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Ho fatto Crack!: Autobiografia di un fallito qualunque
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Ho fatto Crack!: Autobiografia di un fallito qualunque

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About this ebook

Nel 2011, a 52 anni, dopo una lunga carriera, una famiglia e una vita come tante altre, Lorenzo Villa porta i libri contabili della sua azienda al Tribunale di Genova e viene pertanto dichiarato fallito.
Una parola pesante, il fallimento, che si accompagna a una lunga serie di problemi economici, sociali, psicologici. Una condizione in cui, soprattutto in tempi di crisi economica, finiscono a trovarsi in molti, ma a cui lo Stato italiano non sa o non vuole dare un sostegno, un’alternativa, una soluzione.
Costretto a trovare in se stesso le risorse per uscire da una condizione molto difficile, l’autore decise di condividere in un blog idee, esperienze, emozioni, disagi e paure sul tema del fallimento e di tutte le complicazioni ad esso connesse. Rielaborando e ampliando il materiale del blog, nasce “Ho fatto crack!”, che si presenta come la cronaca di un mondo che mai si avrebbe immaginato di vedere, vivere, subire, di una vita deragliata a causa di un fallimento, e del tentativo di farle riprendere il binario giusto, descrivendo i sentimenti, gli stati d'animo e le disavventure più o meno tragicomiche che s’incontrano sul percorso.
Una testimonianza sofferta, ma anche lucida e autoironica, che si pone l’obiettivo di far sentire meno solo chi sta portando sulle spalle il pesantissimo fardello del “fallimento”, e anche quello di spiegare a chiunque sia interessato ad ascoltare che cosa significhi davvero “fare crack” in Italia oggi, e attraverso quali passi e fatiche (dato anche che, spesso, la fortuna è cieca, ma la “sfiga” ci vede benissimo…) si possa tornare a una vita “normale”.
LanguageItaliano
PublisherLorenzo Villa
Release dateSep 23, 2019
ISBN9788834189054
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    Ho fatto Crack! - Lorenzo Villa

    HO FATTO CRACK!

    Autobiografia di un fallito qualunque

    Lorenzo Villa

    Sinossi

    Nel 2011, a 52 anni, dopo una lunga carriera, una famiglia e una vita come tante altre, Lorenzo Villa porta i libri contabili della sua azienda al Tribunale di Genova e viene pertanto dichiarato fallito.

    Una parola pesante, il fallimento, che si accompagna a una lunga serie di problemi economici, sociali, psicologici. Una condizione in cui, soprattutto in tempi di crisi economica, finiscono a trovarsi in molti, ma a cui lo Stato italiano non sa o non vuole dare un sostegno, un’alternativa, una soluzione.

    Costretto a trovare in se stesso le risorse per uscire da una condizione molto difficile, l’autore decise di condividere in un blog idee, esperienze, emozioni, disagi e paure sul tema del fallimento e di tutte le complicazioni ad esso connesse. Rielaborando e ampliando il materiale del blog, nasce Ho fatto crack!, che si presenta come la cronaca di un mondo che mai si avrebbe immaginato di vedere, vivere, subire, di una vita deragliata a causa di un fallimento, e del tentativo di farle riprendere il binario giusto, descrivendo i sentimenti, gli stati d'animo e le disavventure più o meno tragicomiche che s’incontrano sul percorso.

    Una testimonianza sofferta, ma anche lucida e autoironica, che si pone l’obiettivo di far sentire meno solo chi sta portando sulle spalle il pesantissimo fardello del fallimento, e anche quello di spiegare a chiunque sia interessato ad ascoltare che cosa significhi davvero fare crack in Italia oggi, e attraverso quali passi e fatiche (dato anche che, spesso, la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo…) si possa tornare a una vita normale.

    Introduzione

    Parte 1

    Avrei dovuto capire quello a cui sarei andato incontro fin dal momento in cui ho visto la luce in quel lontano 27 Ottobre del 1958. Già, i segnali c’erano, bisognava soltanto coglierli e interpretarli, solo adesso me ne rendo conto. Tardi, troppo.

    Mio padre ha sempre avuto un livello di sopportazione molto basso, soprattutto nei confronti di quella che era e sarebbe stata la sua famiglia, tanto che all’ennesimo falso allarme provocato dal sottoscritto nella pancia della mamma, prese baracca e burattini e ci portò tutti in clinica con la speranza che ci fosse un medico comprensivo che mettesse fine alla sua agonia e mi facesse uscire da lì dentro con un bel taglio cesareo o con quel diavolo che volesse, bastava che la facesse finita con questo stress da parto, che poi non era nemmeno lui che doveva farlo, questo figlio. Purtroppo per lui il ginecologo di mamma non fece una piega, gli disse di avere pazienza, che il figlio era pronto, era questione di pochissimo e finalmente sarebbe stato catapultato all’esterno in maniera del tutto naturale. Probabilmente l’istinto di mio padre in quel momento fu di compiere una strage all’interno del reparto, ma desistette e si accasciò accanto a mia madre in attesa di un segnale che, povero lui, non avevo alcuna intenzione di dargli.

    Infatti, quando ormai stavano per scoccare le 4 del mattino, Papi decise che sarebbe andato a casa a riposare perché tanto era inutile restare lì, visto che non succedeva nulla! E nel caso sarebbe ritornato non appena fosse imminente la nascita.

    Detto fatto: saluti, baci e via, verso casa e il lettone sul quale avrebbe riposato tranquillo. E qui il papi si sbagliava, e di grosso. Già, aveva fatto i conti senza l’oste, perché non appena si sdraiò in preda a un mal di testa lancinante squillò il telefono sul comodino e dall’altra parte della cornetta una voce gli annunciò che avrebbe dovuto tornare immediatamente in clinica perché il parto era in corso e stavo per nascere, quindi doveva correre più forte che poteva. Erano da poco passate le 5 del mattino di lunedì 27 ottobre 58. E così vidi la luce.

    Quattro anni dopo il mio, fu il turno della mia sorellina, avvenuto nella notte del 15 aprile ’62 sul tavolo della nostra cucina, trasformato per l’occasione in lettino da ospedale da campo!

    Ho qualche vago ricordo di una signora enorme, io almeno la vedevo così, che saltava sulla pancia della mamma e continuava a usare bacinelle di acqua e stracci; non riuscivo a capire come avesse fatto alla fine a tirare fuori, e non sapevo bene da dove, un essere vivente piccolo, sporco e che urlava a squarciagola, spargendo pipì ovunque, e soprattutto non capivo come facesse visto che non aveva lo stesso tubicino che possedevo io in mezzo alle gambe! Mi riproposi di approfondire più avanti questo aspetto fisico.

    Ero stato comunque colpito da questo arrivo, tanto che per giorni rimasi seduto vicino alla culla, fissando mia sorella e tenendole la mano, fino a quando venni portato via a forza, primo perché probabilmente i miei genitori non riuscivano a capire se avrei fatto fuori la bimba, e in che modo, o se stavo semplicemente rincoglionendo, secondo per potermi fornire un’adeguata assistenza alimentare. In effetti non avevo alcuna intenzione di farle del male, non all’epoca… se solo avessi potuto prevedere il futuro, chissà! E già da qui si cominciava a delineare un bel quadretto psicologico…

    In quegli anni eravamo a Torino: lì papà aveva da poco aperto una filiale dell’Azienda, che aveva sede a Genova e che era stata fondata insieme a un socio che, come in tutte le società che si rispettino, alla fine si era rivelato un pessimo compagno di viaggio, per cui si rese necessario il rientro nel capoluogo ligure nel 1962, a soli quattro anni dalla mia nascita e immediatamente dopo l’arrivo della mia sorellina. Ricordo che in quel periodo mia madre aveva dei problemi di salute piuttosto seri ed era costretta a frequenti ricoveri all’Ospedale San Martino, dove restava anche più di una settimana ogni volta, e così mio padre, per potermi portare da lei, dato che i bambini al di sotto dei dodici anni non potevano entrare nei reparti, mi metteva sotto il cappotto e sgattaiolava su per le scale strisciando contro il muro per non farsi beccare con l’imbarazzante fagotto. Mi divertivo un sacco, anche perché questo gioco si faceva sempre di sera e l’idea di uscire con il buio e fare una cosa di nascosto mi eccitava parecchio. Solo qualche tempo dopo mi fu spiegata la malattia della mamma e quelle che sarebbero state le conseguenze negli anni. La malattia era il morbo di Chron, interessava l’intestino e in effetti negli anni a venire mia madre subì l’asportazione in pratica di tutto l’organo, restando in due occasione appesa fra la vita e la morte ma riuscendo per fortuna a superare tutte le crisi e a sopravvivere. Era dannatamente forte e ostinata.

    Nel frattempo ebbi una terribile esperienza sociale: l’asilo! Mi dimostrai infatti fin da subito un bambino diverso, in poche parole ero di un’asocialità disarmante. Ricordo che al mattino mia madre preparava il cestino, mi metteva il grembiule, il cappotto e via, in macchina verso l’asilo: bene, dal momento in cui uscivo di casa fino all’arrivo era un pianto a dirotto, come se mi stessero portando al patibolo facendomi passare fra ali di folla sbeffeggiante! Entravo, stringendo la mano alla mamma mentre con l’altra dondolavo il cestino con la merenda, poi, vestito di tutto punto, mi sedevo sulla stessa sedia tutti i giorni, cestino sulle ginocchia, e alle maestre, che cercavano di portarmi all’interno con tutti gli altri bambini per farmi vivere la mia giornata fra giochi, disegni e varie amenità, dicevo: Grazie, resto qui, tanto viene mia mamma a prendermi!

    La mia frequentazione terminò dopo una decina di giorni, ancora adesso non so se sono stato ritirato o se sono stato cacciato: poco importava, all’epoca, il risultato lo avevo ottenuto, finalmente potevo stare a casa in santa pace! Guardavo tutte le mattine la televisione, quando ero bambino io non esistevano tutti i canali che ci sono oggi né tantomeno i satelliti ci permettevano di vedere televisioni straniere. Ricordo che avevamo i due canali Rai, la Svizzera e Capodistria, forse. Che tempi. Beh, una mattina in cui evidentemente i cartoni animati non m’interessavano, decisi che era arrivato il momento di creare un diversivo e, dato che da tempo mi frullava in testa l’idea di bere di nascosto il Martini che i miei tenevano nel frigorifero, nel vano portabottiglie che era in basso e a cui arrivavo perfettamente, presi la bottiglia e tracannai un paio di sorsi, rimettendola subito a posto prima di venire colto con le mani nel sacco. Inutile dire che il liquore mi entrò in circolo quasi immediatamente e, preso da un’euforia indescrivibile, andai in camera dove mia sorella giocava, la presi per mano e la portai con me in bagno, chiudendo la porta a chiave.

    In quel momento ero praticamente ubriaco, e così presi una bacinella che trovai nella vasca, la riempii di acqua e vi versai del detersivo per i panni, dopodiché spogliai completamente la mia sorellina e la misi dentro alla bacinella cominciando a lavarla con una spugna: bene, ridevo talmente tanto, e mia sorella faceva altrettanto perché evidentemente l’idea del fratello ubriaco la faceva sbellicare, che mia madre, preoccupatissima, ha dovuto forzare la porta per venire in nostro soccorso, pensando a chissà quale disastro stavamo combinando. Ricordo che fu una mattinata fantastica, e purtroppo da quella volta non trovai più il Martini nel frigorifero.

    Non mi persi d’animo, mi diedi alle gomme da masticare, quelle confezionate proprio come un pacchetto di sigarette vero e proprio, non so se esistano ancora ma all’epoca erano molto in voga, solo che facevo un piccolo errore: pensavo che fossero caramelle e, al terzo pacchetto, vedendolo vuoto, mia madre mi chiese dove fossero finite tutte le gomme, sentendosi rispondere candidamente dal sottoscritto che le avevo masticate e ingoiate regolarmente! Anche in questo caso, purtroppo le gomme mi vennero vietate. E il materiale per la psicoanalisi continuava ad accumularsi.

    Intanto mi avvicinavo velocemente al sesto compleanno, che sarebbe coinciso con il primo anno di scuola elementare, cosa che puntualmente si verificò e che non diede vita ad alcun particolare episodio degno di essere raccontato. Tutti e cinque gli anni delle elementari trascorsero nella normalità più assoluta, come quelli della maggior parte dei miei compagni di classe e di tutti gli altri scolari del mondo, per cui posso affermare di aver superato brillantemente l’esame di quinta e avere ipotecato il mio banco alla prima media. Finalmente iniziavo a diventare grande!

    Almeno questo era quello che pensavo, anche e soprattutto perché alle medie sarei andato vestito in borghese, senza l’odiato grembiule nero e senza l’ancor più odiato colletto bianco rigido che non stava mai fermo e ruotava continuamente intorno al collo. Eh sì, anche queste erano soddisfazioni! Peccato che ai miei tempi ci fossero le classi maschili e femminili, separate, altrimenti sarebbe stata una doppietta di soddisfazioni memorabile.

    Mi resi subito conto che il passaggio di categoria non sarebbe stato uno scherzo, altro che dettati o poesie o giocare in giardino, c’era da studiare e parecchio, c’erano i compiti in classe, le lingue straniere, la matematica, e tutto il resto, così tante materie che ebbi la sensazione che sarebbe stato meglio restare… piccolo e ingrembiulato! Mi impegnai più che potei, alternavo lo studio alla piscina, a cui nel frattempo mia madre mi aveva iscritto per cercare di farmi fare un po’ di sport serio, e alla piazzetta sotto casa dove, finiti i compiti, giocavo a pallone con i miei amici di condominio, come portiere, perché per gli altri ruoli non ero neanche degno di essere considerato, oltretutto avevo da poco scoperto di essere miope, cosa che provocò in mio padre uno shock che durò anni. Purtroppo la sua generazione ha vissuto con la convinzione che una persona con gli occhiali fosse diversa, una sorta di invalido civile, e come tale erano abituati a trattarla, per cui all’improvviso fui visto come un ragazzino infelice, a cui si precludeva qualsiasi cosa, dallo sport alle relazioni sociali, e per questo prima di arrendersi mi fece fare un

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