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Viaggio di un poeta attraverso la terra dipinta in quella desolata
Viaggio di un poeta attraverso la terra dipinta in quella desolata
Viaggio di un poeta attraverso la terra dipinta in quella desolata
Ebook359 pages5 hours

Viaggio di un poeta attraverso la terra dipinta in quella desolata

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Questo libro è l’immagine d’un vecchio che attraverso il recupero della memoria, compone attraverso il viaggio, o il viaggio della vita quell’umanità che è ormai andata perduta nel terzo millennio. Il secolo della omologazione umana priva di ogni identità interiore, divenendo merce di scambio, o massificazione dove il potere sopprimendo i valori umanistici, cioè i valori storici dove l’uomo aveva una dimensione reale con la propria vita. Ora con la diffusione dei non valori, ma disvalori, l’uomo si trova ad essere un ologramma digitalizzato perso nel nulla di se stesso, usato da un potere che gli viene dettato dall’alto, concentrato in poche persone per l’accumulazione di denaro come unico Dio. “Herbert Marcuse – l’uomo ad una dimensione”.
Questo libro oltre i molti viaggi che ho fatto nella mia vita, sia interiori che esteriori, è un cumulo di esperienze sia umane, storiche (ho visto cambiare questa società ben quattro volte in quasi settant’anni di vita), letterarie, poetiche, teatrali, filosofiche. Un complesso di eventi che si sono mischiati al ciclo delle stagioni e del loro divenire che hanno creato nella matassa del tempo, quel labirinto che è la vita. Dove questo viaggio umano “tra letteratura e vita” ha dato vita ad una dimensione ancora arcaica, intrisa di una libertà che non ha confini, dove nell’ultima scintilla dell’imbrunire mi sono perso.
“Viaggio d’un poeta” è il viaggio della vita, dove gli eventi si susseguono e si perdono nel nostro divenire, il divenire del tempo che passa attraversando le stagioni, sia quelle del nostro evolversi, del nostro cammino esteriore ed interiore dove acquisiamo la nostra coscienza e la nostra identità individuale. Cioè la scoperta di noi stessi non è una confessione come quelle di “ Sant’Agostino o del mio segreto di Petrarca o quelle di Rousseau” , ma semplicemente è il viaggio d’una vita dove sono passati “quasi tre quarti di secolo.” Dove si è innestato il tempo storico o quello definito dagli antichi Greci: Aion che rappresenta l’intera durata della vita - Kronos lo scandire del tempo attraverso il passato, il presente e il futuro – Kairos il tempo opportuno, dove si susseguono gli eventi che la vita ci presenta nel momento che la viviamo.
LanguageItaliano
PublisherAbel Books
Release dateSep 13, 2019
ISBN9788867522293
Viaggio di un poeta attraverso la terra dipinta in quella desolata

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    Viaggio di un poeta attraverso la terra dipinta in quella desolata - Mario Pozzi

    Mario Pozzi

    VIAGGIO DI UN POETA ATTRAVERSO LA TERRA DIPINTA IN QUELLA DESOLATA

    AbelBooks

    Proprietà letteraria riservata

    © 2019 Abel Books

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Abel Books

    Via Milano 44

    73051 Novoli (LE)

    ISBN 9788867522293

    La vita si svolge come in un teatro

    dove il sipario si chiude e si apre nel divenire

    degli eventi. I sogni sono isole nel mare del

    dolore e l’amore come in una nebbia si placa

    nel dolce oblio dei sensi che tutto raccolgono.

    Marinella – ritratto di Victor Motko

    Celami in te dove le cose più dolci sono celate. Tra le radici delle rose e delle spezie.

    Swinburne

    Cosa c’è di più caro nella vita? La libertà — la libertà di movimento, di pensiero, d’amare e di sognare. Ogni forma di educazione sia scolastica, religiosa, familiare che non sia quella sublime è un vincolo che incatena l’uomo e lo rende prigioniero di se stesso e di ciò che lo circonda.

    Tra luci ed ombre

    Questo scritto è dedicato a mio Padre e mia Madre con l’infinita gratitudine di avermi fatto crescere libero senza nessuna educazione e imposizione familiare, religiosa e scolastica, solo la forza della mia identità.

    A mia moglie Marinella, anche se gelosamente, mi ha lasciato libero di esprimere la mia vera natura, quella di scoprire la vita in tutti i suoi aspetti per carpirne il segreto in totale libertà: ma il sempre sospirar nulla rivela - Francesco Petrarca.

    Tutto inizia nella fase prenatale della nostra esistenza. La notte! La notte dei fantasmi, dei sogni, dei luoghi nascosti e celati, della paura e del silenzio, dei gridi che come languori si espandono nell’universo in attesa del suo spirito disperso dal principio del tempo. Si perché è la solitudine la nostra compagna, la dolce solitudine delle acque materne dove siamo cullati al principio del nostro esistere, nel grembo dell’infinito: maree di stelle, corolle di inni che vagano ai confini del nostro formarsi, nel liquido che come un mare ci avvolge e ci protegge. E’ l’infinito Leopardiano che comincia ad esprimersi nel formarsi della nostra anima. (E il naufragar me dolce in questo mare).

    Avevo quattro anni, ricordo che le acque materne erano ormai lontane, non ne avevo che un ricordo vago, misto tra sogno e oblio: il grido che avevo avuto uscito dall’intima cella di mia madre lo portavo dentro di me come un senso di stupore o un ricordo, o un intimo disagio.

    Io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là ero esistente – Pier Paolo Pasolini.

    Sono nato nel 1951 in via Cassiodoro in Prati a Roma, in un vecchio palazzo ottocentesco, in una casa di dodici stanze dove mia nonna materna nel periodo fascista aveva una pensione che sopravvisse fino agli inizi del dopo guerra, quando mio padre che era un imprenditore finanziato da famiglie Ebree, che furono salvate da mia nonna durante i rastrellamenti. Avendo fatto una figlia con un Ebreo mia madre, ha sempre ospitato e protetto, da quando ebbero inizio le leggi razziali, quando per paura o per razzismo nessuno le accoglieva. Fu proprio in quella casa dagli alti soffitti e dalle grandi stanze piena di mobili antichi dove i bambocci che li ricamavano facevano da teatro. Teatro che si confondeva al silenzio serale a darmi il senso della malinconia dell’universo; e il disagio che l’uomo prova di fronte allo spazio muto della solitudine e tende l’anima ad ascoltare le voci del nulla - allora correvo da mia madre abbracciandola, volevo rientrare nelle acque materne ma la porta era chiusa.

    Dovevo vivere, crescere, integrarmi con la vita, la sua bellezza, il suo dolore. Così l’aprirsi di quella porta la ritrovai in ogni donna che amai sempre con quel senso di vuoto, di non compiuto, di sgomento, di solitudine dove vivevano i sussurri del nulla e il suo chiuso universo dove la dolce fessura si apre al sogno umano - è una porta misteriosa, una porta perduta.

    Questo disagio che l’uomo porta dentro di sé nella notte si acutizza e penso a Giuseppe Ungaretti quando bambino nelle notti stellate ad Alessandria d’Egitto dal deserto sentiva latrare i cani da lontano e nella solitudine del suo letto percepiva lo sgomento dell’universo e il suo eterno lamento: la sua poesia sarà piena di questo sgomento, di questo senso dell’infinito e della sua solitudine.

    Roma. Ho amato Roma non solo perché ci sono nato ma per la sua bellezza, la sua monumentalità, la sua storia, il suo dolce candore di città sfrontata, per le sue notti dolci e vellutate come i fianchi di una donna che si offre al desiderio del suo sesso dischiuso all’infinito, dove tutto s’apriva nella mia infanzia e nella mia giovinezza come un dono quello della vita e del suo manifestarsi che la rendeva un mistero, il mistero del suo sogno e del suo invito, l’invito a viverla nella sua pienezza, la pienezza dei suoi giorni e delle sue notti dove tutto si disvelava nel richiamo del suo paesaggio incantato.

    Roma mia prima madre, nel tepore dei tuoi mattini e nelle tue luci dove le assolate giornate ti facevano risplendere di luce propria, accecata dal suo travertino che riverberava lo splendore dei tuoi monumenti io mi perdevo nel tuo silenzio.

    Roma nel tepore dei tuoi mattini e delle soffuse luci che trafiggevano il moto della vita dove il tuo stupirmi mi nasceva nelle viscere dentro sogni inquieti.

    Roma quasi denudata dal sole, quasi violentata dall’aria dolce e tiepida, seduta come un’antica signora sopra i tuoi sette colli, dall’ebbrezza che delicatamente t’invadeva crucciandoti come una matrona dentro la sommità dei tuoi secoli e io mi stupivo bambino al tuo svelarti ai miei occhi.

    Era la Roma prima della nuova preistoria, la Roma immersa nella storia, la Roma del dopo guerra e della sua povertà. La Roma di Respighi e le sue sinfonie, dei suoi pini e delle sue fontane e la caciara del suo popolo, dei suoi mercati e delle sue osterie dove tutto era una festa che si celebrava ad ogni risveglio.

    La giovinezza e l’adolescenza sono l’estate della vita come scriveva il Leopardi unico fiore.

    La vita in quel periodo è stata un incanto, almeno prima della nuova preistoria della non storia (Pier Paolo Pasolini).

    Vi è un senso profondo e segreto nella scoperta della vita e nel delicato passare delle stagioni dove la ricerca dell’amore e il soave profumo delle pischelle era un dolce navigare sul letto dei sogni. Il letto dell’amore e il rotolarsi nei suoi gridi.

    E qui la donna diveniva la fonte e dolcezza nel morso amaro dell’Eden.

    L’Eden dove sono nate le stagioni, le dolci stagioni che scandiscono il nostro tempo umano, il nostro tempo sessuale. (O seni appena germogliati, già sospirosi, colmi e pieni delle future mire, v’ho adocchiati – dal Sentimento del tempo, le stagioni di Giuseppe Ungaretti). L’Eden è il principio dell’uomo e della sua solitudine e qui vi trovò la donna e in essa il principio della vita e della morte, il sogno delle cose, il suo cammino, il suo deliquio. (Ogni luce si è spenta e non vedo che i miei pensieri, un’Eva mi mette su gli occhi la tela di paradisi perduti – dal Sentimento del tempo di Giuseppe Ungaretti).

    La ricerca della sessualità femminile è stata per me sempre un mistero, un dolce mistero. Avendo letto molto, questo mistero è sempre stato accompagnato dai libri che leggevo. A diciassette anni lessi quasi tutti i romanzi Francesi dell’ottocento e quello che amai di più, avendo in me la disperata vitalità della libertà incondizionata, fu: L’uomo che ride di Victor Hugo. Questa splendida e tragica favola mi accompagnò per tutta la giovinezza. È una favola Shakespeariana, come in Giulietta e Romeo i due personaggi per incoronare il loro amore devono trovare la morte.

    In una notte di tempesta, tra tuoni e fulmini degli uomini s’imbarcano nonostante le proibitive condizioni del mare lasciando un bambino sulla spiaggia. La nave affonderà e prima di annegare quegli uomini lasceranno un plico in una bottiglia nel mare. Il bambino spaventato inseguirà in questa tempesta un lieve fumo che da lontano brilla nella notte, nel suo cammino incontrerà un impiccato che pendola da un albero e nonostante la paura e il ribrezzo continuerà il suo cammino. Inciamperà in un cadavere di donna che tiene avvolta in una coperta una neonata ancora viva, lui la raccoglierà e portandola con sé la salverà dalla morte. Arrivando in un paese bussò a tutte le porte cercando aiuto ma gli fu negato. Arrivò ad un carrozzone che era abitato da un lupo ed un uomo che subito li prese con sé. Quest’uomo si chiamava Ursus ed era un poeta, un filosofo, un medico, un alchimista che con il suo lupo addomesticato di nome Homo viaggiava in estrema libertà per tutta la Gran Bretagna. Prendendosi cura dei bambini continuò a girovagare per il paese, insegnando la sua filosofia e il suo modo di vivere ai ragazzi che crescendo s’innamorarono l’uno dell’altro, la gentilezza, la cortesia, l’affetto per Dea da parte del ragazzo erano assoluti nonostante la cecità della ragazza. Il ragazzo chiamato Gwynplaine per il taglio sulla bocca fino alle orecchie, da dargli quella smorfia di riso eterno come un ghigno da renderlo un mostro, non toccherà l’amore di questi ragazzi. Dea essendo cieca non poteva vedere il viso di Gwyplaine, lui però poteva vedere la bellezza di Dea. Queste due anime sensibili alla durezza della vita si legarono d’un amore intenso e profondo. In uno dei tanti paesi che attraversavano con i loro spettacoli, Gwyplaine viene arrestato e portato in prigione dove giaceva un torturato a morte di nome Harquanonne che confessò che il ragazzo era figlio d’un principe e che era stato rapito e sfregiato secondo quanto era scritto sulla pergamena ritrovata. Allora a Gwyplaine gli restituirono il titolo e gli onori, ma chi è vissuto libero non può ritornare in una società restrittiva anche se è ricca. Mentre Ursus e Dea vengono costretti a lasciare l’Inghilterra per il nuovo mondo, il ragazzo abbandonerà tutto e andrà a cercare la sua Dea, ma quando la troverà Dea debilitata morirà e lui che non potrà vivere senza la sua Dea si buttera nel mare e annegherà.

    Questo splendido romanzo anche se la sua fine è tragica, è un esaltazione alla libertà e all’amore. Come scrisse Shakespeare Se è vero che siamo fatti della stessa materia che sono fatti i sogni la nostra anima dondola come in un limbo nel sogno della carne.

    Ogni viaggio rappresenta un sogno anche se è reale. Si viaggia per tante cose, ma il più bel viaggio è quello della vita, quello della scoperta di noi stessi attraverso la nostra illusione di arrivare in qualche meta. Come scriverà Pasolini nella sceneggiatura del (Porno–Teo–Colossal): Epifanio è nel vuoto del cosmo guardando la terra che si allontana sempre di più, esclama! Il viaggio della cometa è stato un illusione della vita. Ma senza questa illusione non si sarebbe appreso il senso della realtà. Epifanio cioè Pasolini Eppure tutte le comete come la cometa che ho seguito è una stronzata, ma senza questa stronzata terra non ti averi conosciuto.

    Roma è la città della mia infanzia e della mia giovinezza che ho amato più di tutte. Ho scritto un romanzo su di lei (un amore non consumato) dove ne descrivo la sua storia millenaria e la sua bellezza come fosse uno scrigno pieno di pietre preziose. Ogni angolo o scorcio di Roma è un oggetto prezioso, dalle sue piazze alle sue vie, alle sue basiliche, ai suoi monumenti, ai suoi ruderi, ai suoi palazzi che contengono le cose più preziose del mondo dove il Tevere che scorre lento, lento ha visto nascere la sua storia cantandogli la sua gorgheggiante litania.

    Ho vissuto a Roma fino a diciassette anni. Passando l’estate della vita in una Roma ancora incontaminata, la Roma dei Romani, fino alla metà degli anni settanta (morte di Pier Paolo Pasolini) dove incominciava il genocidio antropologico del popolo Romano. Non è di maggio questa impura aria che il buio giardino straniero fa ancora più buio, o l’abbaglia con cieche schiarite … Questo cielo di bava sopra gli attici giallini che in semicerchi immensi fanno velo alle curve del Tevere, ai turchini monti del Lazio … Spande una mortale pace, disamorta come i nostri destini, tra le vecchie muraglie autunnali. In esso c’è il grigiore del mondo, la fine del decennio in cui ci appare tra le macerie finito il profondo e ingenuo di rifare la vita; il silenzio, fradicio e infecondo di quel maggio Italiano. Dalle ceneri di Gramsci nel cimitero Acattolico di Roma al Testaccio, accanto alla piramide Cestia – Pier Paolo Pasolini.

    La raccolta è stata pubblicata nel 1957 a quell’epoca avevo sei anni e andavo da solo in giro per piazza Cavour dove Castel Sant’angelo gli faceva da cornice e sentivo il profumo del Tevere che m’invadeva i polmoni in quelle giornate assolate di maggio dove Roma s’infiammava alla sua calura che solo il ponentino rendeva dolce con la sua brezza marina che trascinava il sapore del mare.

    In quegli anni a Roma le macchine erano pochissime, erano gli anni del dopoguerra e la vita riprendeva faticosamente dopo la tragedia. Era la Roma incantata, la Roma disadorna dalla sua stessa bellezza, la Roma della gioia del popolo che s’intrecciava alla borghesia Romana dove viveva ancora l’aristocrazia che per legame millenario era tutt’uno con la chiesa cattolica e dove il cupolone dominava severo con il suo colonnato a forma di braccia, dove il popolo si raccoglieva per ascoltare le parole del Papa per poi tornare alle loro misere case per il pranzo domenicale.

    La Roma che sopravviveva a se stessa, intatta nella sua bellezza dove tutta s’affrescava nelle pennellate della sua millenaria storia. Qui ho vissuto la mia prima infanzia nel cuore pulsante di Roma dove tutto è celato da una leggera penombra e i ricordi sempre più lontani, quasi impercettibili, sospesi in un vuoto che la memoria non riesce a raccogliere.

    Poi sono andammo a vivere alla Pisana, nel 1957, avevo sei anni. La pisana era formata allora da poche case, era tutta campagna, la mia famiglia per suoi motivi mi lasciò completamente libero, a casa non c’erano mai ed io potei vivere in estrema libertà, girovagando di giorno e di notte per queste immense campagne, non credo di aver fatto le elementari, non ricordo di essere andato a scuola, ricordo solo l’immensa felicità che mi dava il girovagare tra l’intensità della luce del sole e dei tramonti, le albe, i canti degli uccelli, le melodie dei sogni, i bagni nelle marane e nei fontanili dove bevevano gli animali che girovagavano liberi, liberi come ero io di godermi la libertà di essere nato.

    Quando Pier Paolo Pasolini pubblicò il famoso articolo sulla scomparsa delle lucciole, mi venne in mente, quando a giugno a sera andavamo in chiesa e per andarci dovevamo scendere in basso dentro una vallata, allora centinaia di lucciole come fosse un cielo stellato, attraversandole venivamo accarezzati come fossero veli lampeggianti nella frescura dell’immensa sera Italiana: non ho mai più visto uno spettacolo più bello in tutta la mia vita.

    Ricordo che abitavo al secondo piano e di sotto viveva una famiglia di neri che proveniva dall’Etiopia o dal sud dell’Egitto, ed essendo quasi sempre da solo, allora mi facevano mangiare con loro, pur essendo poveri e numerosi, e spesso e volentieri quando i miei genitori non rincasavano dormivo con la vecchia nonna come fosse mia madre.

    Era l’età del pane, quando i bisogni erano necessari ed essendo necessari i bisogni era necessaria la vita – Pier Paolo Pasolini. È in questa necessità dove non regnava il razzismo o il diverso, la necessità del pane ci rendeva tutti uguali e aperti agli altri. Non era la sola famiglia dove mangiavo, ma essendo un girovago, un piccolo fanciullo di strada tutti i compagni mi invitavano nelle loro case.

    Un giorno andai a casa da uno che avevo appena conosciuto, ed entrando nel bagno vidi la vasca piena di ranocchie che saltavano, gli chiesi che ne faceva, mi rispose me le mangio. Mi portò in cucina ne stava cucinando diverse con l’aglio, pomodoro e peperoncino, me ne offerse una, la mangiai, era buona, carne tenera e bianca.

    Era il tempo che non mangiavo quasi mai vivendo le giornate quasi sempre da solo o girovagando con gli altri pischelli e in questa solitudine della libertà della vita che mi ha permesso di considerare ogni società, una società repressiva che non soddisfa il bisogno interiore dell’uomo, ma l’include dentro delle regole per il suo sopravvivere che lo rinchiudono in gabbie sempre più strette.

    Mi ricordo che sotto casa mia, sulla via della Pisana c’era una dopo lavoro del popolo socialista dove spiccavano i grandi faccioni sui manifesti di Marx, Lenin e Nenni, vi era un bigliardo, dei flipper, dei biliardini e un piccolo bar con all’aperto dei tavolini. Era frequentato da sottoproletari e da contadini e qualche balordo e giovani ragazzi, io ero uno dei più piccoli. Mi ricordo che c’era una macchinetta dove si metteva venti lire e se veniva il tris di frutta vincevi. Era sera e ero solo, misi le venti lire e andai al bagno, dal bagno sentii scorrere i soldi, quando ritornai nella buca dei soldi la trovai tutta piena di scatarri e i grandi che mi guardavano credendo che lasciavo lì i soldi, misi la mano negli scatarri e presi i soldi e uscii. Se era al giorno d’oggi mi avrebbero caricato di botte.

    Mio padre dopo il fallimento della sua società dove aveva con gli Anglo-Americani costruito tutti i cimiteri per i loro soldati caduti nella seconda guerra mondiale, quando ancora abitavamo a via Cassiodoro, provenendo da una famiglia di imprenditori nati ad Albiolo nel Comasco che avevano costruito gallerie, ferrovie e strade sia in Svizzera che in Italia, altra famiglia di girovaghi che non stava mai ferma per un lungo periodo in un luogo. Come mio nono paterno che per i suoi lavori sposò mia nonna che era nata al Merlo, paesino montanaro del Veneto e gli diede dodici figli, che nacquero quasi tutti in luoghi diversi, il più grande ad Albiolo, mio padre e sua sorella una delle maggiori in Svizzera, un altro a Torino, altri quando ritornò ad Albiolo per costruire la grande casa che vendette per aprire le prime cave di porfido nel Trentino e lì nacquero gli ultimi figli, finché tutta la famiglia si trasferì a Roma e lì comprò la casa di via Algardi a Monteverde vecchio. Mio nonno materno era un ingegnere Ebreo che costruiva porti in tutta Europa e come raccontava mia nonna materna era sempre in giro per l’Europa, mia nonna materna discendeva da una vecchia famiglia aristocratica Romana. Mio nonno non sposò mai mia nonna, così mia madre nella carta d’identità portò durante il periodo fascista il marchio infame di N.N. figlio di nessuno, fino a quando alla fine della guerra si sposò con mio padre.

    Ed è forse questa complessità che è stata congenita nel mio DNA è nato il bisogno della libertà e del vagabondaggio più assoluto e il senso di non appartenenza a nessuna regola se non quella della mia identità.

    Il bisogno di ogni uomo o donna di essere libero, fuori dalle catene di una società opprimente, con i suoi falsi valori non identitari, cioè l’identità personale del vivere fuori da ogni schema religioso, sociale, familiare per non essere condizionato da cose che prevaricano la nostra stessa natura.

    E in questa primordiale ricerca di ciò che mi si rappresentava che ho cominciato il viaggio della vita.

    Dove i ricordi si fanno sempre più lontani e ritornano come in un montaggio d’un film (Pier Paolo Paolini) per ricostruire ciò che è stato e non ritornerà mai più.

    Quando attraversiamo la quotidianità del vivere abbiamo solo impressioni, le quali ci sfuggono per perdersi nei meandri della memoria, viviamo una realtà diretta che subito fugge per divenire un’altra realtà, solo con il passare del tempo attraverso la memoria recuperiamo la ricerca del tempo perduto (Marcel Proust) e ci identifichiamo in ciò che siamo stati.

    Questo libro è l’immagine di un vecchio che attraverso il recupero della memoria compone attraverso il viaggio, o il viaggio della vita il senso di ciò che è stato e il recupero di quell’umanità attraverso gli eventi vissuti che ci rendono misterioso il dono della vita.

    Quando vivevo alla pisana e mio padre incominciò con mio zio a fare a Roma i primi lavori di pavimentazione in porfido, ricordo che andavamo con una vecchia seicento a Maddaloni in provincia di Caserta alla ricerca di selciaioli per portarli a Roma e farli lavorare nell’impresa di mio padre. Mi ricordo che arrivammo di sera, in una sera piovigginosa e l’impressione di questo paesino estremamente povero, fuori dal tempo dove le acque scorrevano ai lati delle strade, mi diede un senso di disagio e di profonda tristezza. È la tristezza o la malinconia delle cose che ci rincorre nella vita che si espande nell’anima secondo gli stati d’animo che si diversificano con il contatto della natura e del suo manifestarsi.

    In quel periodo tornammo spesso in Campania dove si celava il silenzio e la luce calda dei giorni assolati. Tornammo a Maddaloni sempre per gli operai, stavolta di giorno e il vecchio paese si cullava al sole. Ciò che mi rimase impresso è il suo Castello – Castello Maddaloni di origine Normanna che domina dall’alto dei suoi 170 metri tutto il paese sottostante come fosse un vecchio lupo che ulula nelle notti di luna piena vecchie storie spettrali.

    Anche Caserta vecchia, il borgo medievale mi fece una grande impressione per la sua bellezza dove regnava un silenzio da renderlo mistico, con il suo Duomo e il campanile che lo sovrasta che si perdeva nell’azzurrità del cielo. Ero abituato alla bellezza di Roma dove imparai fin da bambino a fare miei i suoi monumenti ad esaltarli nelle immagini della mente. Andammo spesso a Napoli la città fondata dai Greci dove visse una delle loro Sirene, la vergine Partenope. La bellezza di Napoli e la sua caciara, quella degli scugnizzi che vedevo attaccati dietro ai tram elettrici e volevo essere uno di loro per divertirmi nel sogno della vita.

    Napoli e i suoi vicoli dove i panni stesi andavano da finestra a finestra come bandiere al vento. Il Vesuvio che dall’alto domina la città e mi fece impressione quando visitammo i campi Flegrei e le sue fumarole che sembrava di stare nell’anticamera dell’inferno.

    Quando sei fanciullo le immagini e i pensieri si dilatano e scorrono veloci, hanno un’altra dimensione quello della penombra dell’anima che abbiamo attraversato e s’imprimono nella memoria che li tiene racchiusi per la stagione invernale la vecchia dove tutto prende forma attraverso l’immagine dei ricordi che dondolano sospesi tra terra e cielo.

    Mi vengono alla memoria la visita agli scavi di Pompei ed Ercolano, queste città distrutte dalla furia del Vesuvio che mi appariva così tranquillo dalla sua sommità che dominava tutto il golfo e lì scoprii il senso della tragicità della morte e la potenza devastatrice della natura che non si cura degli affanni umani ma percorre un suo percorso a noi misterioso – Giacomo Leopardi.

    Già ero stato Napoli al tempo quando ancora abitavo a via Cassiodoro e il ricordo che mi riemerse più vivo è quello della grotta azzurra, quando mio padre mi disse di abbassare la testa, eravamo sopra una piccola barca e per entrare nella grotta c’era solo una piccola insenatura. Da lì la sua bellezza e l’acqua azzurra che rifletteva le sue luci sulle rocce. Il ritorno in traghetto dall’isola di Capri dove s’allontanavano da noi i tre faraglioni che come giganti di roccia si perdevano tra il calare della luce e il mare.

    Nel periodo della Pisana la sorella maggiore di mio padre con il marito costruirono una bella e grande villa a Torvaianica, in quel periodo era semideserta, vi erano poche case di contadini e pescatori. Ed ogni domenica d’estate ci si riuniva quasi tutta la famiglia con i nipoti che erano tanti ed era sempre una caciara, era solo pura gioia e allegria, l’allegria della vita. Non eravamo ancora adolescenti, solo mio fratello che era più grande di me di sei anni e che non mi ha mai potuto vedere. Fin da quando sono nato, si vede che come scrissero gli antichi tragici Greci venivo a usurpare un suo diritto di nascita come Caino e Abele, la letteratura è piena tra l’odio e la rivalità da parte d’un fratello verso l’intruso. Uno dei tanti esempi è la costruzione delle torri della cattedrale sulla piazza di Cracovia, la piazza del mercato.

    Due fratelli architetti uno maggiore e uno minore gli affidarono il compito di costruire le torri campanarie ai lati della cattedrale, il fratello più grande una volta finita, per la sua gelosia del fratello minore che la facesse più bella lo uccise, così che la torre del fratello non fu completata ed è più bassa. Poi il tribunale condannò a morte anche lui. Non ho mai considerato i gradi di parentela per sangue, solo quello paterno e materno. Il nostro D. N. A si perde nell’oscurità del tempo, allora qualunque legame e solamente fittizio e labile che si perde nel nulla delle cose se no come un riscontro che si riflette sia nella nostra coscienza e nella nostra identità individuale.

    L’esperienza di Torvaianica e stata nei miei ricordi molto bella. Eravamo fanciulli e

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