Io sono Bianca
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Bianca non è sempre stata Bianca: «Il mio nome di prima» dice, «deriva dall'aramaico. In aramaico si dice aqab, che significa soppiantare. E soppiantare è stretto parente di usurpare. Ed io ero usurpata ancor prima che nel nome nel mio corpo e nella mia anima».
«Volevo un nome che fosse mio, tutto mio, e così sono diventata Bianca. Bianca come la luna, Bianca l’innocente, Bianca la candida. Bianca la splendente».
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Book preview
Io sono Bianca - Giorgio PCA Mameli
Giorgio PCA Mameli
IO SONO BIANCA
Collana: Uplit
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.
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ISBN 978-88-6155-794-9
Proprietà letteraria riservata
© Giraldi Editore, 2019
Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo
Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.
Quando una donna cade così in basso è finita,
non può più riprendersi.
Somerset Maugham
1
Il trillo del campanello non mi sorprese. Sapevo chi suonava alla porta. La stavo aspettando. Diedi un’occhiata all’orologio e notai che era arrivata con qualche minuto d’anticipo. «Buon segno» mi dissi.
Quindi chiusi il libro che stavo leggendo, Linea d’ombra di Joseph Conrad. Ogni volta che rileggo quelle pagine trovo qualche cosa di nuovo e di utile per il mio lavoro, ma non solo. Ne accarezzai la copertina, come sempre faccio quando ripongo un libro, e lo misi in cima alla piccola pila di volumi che tengo ordinatamente nell’angolo alto di destra del grande tavolo che mi fa da scrivania. I libri mi piacciono. Mi piacciono tanto, tanto quanto i cavalli, sono amici generosi. Entrambi hanno molto da dire, parlano con un filo di voce e mi lasciano la libertà di decidere quale lezione voglio imparare. Per questo i libri e i cavalli mi piacciono tanto.
Il campanello suonò ancora, allora mi alzai e andai ad aprire.
«Buona sera dottore, come stanno i suoi picchiatelli?»
«Bene, signora Bianca, grazie» risposi e subito aggiunsi: «Si accomodi» e con la mano sinistra le indicai il corridoio che porta alla stanza che mi fa da studio. Mentre Bianca mi precedeva non potei fare a meno di osservare ancora la sua figura. E lo feci con maggior attenzione rispetto alla volta precedente. Bianca è alta una buona spanna più di me e quindi ad occhio e croce deve essere quasi sul metro e ottanta. Magari non proprio ma ci si avvicina molto. Ha meravigliosi capelli castani, setosi, che le arrivano a oltre metà della schiena. E poi anche un bel fisico: asciutto e slanciato. Intuisco glutei ben modellati, alti e sodi, ma delle gambe non posso dire niente, perché sia quella volta che nel precedente appuntamento, si era presentata con una gonna a campana che le arrivava quasi alla caviglia, stretta in vita e larga sul fondo. L’unica considerazione che si poteva fare era che davano l’idea di essere assai lunghe.
Calzava stivali senza tacco, scamosciati che, all’altezza del malleolo, facevano qualche morbida piega, quasi a fisarmonica. Mi venne di pensare che la parte alta del gambale fosse più larga di quella bassa e che gli stivali assomigliassero in qualche modo a quelli che i pirati indossano nei film. In un lampo mi tornarono alla mente alcune scene di arrembaggio. Allora sorrisi, tra me e me, rivedendomi dondolare appeso ad una grossa corda che mio nonno aveva fatto scendere da un ramo del noce che stava davanti alla sua casa di campagna mentre gridavo: All’arrembaggio miei prodi
.
Bianca non poteva vedermi, ero alle sue spalle, il corridoio che conduce dalla piccola sala d’attesa al mio studio è stretto e non consente che il passaggio di una sola persona per volta.
Insomma, non potei trattenermi dal guardarla bene e provare anche quel tanto che basta di invidia. Io sono un po’ tracagnotto, giusto per usare un eufemismo. Sono basso, cicciottello e con in testa una bella chierica che si sta allargando ogni giorno di più. Mi consolai pensando che lei è una giovane donna. Quando ci incontrammo avrà avuto all’incirca trenta o forse trentadue anni, senz’altro non più di trentacinque, mentre io ho superato da un pezzo i sessanta e poi anch’io, al tempo del liceo, ero magro. Magro come un chiodo. Alto, invece, non lo sono mai stato.
Quella era la seconda seduta di Bianca. Durante la prima di lei non mi aveva detto granché, anzi il tema di quell’incontro ero stato io. Strano che sia andata in quel modo, ma così fu. Chi viene a trovarmi è pochissimo interessato a me e ha solo voglia di raccontare sé stesso. Qualche volta anche per tentare di capire. Non sempre, però. Quasi non gli importa neppure che io ascolti. Parlano di sé stessi a sé stessi. Come giusto che sia. È il modo che utilizzano per capirsi meglio.
Con Bianca fu differente. Con Bianca fu totalmente differente. Lei mi sottopose ad un fuoco di fila di domande. Quasi che dovesse farmi l’anamnesi e che il paziente fossi io e non lei. Partì col chiedermi se fossi laureato in Medicina.
«Sì» dissi, semplicemente, ma evidentemente la risposta non le bastò poiché insistette.
«In quale università?»
«La Statale di Milano».
«E con che voto di laurea?»
«Centodieci e lode».
«Qual è stato il suo voto più basso?»
«Trenta e lode».
«Trenta e lode in tutte le materie, quindi?»
«Sì».
«In quale anno si è laureato?»
«1967».
«In quanto tempo? Cioè, voglio dire, non è finito fuori corso, vero?»
«No, non sono finito fuori corso. Mi sono laureato in sei anni, giusti giusti. Anzi, con un paio di mesi di anticipo. E poi un altro paio d’anni sono stati dedicati alla specializzazione», qui ci aggiunsi un po’ di orgoglio.
«Anche questa terminata nei tempi e con il massimo dei voti. Ovviamente».
«Ovviamente» risposi cercando di marcare ulteriormente un tono ironico. E da qui in avanti lasciai perdere l’orgoglio.
«Quindi sono capitata con un genio».
«Non proprio».
«In che senso?»
«Mi piace il mio lavoro».
Lei non sembrò far caso al cambiamento di tono della mia voce e dunque non colse la lieve sfumatura polemica nella quale avevo avvolto la mia risposta. Mi guardò con una certa sfrontatezza, così mi parve di cogliere.
«Ah!» disse semplicemente e poi aggiunse «Bene».
Quindi fece girare i suoi occhi per tutta la stanza. Li fissò per un qualche momento su uno scaffale della libreria che sta alle mie spalle e poi ricominciò a farli bighellonare qua e là.
Il taglio degli occhi di Bianca non aveva nulla di speciale e anche il colore delle sue pupille non sembrava avere caratteristiche particolari. Erano occhi normali, assolutamente normali, né grandi né piccoli: normali e di un comune, direi quasi banale, color castano. Eppure in quegli occhi c’era qualcosa. Qualcosa che colpiva. Non seppi darmi, allora, una plausibile risposta sul perché di quella impressione. Ricordo con chiarezza che pensai: Questi vivissimi occhi sono corazzati e chiusi come uno scrigno in fondo al mare
. Li fissavo intensamente mentre loro neanche si sognavano di guardarmi. Questo da un lato mi piacque perché così avevo la piacevole e falsa percezione di non essere invadente, anche se il mio lavoro mi impone proprio il contrario. Cioè, non sono io che sono invadente, sono loro, i miei pazienti che si aprono e buttano tutte le loro masserizie sulla mia scrivania e mi chiedono di entrare per aiutarli a dare una bella pulita alla loro casa. Quella della mente. E vogliono consigli su come ristrutturarla e magari anche su come arredarla nuovamente.
Io non do consigli, mi limito solo a metterli in condizione di capire da soli chi sono, perché sono così e, se lo desiderano, come possono cambiare. E, una volta fatto questo, risistemare gli arredi è quasi un gioco da ragazzi. Tutto qui. Questo è il mio lavoro.
E tutto questo lavoro – sì perché è un vero lavoro – lo faccio stando comodamente nel mio studio, seduto sulla mia confortevole poltrona mentre loro qualche volta mi stanno di fronte oppure, altre, se ne stanno sdraiati sulla chaise longue modello Le Corbusier, che è posizionata alla mia sinistra. A proposito, io di professione faccio lo psicologo.
Aprii il cassetto alla mia destra e ne presi un blocchetto di fogli, li scorsi due o tre volte e finalmente trovai quello che cercavo, lo estrassi dal mazzo e quindi lo feci scivolare sul piano levigato della scrivania. Lei, che nel frattempo aveva sospeso la sua perlustrazione, stava osservando questa mia manovra in silenzio e quando il foglio le arrivò davanti abbassò gli occhi, lo osservò per un po’, poi lo prese delicatamente con entrambe le mani e ne scorse il contenuto. Vidi i suoi occhi ficcarsi nel testo, scendere e risalire varie volte fermandosi ora qui ora là, a diverse altezze della pagina. Era il certificato universitario che testimoniava di tutti gli esami che avevo sostenuto con tanto di data e di votazione. Il silenzio tra noi durò almeno tre minuti, e tre minuti da passare in silenzio uno di fronte all’altra sono decisamente pesanti, più pesanti dei centottanta secondi che li compongono. Lei parve non farsene un eccessivo cruccio. Pensai che doveva avere un carattere molto forte. Per parte mia ci sono abituato ai silenzi dei pazienti e per me non è un grande sforzo sostenerli.
Ogni tanto Bianca alzava lo sguardo su di me e poi lo riabbassava sul foglio. In alcuni momenti sembrava concentrata nella lettura mentre in altri pareva assorta su altro. Dopo un’altra ispezione di quel foglio parlò di nuovo.
«Tutti trenta e lode. Come aveva detto».
«Tutti trenta e lode. Come avevo detto» sottolineai.
«Come faceva a sapere che mi sarebbe piaciuto vedere il suo libretto universitario?»
«Non lo sapevo, infatti. Talvolta è capitato che qualche paziente me lo abbia chiesto per poter ottenere il rimborso della mia parcella dall’assicurazione. E allora per comodità, mia e del paziente, ne tengo qualche copia qui, nel cassetto, così posso dare immediata soddisfazione alla richiesta».
«Ah, l’assicurazione» fece un movimento con il capo, come di assenso, poi sogghignò impercettibilmente e tacque per qualche istante.
«Io non ho alcuna assicurazione» disse e un po’ sovrappensiero come se parlasse tra sé aggiunse: «Io mi assicuro da sola».
Non commentai, mi limitai a un sorriso che poi pensai dovette parerle un po’ ebete, ma forse lei neanche se ne era accorta.
Gli occhi di Bianca fecero ancora un paio di passeggiate su quel foglio, quindi lo riappoggiò sul piano del tavolo e li piantò dritti nei miei. Sostenni il suo sguardo.
«Era un secchione?» sparò all’improvviso, poi vi aggiunse un leggero sorriso che non era di scherno, ma neppure del tutto amichevole, e così potei notare i suoi denti. Ricordo che immediatamente pensai avessero un che di falso. Erano perfetti. Troppo perfetti. Forse li aveva fatti incapsulare. Tutti. Uno per uno. I colleghi dell’odontoiatria sono capaci di fare miracoli: trapano, limano, segano, incapsulano, nascondono e anche le bocche più sgangherate diventano stupende. O quasi. Infatti qualche volta si sente che c’è del posticcio e questo mi pareva il caso. Comunque queste considerazioni non mi trattennero dal risponderle a tono.
«No. No, non ero un secchione», socchiusi per un istante gli occhi e automaticamente mi sorrisi. Vero, non sono mai stato un secchione anzi, tutt’altro. Il fatto è che sono sempre stato molto attento durante le lezioni. Fin da piccolo la mia capacità di concentrazione è stata notevole. Qualche volta ero addirittura in grado di ripetere intere frasi dette dal professore, parola per parola, per cui lo studio sui libri mi serviva solo come esercizio di ripasso.
Bianca incassò la risposta con apparente nonchalance, ma lasciava trapelare con chiarezza una certa diffidenza.
«Si è divertito all’università?»
«Sì, moltissimo».
«E che faceva?»
«Praticavo uno schema semplice, avevo diviso la giornata in tre parti: la mattina andavo a lezione, durante il pomeriggio studiavo e la sera uscivo con gli amici».
«E non c’erano delle amiche?»
«Sì, qualcuna, ma dati i tempi a poche era concesso di uscire tutte le sere».
«Solo qualche volta?»
«Sì, solo qualche volta. In genere un paio di permessi alla settimana».
«Ah, bello. E dove andavate?»
«In genere in birreria».
«Era un alcolizzato?» chiese sgranando gli occhi. La domanda le era venuta spontanea. Non ci aveva pensato neanche per un secondo prima di farmela. Sorrisi e feci di no con il capo.
«No, non ero un alcolizzato. E poi non tutte le sere si andava in birreria. Qualche volta al cinema, altre a sentire jazz in alcuni locali che stavano in fondo ai Navigli e poi il cabaret. Ogni tanto anche a teatro. Teatro off, quello impegnato, quello che veniva recitato negli scantinati».
«Quelle belle rappresentazioni tutte politica, esistenzialismo e incomunicabilità?»
Feci un cenno affermativo con la testa.
«Quelle belle rappresentazioni mappazzose stile Corazzata Potëmkin?» chiosò sorridendo.
«Vedo che le conosce, le mappazze. Comunque sì. Proprio quelle belle rappresentazioni mappazzose stile Corazzata Potëmkim» ho ribadito, sorridendo anch’io, mentre mi passavano davanti agli occhi le immagini del nostro gruppo di amici e di altri compagni dell’università quando ce ne stavamo belli appollaiati su impalcature di tubi Innocenti attraversate da assi di legno grezzo che ci facevano da sedili. Sedute scomode che di più non si poteva immaginare, ma erano parte integrante del nostro impegno e dell’immedesimazione con la sofferenza che si viveva sul palco. Tra noi anche qualche operaio, ma erano pochi. Loro, gli operai, su quelle impalcature ci stavano per davvero tutto il giorno e la sera dopo una giornata di lavoro preferivano stare comodi, a casa, davanti alla televisione. Perché, si sa, lavorare stanca.
Noi volevamo assomigliare a loro e loro volevano assomigliare a noi. Anzi avrebbero voluto essere noi. Nessuno che fosse contento del suo stato. Allora come ora. Bizzarrie della vita. Noi volevamo la loro supposta purezza e loro volevano la nostra evidente agiatezza. Lo scambio avvenne ma non alla pari: noi non prendemmo nulla da loro e loro invece rapinarono tutto il nostro peggio.
«È un mobile da farmacia quello che è alle sue spalle, vero?»
«Sì».
«Toscano, fine Seicento inizio Settecento».
«Indovinato».
Feci passare una manciata di secondi ed aggiunsi: «Quindi lei si occupa di antiquariato?»
«Mi piacciono le belle cose e tra queste c’è anche l’antiquariato».
«Solo mobili?»
«No, anche quadri e anche oggetti. Per esempio ho una piccola collezione di vesta boxes».
«Vesta boxes? Cosa sono?»
«Portafiammiferi».
«Portafiammiferi?»
«Sì, portafiammiferi. Io li cerco d’argento. Sono prevalentemente inglesi, mediamente fine Ottocento, o inizio Novecento, ma ne ho trovati anche un paio di americani e uno addirittura canadese. E ne posseggo anche quattro o cinque russi. Questi però sono in smalto. Begli oggetti, tutti con fogge diverse. Tra quelli particolari uno riprende la figura di fagiolo, un altro ha la forma di libro e sulla copertina vi è l’incisione di una farfalla vicina a una canna di bambù, sembra una stampa giapponese, di Hokusai. Ne ho anche uno con lo scomparto per i francobolli e un altro ancora con lo spazio per conservare gli spiccioli, i penny. E ne posseggo anche uno da tavolo». Questo breve elenco parve spossarla, infatti poi tacque.
Anch’io stavo zitto. E la guardavo.
«Non vuole sapere perché mi piacciono?» mi chiese dopo un po’.
«Aspetto che me lo dica» risposi.
«Così, lei non fa domande. Giusto?»
«Giusto, io non faccio domande. Aspetto che la paziente mi dica».
«Quindi le devo dire, spontaneamente» e sottolineò la parola spontaneamente con il tono della voce, «perché mi piacciono i vesta boxes?»
«Se vuole».
«Certo che voglio» rispose. Poi ci pensò un poco e aggiunse quasi sottovoce: «In fondo sono qui per questo».
«E allora me lo dica».
«Mi piacciono perché sono dei begli oggetti, come le dicevo, di ottima fattura e poi sono fantasiosi nelle forme e nelle decorazioni e l’argento mi piace più dell’oro. L’argento è bianco, scintillante e ha il colore della luce. L’argento è elegante, l’oro invece, specialmente quando è lucido, mi ha sempre dato l’idea della pacchianeria. Mentre invece quando è opaco mi parla di depressione. E a me la depressione non piace. E neanche la pacchianeria».
Sorrise e si zittì di nuovo. Ero certo che stesse mettendo in fila i suoi pensieri e cercasse le parole più adatte.
«La luna è d’argento. È poliedrica. Ha tante forme: qualche volta è solo uno spicchio, qualche volta è mezza, qualche volta è tre quarti e infine è piena. E nel giro di poco meno di un mese completa la sua fase. Guardandola si ha il senso dello scorrere del tempo. E poi vive situazioni diverse. E anche evolutive: è calante ed è crescente. I nativi americani avevano il loro calendario diviso in lune. Lo sapeva?»
«Sì».
«La luna è elegante, di una eleganza fine e senza fronzoli». Tacque ancora, questa volta per una decina di secondi e riprese: «La luna è d’argento». Tacque di nuovo. «L’argento mi evoca il senso della purezza» disse finalmente.
«Della purezza» commentai ripetendo le sue ultime due parole.
«Sì, lo so che la luce non è bianca, ho letto qualcosa a questo proposito: la teoria del colore. Goethe, non è vero?»
«Sì, Goethe» confermai. Poi aggiunsi: «Bello che le piaccia il bello».
«Ma non sempre mi è piaciuto».
«Ah, no?»
«No» rispose secca. E si passò una mano tra i capelli. Mi fissò dritto e con durezza, poi i suoi occhi ripresero a viaggiare per la stanza. Anche io tacqui. La osservavo e lasciavo che il tempo scorresse lento. Quindi fu lei a rompere il silenzio.
«Vedo che ha dei bei libri» disse cambiando repentinamente discorso.
«Sì, ho dei bei libri» risposi gentile ma asciutto. Non bisogna lasciarsi intimidire né irritare né spazientire. I pazienti, che poi sono clienti, talvolta sanno essere dei terribili provocatori. Certe volte cercano di giocare come il gatto con il topo. Ma a me non piace fare il topo.
«Sì, anch’io amo i libri» disse lei.
«Bene» chiosai con tono conciliante.
«Io li restauro pure. Ho seguito un corso. La cosa che mi piace di più nel restauro dei libri è la rilegatura».
Mossi la mano destra come per assentire. Bianca rimase ancora in silenzio e notai che i suoi occhi si erano spostati su due stampe: vedute della campagna romana, posizionate sul muro di fronte alla chaise longue. Mi aspettavo che dicesse qualcosa a proposito delle stampe e già mi stavo preparando. E invece no. Bianca non disse niente: era imprevedibile.
«Bene dottore, lei mi piace» disse e quindi prendendomi in contropiede aggiunse: «Il tempo è finito e quindi: quando posso tornare per la seconda seduta?»
Lo disse con la sicurezza tipica dei professori che comunicano all’allievo di aver superato l’esame. Avevo superato l’esame. Ne fui contento. Ero certo che Bianca sarebbe stata un bel caso su cui lavorare anche se, al momento, non sapevo nulla di lei. Concordammo che per iniziare ci saremmo visti due volte alla settimana: il lunedì e il venerdì. Non fece il minimo accenno alla mia parcella e allora le comunicai il costo di ogni seduta. Mi sorrise e fece un leggero segno di approvazione. Ci alzammo insieme, intendo dire nello stesso istante e l’accompagnai alla porta. Proprio in quel momento stava entrando un altro paziente. Lei neanche lo notò, lui invece la guardò estasiato ed entrando mi urtò e neppure mi salutò. Bianca invece mi salutò con un cenno del capo ed un sorriso. Non mi diede la mano. Quella fu la prima volta che incontrai Bianca.
2
«Si accomodi, Bianca» le dissi mentre indicavo la porta del mio studio.
«Grazie» mi rispose e poi aggiunse in un soffio: «Riconosco la strada».
Entrò quasi volteggiando. Ebbe solo un brevissimo momento di indecisione, si guardò attorno e vide dove poteva appoggiare la borsa.
«Sì» dissi dopo aver girato intorno al tavolo ed essermi ben sistemato nella mia poltrona. Comincio sempre così le mie sedute. Con un bel «Sì».
Bianca mi fissò, poi abbassò lo sguardo sul piano del tavolo e quindi mi rifissò. Dondolava sulla sedia, sembrava ci stesse scomoda, era seduta sulla punta, per nulla rilassata. Non assomigliava per niente alla Bianca che avevo incontrato il precedente venerdì. Non che avesse cambiato il trucco o che fosse meno elegante, anzi da questo punto di vista mi pareva pure meglio. E, sotto tutto quello, la sua sofferenza era quasi palpabile.
Stette in quella scomoda posizione per un po’, tamburellò con le dita sul piano della scrivania, poi, come avesse definitivamente presa la giusta decisione, si sistemò meglio. Si spostò all’indietro e occupò il centro della seduta quindi si appoggiò allo schienale. Prese un profondo sospiro e cominciò a parlare.
«Riccardo mi ha chiesto di sposarlo» disse con gravità e mi fissò con acutezza. Quasi volesse cacciare i suoi occhi nel mio cervello e scoprire i miei pensieri. Le mie reazioni.
Rimasi impassibile e in silenzio.
«Riccardo è il mio compagno. Conviviamo da un po’. Qualche volta a casa sua e qualche volta a casa mia. Viviamo ancora in case separate. Siamo vagamente alternativi. E questa transumanza da un appartamento all’altro dura da poco più di sette anni. Dice Riccardo, avendo superato la soglia dei sette anni e senza essere andati a sbattere contro la mitica crisi, che ora è il momento di metter su famiglia sul serio e per davvero».
Mi guardò di nuovo e pareva aspettarsi una mia qualche reazione di risposta.
«Sì» mi limitai a dire.
Lei spostò lo sguardo dal mio viso alla sua mano, che aveva appoggiata sul piano della scrivania.
«Vede, le parole di Riccardo che più mi hanno colpita sono state "sul serio e
per davvero. Metter su famiglia ci sta. Come dire che è normale, è nelle cose, ma quelle due sottolineature mi hanno spiazzata. Le ho vissute come se dietro al metter su famiglia ci sia qualche cosa d’altro, di ancora più impegnativo. Di più, come dire… ecco… in realtà non so come dire. Non so proprio come dire e questo mi turba. Anzi, no, mi sconvolge. Se dovessi lasciare uscire quello che penso forse passerei per pazza. Lo sa a cosa associo
famiglia sul serio e per davvero"?»
E cacciò i suoi occhi nei miei.
«A cosa li associa?» chiesi. Sapevo che si aspettava la domanda e dunque la feci.
«Ah, bene. Pensavo che non mi stesse ascoltando» disse con un debole sorriso.
«La sto seguendo» confermai, assentendo contemporaneamente con un movimento affermativo.
«Ecco, le parole che mi vengono in mente sono coinvolgente, con grandi aspettative, ma anche senza confine, aperto, squadernato. Senza segreti. Sì… ecco. Senza segreti».
«Senza segreti» ripetei.
«Sì, senza segreti. E io, di segreti, ne ho. E i miei sono…» fece una breve pausa «grandi segreti».
«Grandi segreti» ripetei.
«Sì, i miei sono grandi segreti» ribadì con focosa calma.
Ora i suoi occhi non correvano più per la stanza, erano puntati su di me, ma non mi guardavano e neanche mi vedevano.
«Il mio primo segreto sta nel mio nome. L’ho cambiato. Io», e calcò la voce su quell’io, «ho deciso di chiamarmi Bianca. Il nome che mi avevano dato era un altro e non mi piaceva. A guardarlo superficialmente poteva parere un nome normale, pure banale, anche se, forse, non tra i più comuni ma era il suo significato a non piacermi. Io volevo un nome che fosse genuino, fresco, puro. Volevo che il suo significato mi rappresentasse. Che non avesse doppi sensi e non si prestasse a interpretazioni. Volevo che fosse in qualche modo trasparente, che nel dire di me dicesse di candore e pulizia e di innocenza. Sì, di innocenza. Di come io sia innocente. Perché io sono innocente. E solo il cielo sa quanto io sia innocente. Lo sono sempre stata, innocente. Io». E nel dire questo diede ancora maggior forza con la voce a sottolineare quell’io.
«Pensai anche di chiamarmi Chiara. All’inizio e solo per qualche momento fui indecisa. Sì, fui indecisa».
Queste ultime parole le uscirono dalle labbra in un soffio, come il fumo espirato da una sigaretta.
I suoi occhi erano persi nel passato ed ero certo che stesse rivedendo e anche rivivendo quel momento. Il suo sguardo scese su di me. Io tacevo e la osservavo.
«Sì, fu un momento. Ma solo un momento. Il nome Chiara andava bene per coprire al massimo una piccola, minima parte di quello che volevo significasse il mio vero nome. Certo i concetti di trasparenza e di pulizia sono evidenti, ma quelli sono appena due tra tutti i tratti che io volevo raccontare al mondo, presentandomi. In Chiara mi mancava il senso dello splendore. E io mi sentivo splendente, come la luna che mi stava davanti e mi piantava i suoi raggi nell’anima. Ecco è stata la luna a farmi scegliere. E infatti il mio nome l’ho stabilito in una notte di luna piena. Era il mese di maggio. Ero sola quella sera, gli altri se ne erano andati ad una festa del quartiere e mi avevano lasciata a fare la guardia alla casa. Da noi c’erano più ladri che ratti. Se lasciavi l’appartamento incustodito te lo svaligiavano in un attimo. Che chiamare appartamento quella topaia fatta di due stanze e uno sgabuzzino ci voleva proprio della bella fantasia».
Guardò il soffitto per un attimo e riprese.
«Dall’uscio si entrava direttamente nella stanza che fungeva contemporaneamente da ingresso, cucina, sala da pranzo e salotto. Era un quasi loft, una stanza multitasking, ma non lo sapevamo che si potesse chiamarla così, che se ne avessimo avuta l’idea ce ne saremmo vantati. Al centro era piazzato il tavolo, così vecchio da essere appartenuto addirittura alla madre di mia nonna. Lì facevo i compiti tra il pranzo e la cena quando non era occupato da mia madre che su quello tirava la sfoglia o stirava o tagliava la stoffa per i suoi piccoli lavori di sartoria. Come altro elemento d’arredo, sulla stessa parete dell’uscio c’era un vecchio canterano con tre enormi cassetti. Pensi che ognuno era alto quasi quaranta centimetri. L’ultimo, quello più in basso, era il mio. L’avevo diviso in due parti: da un lato tenevo la biancheria, i pantaloni, le camicie e le maglie mentre dall’altra i miei libri. Per mia madre era uno spreco di spazio. Lei era proprietaria del cassetto di mezzo, dove stipava lenzuola, tovaglie e coperte, e del primo che conteneva le posate e diverse pentole. Ogni volta che lo si apriva si sentiva un gran sferragliare. Sul piano stavano la televisione, una radio e un portafiori di vetro colorato che, a mia memoria, non aveva mai incontrato un fiore. Al lato opposto era la finestra, assai grande, con l’infisso in acciaio. Il davanzale era alto, tanto che sotto ci avevano messo un divano in finta pelle. A destra del divano la stanza dei miei con il letto matrimoniale, una vecchia toletta in ferro, con tanto di catino, brocca e portasapone, miracolosamente intatta, e un armadio a tre ante: la centrale completamente ricoperta da uno specchio grande che ti faceva vedere a figura intera. Quello specchio mi attirava come la luce fa con le falene. Appena potevo mi ci piazzavo davanti a fare le smorfie, come a quella età fanno tutte. Dalla parte opposta la mia camera, uno sgabuzzino senza finestra, lungo poco più di un letto e largo tanto da farci stare anche una persona in piedi. Come porta avevo una tenda, in modo che ci fosse un minimo di privacy e di notte ci potesse passare un po’ d’aria. E non ci si morisse soffocati. Quella sera, dunque, i miei uscirono e poiché qualcuno doveva rimanere sempre in casa toccò a me. Per fortuna. Me ne stavo affacciata alla finestra ed ero tutta protesa verso quel disco d’argento che splendeva in cielo. Guardavo solo la luna, vedevo solo la luna. Come era bella. Ma, meglio ancora era placida, rassicurante e liberatoria. Mi pareva di essere Ciàula quando la scoprì, la luna. Lei conosce la storia di Ciàula, vero?»
Accennai a un sì senza emettere fiato. Non volevo rompere l’equilibrio del suo pensiero.
«Il professore di italiano», proseguì Bianca, «D’Amico si chiamava, Bruno D’Amico, me ne ricordo ancora oggi, ce ne aveva parlato con grande passione qualche giorno prima quando cominciò a spiegarci Pirandello. A lui Pirandello piaceva moltissimo e ne trasmise la passione a una buona parte della classe. Non a tutti, naturalmente. E io, quella notte, mi sentivo proprio come immaginavo si fosse sentito quel piccolo caruso siciliano nel momento in cui uscì dalla miniera. E anch’io, quella notte stavo uscendo da una miniera, buia e nera come quella del racconto e forse anche di più. Quella di Ciàula era solo una zolfatara mentre la mia miniera era l’anima. La mia anima. Come quel ragazzino, pure io, non riuscivo a staccare gli occhi dalla luna. E neanche lo volevo. Sapevo che se li abbassavo avrei guardato di sotto e mi sarebbe venuto il voltastomaco. Avrei visto bidoni traboccanti di spazzatura e sacchetti di plastica pieni di chissà cosa. E poi qualche pallone sgonfio, una pila di enormi pneumatici da camion e rottami di biciclette e motorini buttati alla peggio gli uni sugli altri e, accostata al muro di cinta, una roulotte che serviva da casa e ufficio a un paio di prostitute. Una era africana, nera come neppure si poteva immaginare mentre quell’altra credo fosse russa, con