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La figlia di Caino, Volume 1
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La figlia di Caino, Volume 1

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SCRUTA OLTRE IL VELO DELLE TENEBRE
OSSERVA IL VERO MONDO CON GLI OCCHI DI UN IMMORTALE


L’ombra minacciosa di un antico golem serpeggia tra le campagne del centro Italia. Justine è l’unica a possedere la chiave per imbrigliare il pericoloso demone, ma la sua anima dannata la costringerà a compiere sacrifici inimmaginabili. La figlia di Caino, Volume 1 è il primo atto di una storia che potrebbe benissimo non finire mai, la storia di un mistero oscuro dai toni gotici che pian piano vi condurrà dinanzi alle schiere di quelli che sono i veri demoni del mondo, attraverso gli occhi di un personaggio che non può non essere reale; emozioni e sensazioni, pensieri e turbamenti di una donna, a volte fanciulla, altre volte creatura millenaria, ma sempre passionale e viva. Justine si nutre con astuzia della mortalità, ma vi cerca anche il freno per non cedere all’Io violento che concede vita alla sua anima immortale.
LanguageItaliano
PublisherMyth Press
Release dateSep 8, 2019
ISBN9788885465039
La figlia di Caino, Volume 1

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    Book preview

    La figlia di Caino, Volume 1 - Natascia Norcia

    CREDITI

    Prima Edizione Digitale – Settembre 2019

    La presente edizione è una versione in formato digitale della prima edizione cartacea con ISBN 978-88-85465-02-2. La prima edizione è stata prodotta in tiratura limitata e numerata, ponendo una maggiore cura al suo confezionamento. Potete acquistare la prima edizione in libreria oppure sul nostro negozio online: shop.mythpress.eu.

    Vi invitiamo a visitare la nostra pagina facebook e quella dell’autrice Natascia Norcia e a lasciare un commento sulla vostra esperienza di lettura.

    Qualsiasi riferimento a cose o persone reali è puramente casuale. Alcuni contenuti di questo libro possono risultare espliciti e molto forti. Ne è pertanto consigliata la lettura a un pubblico maturo.

    www.mythpress.eu

    Myth Press© è un marchio concesso in esclusiva a

    Creative Place via Giulio Salvadori 28 – 52100 Arezzo

    Editore Luigi D’Acunto

    Curatore editoriale Mirko Biagiotti

    Redattore Filippo Gliozzi

    Illustrazione di copertina Diana Mercolini

    Autrice Natascia Norcia

    ISBN 978-88-85465-03-9

    Natascia Norcia

    La figlia di Caino

    Volume I

    A mia figlia.

    Se non saprai in cosa credere, credi sempre in te stessa.

    Prefazione

    Conobbi Natascia all’inizio del mio viaggio con Onnigrafo; lei e altri quattro scrittori si davano tantissimo da fare per essere all’altezza delle mie aspettative, ma non sapevano affatto che io per primo stavo cercando di fare la medesima cosa. Mi ricordo i primi brani che ella mi inviò, ricordando ancora oggi il mio stupore quando venni a conoscenza che non aveva ancora pubblicato nulla. Natascia è geniale e lo scoprirete ben presto leggendo questo libro; padrona della lingua italiana, ne fa un uso impeccabile e in poche righe riesce a catturare l’attenzione del lettore, a imbrigliare e trascinare dentro il suo mondo chiunque. Leggendo La figlia di Caino vi accorgerete ben presto che le chiavi di lettura sono davvero tante e forse sarete attratti dal rileggerlo, per scovare quelle sfaccettature che si celano dietro ad un ricordo o una visione della protagonista.

    Questo libro è il primo volume di una storia che potrebbe benissimo non finire mai, la storia di un mistero oscuro dai toni gotici che pian piano vi condurrà dinanzi alle schiere di quelli che sono i veri demoni del mondo, attraverso gli occhi di un personaggio che non può non essere reale; emozioni e sensazioni, pensieri e turbamenti di una donna, a volte fanciulla, altre volte creatura millenaria, ma sempre passionale e viva. Justine si nutre con astuzia della mortalità, ma vi cerca anche il freno per non cedere all’Io violento che concede vita alla sua anima immortale.

    E che dire dei personaggi di cui si vizia? Compagnie di certo non morali che spesso riflettono il lato ambiguo dell’umanità, quel lato oscuro della nostra esistenza primordiale di quando la bestia che è in noi dominava emozioni e voleri. Anche questi come una proiezione tangibile rafforzano la struttura di un mondo, che se pur può apparire effimero, è ben pensato e strutturato. Oscuro quanto basta da farlo sprofondare nelle tenebre dell’horror e del paranormale ma rendendolo comunque vero.

    Leggete quindi questa storia, indipendentemente da quello che sapete sui demoni notturni, sulle tenebre e sulle arti occulte. Non saranno le passioni frivole di giovani amori impossibili a coinvolgervi, ma il retaggio che si cela nel sangue degli immortali.

    Mirko Biagiotti

    Introduzione

    Il tepore della vita che sorge oltre i neri mari dell’oscurità intacca i pochi sentimenti che mi son rimasti, dilaniati dai secoli di dolore.

    Una volta ogni cento anni vengo su questo monte e cerco di ghermire la sua mano, di resistere a quell’odio terreno che mi allontana da lui. Mi inebrio del suo infinito amore e guardo quella stella dorata che così tanto mi manca. E attendo sino a quando il vento strappa via la cenere da sopra le mie ossa a ricordarmi che devo fuggire per non morire.

    Sono sopravvissuto a sette soli.

    La mia è invidia… So che siete anime dannate a una vita mortale, eppure vi invidio, perché potete vivere ogni ciclo senza provare nulla. Senza sentirne la mancanza. Osate chiamarla vita e osate chiamare noi dannati, demoni, vampiri. Provo invidia e dolore per voi, creature immemori di una storia che si perde nel vostro sangue diluito da generazioni di credenze deboli, di dèi pagani, di guerre inutili e di miserabili compromessi.

    Vi ho visto piangere, mortali, per le cose perse. Vi ho visto dannarvi per un lembo di terra arida, di grano malato, di metalli lucenti. E osate chiamare noi dannati. Non ricordate nulla del vostro retaggio, come vi siete moltiplicati più dei servi di Lucifero, più delle tentazioni della carne; piegati al tempo, costretti a contare i giorni nell’eterna speranza di respirare ancora, domani.

    Avete dimenticato, eppure il bacio divino non vi consuma, anzi arde dentro voi. E noi, primevi, vivi da quando il buio era eterno, fuggiamo veloci nelle tenebre timorosi di essere toccati da quel fuoco che ci brucia da dentro, che estingue la nostra immortalità. Noi che ricordiamo di chi siamo stati figli, il cui eco ci ricorda il nome di ogni nostro avo fino a quello della madre di tutti gli uomini, siamo costretti a nutrirci di voi, nell’oscurità.

    Per questo vi invidio.

    Noi siamo i guardiani della vostra mortalità e siamo noi a esser stati privati della vita. C’è chi ha timore di sé e medita per non cedere all’odio primordiale, e chi come me pasteggia con il vostro sangue per assaporarne il debole calore che questo gli concede.

    Lo facciamo per scaldare le nostre membra.

    Non sai quanti mortali ho strappato dalla luce…

    Ricordi la sabbia calda sotto i piedi? L’acqua cristallina, il riflesso lucente, il tepore sul viso al mattino? Ricordi i rumori della notte, la voce del mare che si infrange sulla costa, il vento che sibila tra gli alberi? Ricordi la tua mortalità?

    Io non più.

    Nel vostro sangue, creature fragili, incontro i vostri ricordi, mentre rubo voi non più di un attimo di vita, un momento, anche se l’ultimo. E in pochi vi ho sentito pensare uccidimi. No… In tutti voi è vivida la speranza di svegliarsi dall’incubo predatore, di respirare ancora alla successiva alba.

    Ed è quando trovo quel raro pensiero fuggente, quel desiderio oscuro, che torno mortale per un attimo. E credimi, vale tutta l’attesa dell’eternità. L’ho percepito ancora prima di sfiorarti. Dimenticati dei tuoi sogni, quello che hai inconsciamente desiderato adesso è reale.

    Non temere… Morire farà male, ma durerà un solo istante.

    Akklam Tjuefem

    (da Il sangue di Lilith, libro XXIII)

    Conca

    C’è un momento per la partenza anche quando non c’è un posto certo dove andare.

    (Tennessee Williams)

    «Prendo solo poche cose, tanto starò fuori solo un paio di giorni, al massimo tre»

    Poi, invece di ritornare, continuava a chiedere che gli venissero mandati altri bagagli. Dopo l’invio di valigie di vestiti, in casa cominciarono a essere tolti anche i libri e tutti quegli arnesi per il giardinaggio che gli potevano servire a coltivare le sue piante. Alla fine la mancanza di Edoardo quasi non si sentiva, anzi; era assenza, non mancanza. La casa era tranquilla e serena, magari con meno gente e meno feste mondane, però i tempi erano più dilatati. Justine riusciva a ritagliarsi tutti quegli spazi che di solito non aveva a disposizione; passava ore davanti allo specchio a pettinarsi, sceglieva con calma i suoi vestiti, aveva persino ricominciato ad andare a teatro con maggiore assiduità. Era quasi serena per quella lontananza di cui non conosceva il motivo. Di giorno poteva dormire senza preoccuparsi di nulla. La notte scorreva lenta e senza scossoni di alcun tipo. Rideva, si nutriva senza generare troppo clamore, si concedeva teneramente al suo fidato André. E del suo mentore e protettore, nonché carnefice e tiranno a porte chiuse, non sentiva alcuna nostalgia.

    «Credo sia arrivato il momento che tu mi raggiunga» Poche parole. Alla fine Edoardo non amava esprimersi con troppa gentilezza e troppa diplomazia, soprattutto con Justine. Era il tipico uomo abituato a dare ordini ed emanare sentenze senza che nessuno si azzardasse a contraddirlo.

    Bisogna che cominci a pensare di andar via, ma forse sarà soltanto per poco tempo. Justine se lo diceva come per convincersi di qualcosa sul cui esito, però, non era del tutto sicura.

    «Vuota la casa Justine, prendi tutte le tue cose» Alla fine Edoardo lo aveva detto. Era piuttosto complicato raccogliere in pochi giorni i ricordi di una vita tanto lunga. Scatole di lettere, qualche foto sbiadita, libri di ogni tipo, compresi quelli da mettere nel baule piccolo, avvolti nei vecchi asciugamani di lino con le cifre ricamate J.O.F., Justine Orsini del Ferrante.

    Quei libri antichi, rovinati, con le copertine ricamate da lettere incise, ormai sbiadite dal tempo. Alcuni pieni di fogli scritti con la stilografica e fiori messi a seccare tra le pagine. E poi tutti quei vestiti, quei cappelli, quelle scarpe, borse di ogni foggia, di ogni materiale, di ogni colore. E gioielli che provenivano dai posti più strani e dalle epoche più svariate. Piccoli e grandi simboli di una vanità radicata in lei più di una quercia secolare. Pochi giorni per poter raccattare una vita. E poi cambiare di nuovo il letto dove si dorme.

    A Justine i cambiamenti non piacevano affatto: le mettevano ansia, aveva sempre paura di non trovare ciò che la potesse rendere serena, e riempire i bauli con le sue cose non faceva che accrescere questa sua enorme tensione.

    La sua vita con Edoardo si era ormai ridotta a un’interminabile sequela di ordini a cui obbedire. Era solo grazie a quell’alto uomo dai capelli rossi e la barba incolta se aveva fatto grandi passi nella comunità cainita che viveva a Torino. Dove arrivava lui, pareva che arrivasse un nuovo re Mida. Qualunque cosa gli interessasse, cominciava in poco tempo a rigurgitare denaro e guadagni sotto ogni forma possibile. Nei rari momenti in cui Justine provava a sollevare la testa in un bagliore di orgoglio, e non solo per civettuoli atteggiamenti vanesi, lui le ricordava quale creatura smarrita fosse quando lui l’aveva raccolta.

    Ma da dove? Era una domanda che la donna si faceva spesso. Insieme a molte altre. Ma, come tante altre volte, le risposte restavano appese a chissà quale chiodo.

    Avevano parlato poco per telefono quella notte, sembrava quasi che le telefonate dovessero essere fatte sotto forma di telegramma. Poche informazioni. Tanto non servono Justine, basta che ubbidisci.

    «Ma avrò una casa laggiù? O comunque un posto dove stare?»

    «Sta’ tranquilla. Con tutta la roba che ti porti dietro non puoi certo andare a dormire per strada!»

    Ironico come sempre, nonostante le sue paure gli fossero ben note; la cosa che gli riusciva peggio era proprio infondere coraggio a chi aveva intorno. Ma Justine forse non ne aveva bisogno, perché di coraggio ne aveva, altrimenti non sarebbe arrivata fin dove era; o forse non era coraggio, ma una assurda ingenuità che ancora si portava dietro.

    «Ho trovato una casa singola, molto grande. La troverai piena di tutto quello che ti piace, ti ho scelto delle tende di velluto pesante. E tappeti. Molti. E c’è il bagno padronale con una grande vasca. È proprio di fronte alla residenza di Agnes, dove alloggio io»

    «Ma la residenza di Agnes è un bordello!» Justine cominciava già a fare capricci. «La residenza di Agnes è una bellissima dimora dove va gente altolocata a distrarsi dai disagi quotidiani» Il tono secco di chi ha appena ricevuto una puntura d’insetto. Un tono immediatamente riconoscibile, che anche solo attraverso un cavo del telefono genera immediatamente un rientro nei ranghi.

    «Resta comunque un bordello, Edoardo. E sono anche illegali»

    «Meglio che ignori quello che hai detto, Justine. Piuttosto, ti dirò di più, mia cara: la casa sicuramente non sarà finita per quando sarai arrivata, quindi per qualche giorno dormirai alla Maison. Agnes sarà contenta di ospitarti: le ho parlato molto di te, vedrai che diventerete subito amiche»

    Justine tollerava poco persone del calibro di Agnes. Trovava assurdo e viscido che una donna potesse barattare il proprio corpo, fingendo piacere con uomini sconosciuti, in cambio di denaro.

    Il sesso non è una compravendita, il sesso è uno scambio, un dono, un rituale alchemico. Ecco perché l’idea di dover essere non solo sua vicina di casa, ma addirittura sua ospite, non la metteva nella miglior disposizione d’animo per farle fare le valigie.

    Forse era il momento di cominciare a fare i capricci. Justine non voleva proprio crescere: piuttosto che intavolare una discussione matura e paritaria con quell’uomo, preferiva pestare i piedi e piagnucolare isterica.

    «Non voglio venire giù. Non mi piace quella città e sicuramente non mi piace la gente che ci vive. Io non parto Edoardo, non voglio partire»

    «Credo che dovrebbe interessarti poco la gente che c’è e il posto. Ho bisogno di te qui. Justine, gli affari stanno girando in maniera diversa. In questa zona si lavora bene e siamo abbastanza insospettabili»

    «Non potresti continuare a stare lì da solo? Posso comunque continuare a gestire gli affari da Torino. Non cambia molto!»

    «Ho bisogno delle tue mani qui. Della tua mente, delle tue conoscenze. Sai come chiamano questa zona e questa città? La chiamano la conca. Ecco, sotto questa conca, che, ti avviso, sicuramente non ti piacerà, c’è qualcosa che ribolle. Qualcosa che, nel momento in cui spunterà fuori, e speriamo di essere in grado di evitarlo, farà un bel po’ di rumore. Ci sono giri strani qui, Justine: gente che sparisce, strani personaggi che appaiono. Ecco, un soggetto come te renderebbe tutto molto più bello, un po’ come una rosa all’interno di un giardino incolto. E comunque, tesoro mio, non puoi dirmi di no»

    Non era stato affatto convincente, anzi. Non era affatto riuscito a tirarle fuori la minima voglia di prendere e partire. E poi non era davvero abituata a far bagagli. Se non avesse avuto delle persone attorno che la aiutavano non ci sarebbe mai riuscita.

    In quei giorni il salone di casa era diventato una sorta di ripostiglio, un grande magazzino variopinto pieno di valigie, bauli, borse. «Non ho abbastanza cappelliere, i cappelli si rovinano se si mettono uno sull’altro»

    Ma i cappelli non vanno più di moda, si potrebbero anche buttare, magari basta tenerne un paio, giusto per sicurezza. E anche le pellicce, Justine, ormai sanno di vecchio e hanno odore di chiuso. Cambiando città e casa, magari, lasciarsi qualcosa dietro non sarebbe male.

    La prima valigia ricordo di averla vista a 5 anni, quando ho lasciato Vondé. Lì ero stata allevata da una coppia di agricoltori di mezza età che con somma fatica, una bella mattina di maggio, mi hanno dovuto restituire a quella che era mia madre, quando è tornata a reclamare la sua progenie. Sono cresciuta in una casa di campagna, con tutte le cure che si potessero immaginare a quei tempi. Nata a Vondé nel 1890, in Francia. Mia madre faceva la ballerina in qualche locale nei dintorni di Nancy, una cittadina all’epoca piuttosto anonima, anche se alla famiglia aveva raccontato di fare l’attrice a Parigi. Probabilmente, data la fretta di liberarsi di me, avrà semplicemente fatto la prostituta in qualche bordello, dato che non sapeva pronunciare più di tre o quattro frasi in francese. Ecco perché, quando stavo per nascere, si è spostata in Bretagna e lì mi ha lasciata in custodia a una famiglia che non aveva avuto figli. È stata quella mattina che ho visto per la prima volta una valigia. Era una valigia di pelle, o forse di cartone color pelle; aveva delle grandi chiusure dorate ed era abbastanza grande in mano a quella donna magra, dai capelli castani e gli occhi dello stesso colore della terra, così poco affascinante e talmente banale da confondersi tra la folla di un mercato di paese. Pochi istanti dopo averla vista entrare dalla porta di casa, vengo a sapere che si trattava di mia madre. La valigia l’aveva portata vuota con sé, e quelli che io pensavo fossero i miei genitori le aprirono i cassetti del comò nella mia stanza, dicendole che poteva prendere tutte le mie cose. Mentre la donna che mi aveva cresciuto piangeva mesta in un angolo, tenendosi un lembo del vestito a comprimersi gli occhi, mia madre, quasi schifata, tirava fuori i miei vestiti da quei cassetti profumati di lavanda. Nella valigia finirono solo poche cose: qualche maglioncino colorato, di quelli fatti ai ferri, un paio di vestitini a fiori, delle calze di lana. Le altre

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