Trenta. Per loro i venti di guerra che già si addensano sull’Europa sono lontani. La loro guerra personale è legata ai giochi dell’infanzia e alla piccola realtà di paese che li circonda. Crescendo, la vita li allontanerà. La guerra, quella vera, vedrà gli amici di un tempo combattere su fronti opposti. Per un beffardo gioco del destino, tutto finisce nei luoghi della loro infanzia, tra le macerie di una nazione devastata.
Un’epica sommessa, che nasce da cose semplici, da vicende comuni, nella quale ogni personaggio assurge a un ruolo emblematico, quasi simbolico.
I personaggi del romanzo sono di fantasia, ma sono ispirati a persone realmente esistite e le vicende di ognuno sono il frutto di un’appassionata ricerca storica dell’autore, che qui ci presenta un’affascinante epopea italiana, di guerra, di amicizia, di amore, dallo spiccato taglio cinematografico.
LanguageItaliano
Release dateApr 6, 2013
ISBN9788861555266
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    Come il grano a giugno - Alessandro de Francesco

    COME IL GRANO

    A GIUGNO

    ALESSANDRO DE FRANCESCO

    Collana Uplit n. 7

    Copyright © 2013 Giraldi Editore

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

    info@giraldieditore.it

    www.giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-526-6

    Proprietà letteraria riservata

    © 2013

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    In copertina:

    immagine tratta dal sito internet http://www.opartigiano.it/resistenza.htm

    PRIMA PARTE

    Giovinezza

    1.

    Giugno 1931

    Libero camminava con lo sguardo basso accanto alla madre. Lei procedeva con passo veloce e, tenendo il figlio per mano, sembrava che se lo trascinasse dietro. Non si dissero quasi niente per tutto il tragitto. Da oltre un anno era ormai consuetudine che tutte le domeniche il bambino accompagnasse la madre a pregare presso la madonnina. Questa si ergeva sul bivio verso Imola, neanche a un chilometro di distanza da casa loro. Quel giorno, però, Libero pensò fosse una bella giornata per stare all’aria aperta. Il cielo era di un azzurro intenso e il rumore delle cicale dava l’illusione di essere già in estate inoltrata. Camminando, alzò gli occhi e guardò verso i frutteti. Subito la sua attenzione fu catturata da un gatto in mezzo a un prato. Lo vide dare la caccia a qualche piccola preda, forse un topo, o una lucertola. Si rese conto che, piuttosto che accompagnare sua madre, avrebbe preferito cominciare a correre in quel mare verde che costeggiava la strada. Si sentì quasi in colpa per questo.

    Arrivati davanti alla madonnina, la donna lasciò la presa dalla sua mano e s’inginocchiò. Lui la imitò. La madre cominciò a pregare in silenzio, poi si mise a sistemare il piccolo mazzo di fiori che aveva portato con sé. Lo mise nel vaso appena sotto l’immagine della Madonna e vi pose vicino la foto del figlio primogenito. Libero alzò lo sguardo e si accorse che la madre aveva gli occhi lucidi. Non era una novità.

    Era da più di un anno che Primo, il figlio maggiore dei Guerrazzi, era stato dato per disperso in Libia. Giuseppina, la madre, non aveva ancora perso le speranze e per questo andava tutte le domeniche a invocare la Madonna. Spesso si tirava dietro il piccolo Libero per alleviare la prostrazione e il senso di solitudine che provava in quella situazione.

    Il padre, Olindo, disertava costantemente quel pellegrinaggio. Non era credente e, soprattutto, aveva capito che disperso voleva dire morto. Lui aveva combattuto sul Piave nella Grande Guerra e, a differenza della moglie, era avvezzo al linguaggio militare. Sapeva che, per quanto riguardava la stragrande maggioranza dei dispersi, si trattava semplicemente di morti di cui non si era più trovato il cadavere.

    In famiglia, il dolore per quella tragedia scorreva sotterraneo. In superficie tutti continuavano a condurre la propria vita come se niente fosse. Ognuno aveva trovato un proprio modo di rimuovere o di convivere con quel dramma. Quando il maresciallo dei carabinieri si era recato a casa Guerrazzi per comunicare la notizia alla famiglia, Libero aveva otto anni. I suoi ricordi più nitidi di quel giorno riguardavano la reazione dei genitori. Non vi furono scenate, ma fu come se una pesante cappa di dolore fosse piombata sulla casa e i suoi occupanti. Nelle settimane successive, non era raro che Libero, svegliatosi nel cuore della notte, sentisse il pianto sommesso della madre provenire dall’altra stanza.

    Primo mancava da casa da quasi tre anni. I ricordi di Libero, col tempo, si erano affievoliti. L’immagine mentale che lui conservava del fratello era, più che altro, legata alla sua foto in divisa coloniale che la madre aveva posto sotto l’icona della Vergine. Era stata scattata nel febbraio del ’29, appena prima della partenza del giovane per quella che ufficialmente non era neanche una guerra.

    Giuseppina, dopo aver passato sotto la madonnina alcuni minuti, si fece il segno della croce, riprese il figlioletto per mano e tornò sui propri passi. Mentre camminavano verso casa, Libero sentì crescere dentro di sé un senso di sollievo. Per lui il risvolto peggiore della giornata era superato e l’attendeva il pranzo domenicale. Il giorno prima si era fatto aiutare da uno dei fratelli a finire i compiti, quindi sapeva già che, dopo mangiato, avrebbe raggiunto gli altri giù al fiume. La primavera accentuava il suo desiderio di evasione.

    Quando arrivò nel cortile della cascina, si diresse correndo verso le scale esterne che portavano al piano superiore. Entrando vide il padre. Era seduto al tavolo, intento a leggere il giornale con il mozzicone di un toscano tra le dita. L’uomo alzò lo sguardo: – Siete già qui?

    Libero sorrise e, senza dire niente, rimase speranzoso a guardarlo. Il padre fece finta di niente, si accarezzò i baffi e poi, con atteggiamento solenne, si mise una mano in tasca e ne tirò fuori una moneta. Il bambino sgranò gli occhi e fece il gesto di prenderla. L’uomo la ritrasse con fare burbero: – Però non fare come l’ultima volta.

    – Giuro, – fece Libero, incrociando le dita davanti alla bocca.

    – Toh, prendi.

    Lui afferrò la moneta e corse via ridendo. In quel momento entrò Giuseppina. Il marito la guardò e non disse nulla. Lei sospirò e poi sussurrò: – Tra un attimo preparo.

    – Non c’è fretta.

    Lei non replicò e si mise il grembiule.

    All’improvviso, si sentì una voce provenire dal cortile: – Guerrazzi!

    Dall’inconfondibile accento siciliano, Olindo riconobbe Li Causi, il maresciallo dei carabinieri, e alzò gli occhi al cielo: – Ch’u t’vègna un azidènt!

    Giuseppina ebbe un sussulto e si precipitò a girare il quadretto che era appeso accanto all’entrata. L’immagine di Matteotti lasciò il posto al suo rovescio, una foto ufficiale di Vittorio Emanuele III.

    Il maresciallo scostò la tendina e chiese con uno strano ghigno: – È permesso? – e poi, voltandosi indietro verso il carabiniere che lo accompagnava, – tu aspetta fuori.

    – Prego, maresciallo. Lei è sempre il benvenuto, – biascicò Olindo, con aria scocciata.

    – Allora, Guerrazzi, come andiamo?

    – Bene, Maresciallo.

    – Ah. E come la mettiamo allora?

    – Come la mettiamo cosa?

    – Come la mettiamo con tutte queste segnalazioni?

    Il padrone di casa alzò le spalle e scrollò la cenere del proprio sigaro: – Non so di cosa parla.

    – Ah, no? Non sai di cosa parlo? Prima di tutto mi stai dando del lei

    – Se vuole, le posso anche dare del tu.

    Il militare sospirò e si sedette: – Facciamo poco gli spiritosi qua. Ma me lo dici come devo fare con te? Non riesci proprio a mettere la testa a posto, eh?

    Olindo guardò Giuseppina: – Lasciaci, su.

    Lei uscì dalla stanza e andò verso la camera da letto con dei panni da sistemare. Intanto Libero, incuriosito dall’arrivo dei militari, era tornato sui suoi passi e si era messo ad ascoltare quello che dicevano i grandi da dietro la porta che dava sul terrazzo.

    Il maresciallo Li Causi si tolse il cappello e si passò una mano sui capelli impomatati: – Non ti sono bastate le botte che ti hanno dato all’epoca? E tutto quell’olio di ricino, suvvia.

    – E voi carabinieri dove eravate quando i fascisti ci facevano visita?

    – Facevamo il nostro dovere.

    – Il vostro dovere sarebbe stato quello di difenderci.

    Libero non capiva tutto quello che sentiva, ma in genere i discorsi degli adulti lo incuriosivano.

    Il maresciallo sembrò alterarsi: – Allora, la vogliamo finire, sì o no?

    Olindo continuò con grande flemma: – È inutile che fa la commedia con me, signor maresciallo. So come la pensa.

    – E come la penso? Sentiamo un po’.

    – Non piacciono neanche a lei i fascisti. Lo sanno tutti in paese. E la cosa bella è che lo sanno anche i fascisti.

    – Guerrazzi, tu vaneggi, – disse il siciliano, cercando di mascherare un sorriso, – la mia divisa m’impone di non avere simpatie o antipatie.

    – Sapete cosa dicono di voi? Che eravate a Sarzana…

    Era tale l’avversione di Li Causi per i fascisti, che in paese erano cominciate a girare molte leggende. La più diffusa era quella secondo cui, prima di essere trasferito a Imola, il maresciallo avesse prestato servizio a Sarzana. La cittadina ligure era famosa, infatti, per esser stata teatro di un duro scontro tra i carabinieri e gli squadristi di Dumini nel luglio del ‘21. Tuttavia la diceria sulla presenza di Li Causi non venne mai confermata dal diretto interessato. Olindo aveva sempre sospettato che fosse una storia infondata, ma non mancava di stuzzicare il maresciallo ogni volta che gli si presentava l’occasione.

    – Basta con queste storie. L’unica cosa che tu ti devi ficcare in testa è che io devo far rispettare la legge e, se la legge è una legge fascista, non me ne fotte ‘na minchia. Se ti dico che devi cominciare a tenere la bocca chiusa in paese, vuol dire che devi tenere la bocca chiusa. Mi hai sentito? Ti sbatto dentro, sai?

    Libero fu distratto da una voce che lo chiamava dalla strada. Si girò e vide Anna che gli faceva segno di scendere. Il bambino scattò in piedi e, scendendo le scale, passò così velocemente accanto al carabiniere che era rimasto fuori, che quasi gli fece perdere l’equilibrio. L’uomo imprecò e poi fece un gesto come a volerlo mandare a quel paese.

    Quando fu vicino ad Anna, lei chiese sottovoce: – Cosa vogliono le guardie?

    – Mah, niente di particolare. Le solite cose.

    – Si va giù al fiume dopo? Fabio dice che è meglio che ci andiamo tutti.

    – Perché?

    – Non so.

    – Dopo mangiato ci vengo di sicuro, – la rassicurò Libero.

    – Si va assieme?

    Libero si sentì elettrizzato da quella richiesta. A lui era sempre piaciuta Anna, ma spesso si sentiva impacciato di fronte a lei. Esitò qualche istante prima di ribattere: – Quando ho finito di mangiare, se vuoi, ti vengo a chiamare.

    – Allora t’aspetto. Basta che bussi.

    Si sorrisero e poi lei tornò verso la porta di casa sua.

    Anna aveva quasi un anno in meno di Libero e abitava alla cascina da un paio di anni. La madre era una vedova molto riservata. Non si sapeva molto della loro vita precedente, eccetto che venivano da un paesino sul versante toscano di quel tratto d’Appennino. I due bambini avevano fatto amicizia quasi subito e da un po’ di tempo avevano cominciato a far coppia fissa. Nonostante ciò, Libero continuava a sentirsi imbarazzato quando restavano soli. In realtà, era timido solo con lei. In genere tendeva a essere un bambino disinvolto e allegro.

    Libero rientrò raggiante nel cortiletto interno e si fermò ad accarezzare Palì, il vecchio bracco del padre. Ormai era troppo vecchio per la caccia e Olindo lo teneva sempre in cortile, sperando che facesse la guardia a casa. Il ragazzino lo considerava un membro della famiglia e passava molto tempo a giocarci. Dopo averlo accarezzato per qualche minuto, si alzò, prese un secchio pieno d’acqua e riempì la ciotola del vecchio cane. Stava per salire le scale, quando si fermò a guardare il carabiniere che stava aspettando il maresciallo.

    Il militare, che si stava rullando una sigaretta appoggiato al muro, si accorse di essere osservato: – Beh? Che c’hai da guardare te?

    – Mi fai vedere il fucile?

    Il carabiniere si mise la sigaretta in bocca e si aggiustò la cinghia del moschetto che aveva in spalla: – No.

    – Perché no?

    – Non è mica un giocattolo. Levati di torno, – e si accese la sigaretta.

    – Ma ti fanno sparare?

    – Solo ai bambini che fanno troppe domande.

    Libero non riuscì a trattenere un sorriso: – Da grande voglio anch’io un fucile.

    – Sì? E cosa ci devi fare?

    – Sparare ai carabinieri che non vogliono farmi vedere il loro fucile.

    Il giovane rise di gusto: – Beh, se vai a fare il balilla, prima o poi un moschetto te lo danno.

    – Mio babbo non mi ci manda.

    – Dove? A fare il balilla?

    – Dice che sono tutte buffonate.

    Il carabiniere alzò le spalle, tossendo per il fumo della sigaretta. In quel momento uscì il maresciallo e cominciò a scendere le scale. Olindo lo accompagnò fin sul terrazzo e si appoggiò alla ringhiera.

    Appena vide il padre, Libero cominciò a saltellare urlando: – Babbo, babbo. Da grande voglio fare il carabiniere.

    – A legnate ti faccio passare la voglia, – ribatté Olindo. Li Causi si voltò di scatto a guardarlo e lui aggiunse, con sarcasmo: – È un lavoro troppo pericoloso.

    Il maresciallo scosse la testa: – Viene il giorno che ti sbatto dentro, Guerrazzi.

    Il bambino rincarò la dose: – Allora faccio il prete.

    Il padre spalancò le braccia: – Allora è meglio che fai il carabiniere.

    Il maresciallo diede una pacca sulla spalla del sottoposto: – Andiamo, Galliani… prima che mi venga voglia di sbattere qualcuno al fresco, – poi si rivolse a Olindo, – e te, Guerrazzi, non scordare quello che ti ho detto prima.

    – Come sempre, maresciallo.

    – Sì, sì…

    Un paio di ore dopo Libero bussò alla porta di Anna, ma si rese conto che era aperta. Entrò con circospezione: – È permesso?

    La ragazzina rispose dalla stanza accanto: – Vieni. Sono di qua. La mi’ mamma è uscita.

    Lui la raggiunse e vide che era davanti allo specchio che si provava un cappellino della madre. Su di lei era enorme e questo suscitò una certa ilarità in Libero.

    – Come mi sta? – chiese Anna, mettendosi in posa.

    – Mi sembri una signora.

    – La mi’ mamma lo mette nelle occasioni particolari, – poi si allontanò dallo specchio e s’infilò anche le scarpe della madre, – va portato con queste.

    Libero la guardò tornare davanti allo specchio trascinandosi in quelle grandi e lucide scarpe nere e la trovò molto buffa. La vide, però, così compiaciuta che se lo tenne per sé. Si trattenne qualche minuto e poi sbottò: – Però adesso andiamo. Gli altri ci staranno aspettando.

    Anna, senza replicare, ripose il cappellino e si tolse le scarpe. Un attimo dopo, uscirono correndo dalla porta di casa, diretti al fiume.

    Quando furono in prossimità del sentiero che costeggiava il corso d’acqua, videro Fabio che li attendeva nel loro abituale luogo di ritrovo. Si trattava di un piccolo spiazzo vicino alla sponda sinistra del Santerno, dove spiccava una grande quercia secolare. Il ragazzo, aspettandoli, ciondolava le gambe seduto su un grosso ramo spezzato. Aveva ancora addosso la divisa da balilla e aveva un’aria molto seria. Libero vide che di fianco a lui c’era Attilio. Quando fu a breve distanza, si accorse che quest’ultimo aveva un livido sotto l’occhio destro: – Os-cia, che botta che hai preso.

    – Ma che t’è successo? – chiese Anna.

    Fabio anticipò l’amico, rispondendo al suo posto: – Sono stati quelli del molino.

    – Bròti faz! – esclamò Libero.

    – Ma com’è stato? – domandò Anna.

    Attilio non fece di nuovo tempo a rispondere. Fabio esclamò: – Hanno detto che dobbiamo stare lontani dalla loro diga.

    – Hanno detto che ci fracassano di botte se osiamo invadere il loro territorio, – confermò Attilio.

    – Bisogna dargli una lezione, – sentenziò Fabio.

    Fabio era il più vecchio della combriccola. Aveva un anno più di Libero, ma il suo aspetto atletico lo faceva sembrare ancora più grande. Aveva la tendenza a sentirsi il leader e, spesso, gli altri finivano per considerarlo tale. Era figlio di Baldini, il barista del paese, che a tempo perso era anche capo-manipolo della milizia. Attilio, invece, era il più riservato. Parlava poco e ancor meno si sapeva di lui, a parte che, come Libero, era figlio di mezzadri.

    Vedendo giungere anche i due fratelli Bertozzi, il balilla ironizzò: – Arrivano anche Bibì e Bibò.

    Paolo e Italo Bertozzi, infatti, erano spesso oggetto di scherno perché molto impacciati ed entrambi in sovrappeso. Tutti risero anche a quell’ultima battuta di Fabio.

    Poco dopo videro comparire il piccolo Davide. Quest’ultimo era figlio di un insegnante ed era sempre il meglio vestito e il più educato. Si era trasferito dal Meridione con la famiglia alcuni anni prima, quando suo padre ebbe la cattedra in una scuola di Imola. Il suo modo di parlare, colto e privo dell’accento romagnolo, gli aveva in principio attirato la diffidenza dei coetanei. Solo nel corso del tempo era riuscito a integrarsi e, anzi, a diventare uno dei trascinatori della combriccola.

    – Direi che ci siamo tutti, – disse Fabio.

    – Te dici che vuoi dare una lezione a quelli del molino… prima di tutto sono più di noi e poi sono più grandi, – fece notare Libero.

    – Me ne frego! Non possiamo lasciare che la passino liscia, – e con uno scatto scese dal tronco e si avvicinò agli altri.

    – Secondo me rimediamo solo un sacco di legnate, – insistette Libero.

    – Se non avete il coraggio, ci vado anche da solo.

    – Non ha senso, – s’intromise Davide, aggiustandosi gli occhiali.

    Lui era il più piccolo d’età. Aveva un anno meno di Libero, ma il suo aspetto gracile e la sua bassa statura lo facevano sembrare ancora più giovane. Era, però, considerato il più scaltro. Di solito era quello che aveva sempre una risposta a tutto.

    Gli altri si voltarono tutti a guardarlo e lui proseguì: – Andare allo sbaraglio non ha senso.

    – Dov’è ’sto posto? – chiese sottovoce Anna ad Attilio.

    – Quale posto?

    Sbavaglio!

    Attilio scrollò la testa e tornò con l’attenzione alle parole di Davide.

    Anna, oltre a essere piccola d’età, era sempre vista come l’anello debole del gruppo. Anche per lei, l’accento forestiero rappresentava, agli occhi degli altri ragazzini, un’anomalia. Non era raro che alcuni, addirittura, fossero colti da ilarità nel sentire il suo marcato accento toscano. Talvolta, soprattutto in assenza di Davide, alcuni cominciavano a parlare in dialetto, incuranti del fatto che lei non capisse, e questo le suscitava un senso quasi di umiliazione. Era inevitabile che, in quanto femmina, finisse spesso per essere zittita o esclusa. Soltanto Libero e Davide si sforzavano di coinvolgerla.

    – Se vogliamo dargli veramente una lezione, dobbiamo organizzarci, – fece Davide, proseguendo nella sua arringa.

    – Come un esercito, – sottolineò con entusiasmo Fabio.

    – Esatto. Dobbiamo procurarci le armi e darci un’organizzazione.

    – Parli come un grande, – disse con ammirazione Attilio.

    – Innanzitutto dobbiamo mettere da parte una grande quantità di sassi…

    – Io ho anche la fionda, – disse Italo, frugandosi le tasche.

    – Bene. Te e tuo fratello sarete l’artiglieria, – sancì Davide, – e noi andremo all’attacco.

    – Però comando io, – disse Fabio.

    – Va bene, basta che fai quello che dico io.

    – E cosa dobbiamo fare?

    – Dopo che ci siamo procurati le armi, dobbiamo studiare un piano.

    – Gli facciamo un’imboscata, – disse con enfasi Attilio.

    – Esatto.

    – Però siamo lo stesso pochi, – ribadì Libero.

    – Non conosciamo nessuno che può aiutarci? – chiese Fabio, guardando uno a uno i compagni.

    Anna cominciava a sentirsi esclusa: – Io che faccio?

    – Le donne non fanno la guerra, – disse sprezzante Fabio.

    – Voglio fare la guerra anch’io.

    – Questa volta no, – disse Libero, – se ti prendono, quelli del molino ti riempiono di botte.

    Anna fece un’espressione che preannunciava una crisi di pianto.

    Davide cercò di tranquillizzarla: – Beh, tu puoi stare in retroguardia e fare la vedetta.

    Il viso di lei si rasserenò.

    – Dobbiamo trovare alleati, – continuò Libero.

    Attilio si affrettò a dire: – Posso portare mio fratello.

    Fabio lo spintonò: – Ma dai, ha solo sette anni. Un moccioso.

    – Beh, ha solo un anno meno di Davide.

    – Uno e mezzo, – precisò questi.

    Fabio si mise in posa con le mani sulla cintura: – Meglio pochi ma buoni!

    Stava imitando il padre. Questi, in passato, si era spesso reso ridicolo agli occhi di tutti in paese, assumendo le posture tipiche del Duce. La gente aveva smesso di ridere di lui solo quando l’uomo era diventato capo-manipolo.

    Libero ci pensò su un attimo e poi se ne uscì: – Ci sarebbe Luciano…

    – Chi?

    – Luciano. Lui sì che è grande.

    – Ma chi è? – chiesero gli altri all’unisono.

    – Il figlio di quelli ricchi, dai. Quelli che stanno nella villa vicino a casa nostra, verso Imola.

    – La villa grande?

    – Sì. Possiamo chiederlo a lui, no?

    – È figlio di signori. Non me lo vedo fare la guerra con noi, – lo scoraggiò Attilio, – e poi che fai? Vai da lui che non ci conosce e lo convinci così come se niente fosse?

    – Ma io lo conosco, – rivelò Libero, – mio babbo ha fatto dei lavori per loro. Sono stato anche alla villa.

    Davide riprese le redini della situazione: – D’accordo così… ci troviamo tra un’ora qui. Tu, Italo, raccogli i sassi con tuo fratello e Attilio. Te Libero vai a parlare con questo Luciano e io e Fabio andiamo in avanscoperta a vedere se quelli del molino sono ancora alla diga.

    – E io? – chiese Anna.

    – Tu…

    Fabio ironizzò: – Adesso anche le donne vogliono fare la guerra.

    Anna raccolse un sasso da terra e glielo scagliò contro con tutte le forze che aveva in corpo. Il balilla lo evitò e urlò: – Oh! Ma che fai?

    – Te le lèo io le zecche di dòsso! – gridò la bambina, marcando l’accento toscano, come le capitava spesso quando si alterava, – non è difficile tirare sassi. E fanno male uguale.

    – Ha ragione – disse Davide, cercando di chiudere l’incidente, – tu, Anna, vai insieme a Libero a parlare con il tipo della villa. Ci troviamo qui tra un’ora.

    Libero, Anna e Luciano arrivarono in ritardo all’appuntamento. La madre di quest’ultimo aveva offerto dei dolci ai bambini e loro non avevano resistito alla tentazione. Appena si erano resi conto di essere in ritardo, erano corsi verso il luogo di ritrovo della combriccola e avevano trovato gli altri già tutti radunati.

    Nel vederli arrivare, Fabio allargò le braccia insofferente: – Siv arivé. L’era ora.

    – Lui è Luciano, – esclamò Libero.

    A turno tutti si presentarono. I ragazzini cominciarono a squadrare dall’alto in basso il nuovo venuto. Per i loro canoni, era molto ben vestito e aveva dei modi di fare aristocratici.

    – Libero mi ha detto del vostro problema, – disse lui, in un italiano privo di una qualsiasi inflessione regionale.

    – Os-cia, che damerino, – sussurrò Fabio. Poi, alzando il tono di voce, aggiunse: – Dobbiamo dare una lezione a quelli del molino. Credono di essere i padroni del fiume. Guarda cos’hanno fatto al nostro amico, – e indicò Attilio.

    – Sei dei nostri? – chiese Davide.

    – Certo.

    – Bene. Ora vi spiego quello che dobbiamo fare. Io e Fabio siamo andati a vedere di nascosto se erano ancora tutti alla diga e ne abbiamo visti quasi una decina.

    Gli altri si guardarono in faccia e Libero disse: – Vigliaca. J è tropp.

    – Non è il numero che conta, – lo rimbrottò Davide.

    – E come pensi di batterli?

    – È semplice. Dobbiamo costringerli a salire sul ponticello e attaccarli quando sono più esposti.

    Luciano alzò un sopracciglio, senza dire nulla.

    Gli altri pendevano dalle labbra di Davide e questi proseguì: – Quando saranno sul ponticello dobbiamo tirargli una valanga di sassi e costringerli a ritirarsi. E ci prendiamo la diga.

    – Mi piace la tua idea, – disse Luciano, – ma come facciamo a farli salire sul ponte di cui parli?

    – Ci vuole un’esca.

    – Un’esca? – fecero in coro gli altri.

    – Sì. Due di noi devono andare lì, farsi vedere e farsi inseguire oltre il ponte, – spiegò Davide.

    – E chi fa l’esca? – disse impaurito Attilio.

    – Facciamo la conta.

    Un quarto d’ora dopo Attilio e Libero uscirono tentennanti dai cespugli vicino al ponticello, dov’erano quelli del molino. Guardarono spaesati verso i ragazzi al di là del fiume e Attilio disse: – E adès? Ch’sa fègna?

    – Boh. Va tè.

    – No, no. Va pu tè.

    Libero lo spintonò: – Cago’!

    Attilio gli ridiede la spinta e stavano quasi per azzuffarsi quando gli avversari li videro. Sul principio questi rimasero perplessi, poi Attilio cominciò a scappare e Libero lo imitò. Quelli del molino non si mossero di un palmo e si limitarono a lanciare un paio di sassi e qualche imprecazione.

    Da dietro i cespugli, tutti si voltarono a guardare Davide.

    Anna chiese con candore: – E adesso?

    Davide rimase senza parole. Era costernato. Non riusciva a capacitarsi che il suo piano fosse andato in fumo in un istante.

    – Adesso si fa come dico io, – disse il balilla, alzandosi in piedi, – ora andiamo là e gli spacchiamo la faccia. Seguitemi!

    Nessuno lo seguì. Tutti rimasero a guardarlo correre verso il fiume e fermarsi a tirare i suoi sassi verso i nemici. Due di questi, attraversato il ponticello, gli andarono incontro e in breve si arrivò al corpo a corpo. A quel punto Davide si alzò e urlò: – Aiutiamolo o lo ammazzano di botte.

    – Ha ragione, – disse Libero.

    Uscirono tutti dal loro nascondiglio e cominciarono a tirare i sassi verso quelli del molino. Si accese una zuffa furibonda nei pressi del ponticello, ma quasi subito alcuni della combriccola cominciarono a scappare doloranti e impauriti. I primi ad alzare bandiera bianca furono Italo e Paolo, che scapparono indietro verso i cespugli. La lotta si affievolì e quelli del molino sembrarono prevalere. Fabio, Libero e Luciano tennero duro, ma gli altri cominciarono a indietreggiare. Libero urlò: – Via! A què a glié ciapè e basta!

    Anche gli ultimi eroi si ritirarono mestamente, bersagliati dai sassi e coperti dagli insulti degli avversari. La ritirata si fermò tra i cespugli, a qualche decina di metri dal ponticello, dove quelli del molino non osavano avventurarsi. Di Italo, Paolo e Attilio si era persa ogni traccia.

    – Codardi, – disse rabbioso Fabio.

    – Zitto un po’, – fece Libero. Si misero ad ascoltare e, nonostante il rumore del fiume, sentirono distintamente la voce di Anna. Sembrava arrivare da giù, in direzione della sponda ghiaiosa.

    – Andiamo a vedere, – disse Davide.

    Uscirono dai cespugli e videro un paio di quelli del molino che avevano catturato Anna e la strattonavano urlandole in faccia. Libero riconobbe uno dei due. Era Faichèt.

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