Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Le città cadute - Cronache di un'apocalissse
Le città cadute - Cronache di un'apocalissse
Le città cadute - Cronache di un'apocalissse
Ebook381 pages5 hours

Le città cadute - Cronache di un'apocalissse

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Non può esserci spiegazione valida che interpreti il sottile, onnipresente anelito dell’umano all’autodistruzione. L’uomo crea solo per distruggere, anche quando camuffa la parola con quell’ansia di cambiamento, ricostruzione, svecchiamento, che tanti proseliti e teorici ha ormai conquistato in ogni angolo del pianeta.“Le città cadute” è il romanzo che più di tutti trasporta sul piano fantastico e immaginifico un filone apocalittico fonte di tante celebri produzioni cinematografiche. Ovviamente, l’approccio mantiene l’originalità e la perizia che un autore “visionario”, al pari del suo narratore, è in grado di infondervi.Le cronache seguono i diari di Flavio Damiani, condannato suo malgrado a essere portatore del messaggio di disfacimento della civiltà urbana in ognuna delle metropoli in cui, in un giro del mondo durato venti mesi, è costretto a recarsi dalla furia indomabile dei Creatori.La lettura dei diari offre anche al lettore un curioso modo di avvicinarsi alla storia e all’architettura monumentale di tredici città, di cui sei italiane, proprio nel momento in cui tali meraviglie, osservate “dall’interno”, cadono in polvere nel corso di un’emergenza globale e mai affrontata, prima d’ora, dall’uomo sulla Terra.Falsamente accusato di velleità terroristiche o nichilistiche, Damiani si fa alla fine portatore di un messaggio di conforto e speranza per un’umanità al momento (proprio nel mondo del lettore) invischiata in un’ansia di progresso, crescita, freddo intellettualismo, che rischiano di distruggere moralità, dignità, libertà dell’individuo ancor più dei maestosi grattacieli e delle ariosissime cattedrali delle città cadute.
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateSep 4, 2019
ISBN9788834180617
Le città cadute - Cronache di un'apocalissse

Related to Le città cadute - Cronache di un'apocalissse

Related ebooks

Children's Science Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for Le città cadute - Cronache di un'apocalissse

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Le città cadute - Cronache di un'apocalissse - Raffaele Isolato

    Damiani

    Prefazione

    A memoria di quanti vissero i due anni della grande catastrofe, e di tutti coloro che desiderino conoscere le paure, i pensieri, le gesta e le emozioni degli uomini che soccombettero alla più immensa sciagura che abbia mai colpito la Terra dall’alba della sua storia, si raccolgono qui le pagine del diario inedito di Flavio Damiani, il profeta dell’ultima apocalisse, e di alcune delle sue più strette conoscenze.

    L’accurato lavoro di ricerca, ricopiatura, analisi e interpretazione delle calligrafie spesso illeggibili, ha richiesto diversi anni di fatiche e minuziose codifiche, alla fine ricompensati dall’esordio di quest’opera unica nel suo genere, la prima di cui si auspicherà una diffusione globale, dopo l’eclissi delle grandi macchine da stampa.

    Non ebbi il privilegio di conoscere Damiani se non negli ultimi anni della sua vita, quando aveva già da tempo iniziato un’esistenza da esule ramingo, fedele alla promessa fatta a se stesso e a Loro di non cercare mai più rifugio sotto un tetto costruito dall’uomo, o sull’impiantito di una costruzione ove tecniche artificiali avessero manomesso il libero, spontaneo corso della natura.

    Ricordo un vecchio magrissimo, curvo, coi capelli bianchi ancora folti, e la barba che arrivava a metà del petto per nascondere le grinze del collo rachitico. Il suo sguardo era per metà velato dalle palpebre cadenti, ma la poca luce che ancora lasciava scorgere all’osservatore incuriosito, serviva a testimoniare la sua ansia di prescelto, d’uomo solo di fronte al destino anomalo, grandioso, impervio e insopportabile che in una manciata di mesi lo portò ad assistere alla fine del mondo come l’avevano conosciuto i suoi padri, e prima di loro gli avi per generazioni e generazioni addietro.

    Non mi rivolse che un saluto spicciolo, forse turbato dalla fissità della mia attenzione eccitata dagli innumerevoli discorsi che avevo sentito fare da mamma e papà sul suo conto. Non ero che un bambino, allora: eppure bastò il timido cenno dei suoi occhi angustiati dal rimorso perché decidessi (stavolta consapevolmente, e investito di mia volontà della missione a cui avrei dedicato la vita) di consacrare ai posteri le memorie sparse per il mondo dell’uomo che fece da intermediario alla vendetta dei Creatori sulla razza umana.

    Fu un vero e proprio avvento, infanti. L’inizio della fine non fu che la rivelazione della presenza di divinità che dagli albori della storia dell’uomo sulla Terra avevano assistito all’evolversi della sua civiltà, dei suoi progressi, delle sue mirabili invenzioni tecniche e scientifiche. E questi stessi dei (dal Damiani soprannominati Creatori), così come dovettero sentirsi orgogliosi della ragione fiorita nel cranio di noi loro creature, delle nostre conquiste e della nostra coscienza dell’eterno, così decisero un giorno e senza alcun preavviso di ferire a morte nel loro punto nevralgico secoli e millenni della nostra epopea civile e culturale.

    Nessuno ancora riesce a capirne il vero motivo, né se ci sarà ancora, fra qualche anno o secolo o millennio, una nuova apocalisse. Milioni di uomini soccombettero, altrettanti ne perirono per le conseguenze delle catastrofi globali negli anni a seguire: nei cuori di tutti, ancora oggi, permane la mortificazione di chi un tempo si credette destinato a lasciare la sua impronta immortale nel cuore dell’universo, e che oggi invece entra ed esce dal proscenio dell’esistenza quasi in punta di piedi, costruendo senza pretese, inventando senza superbia, declamando la propria ansia d’eterno con un sussurro, preda dell’istintivo, mai sopito terrore di attrarsi l’ira di quei pochi Supremi che tirano le fila del fato mortale.

    A memento vostro, cari lettori, seguono qui le cronache di un’apocalisse inaspettata, e di certo mai concepita neppure dalla fantasia dei visionari più arditi, di coloro che nel corso della storia ci videro tutti superbi protagonisti, non essendo noi, in verità, che vuote marionette destinate al rogo delle grandi città cadute.

    - Il Curatore

    R.I.

    notA DELL’AUTORE

    Non so chi penserà a pubblicare, a raccogliere questi fogli sparsi, a farsi carico della loro diffusione. Non io.

    Io mi sono limitato a scrivere quello che ho visto, per fortuna mia o di chi volle che scrissi, dal primo giorno in cui le stelle mi imbarcarono in questa folle, pazzesca, mitica e delirante avventura nelle terre dell’uomo. Un giro del mondo in venti mesi, potremmo definirlo, ma che è valso millenni di storia: la storia è stata annientata dalla mano di chi volle che fosse, e che poi se la riprese col suo carico d’inchiostri, monumenti, testimonianze e reperti di un’antichità dimenticata.

    E la pietra, la pietra… Questo male che ci siamo tirati addosso fin nella tomba, che ci vede nascere sotto il tetto di case, cliniche, tetri musei dell’orrore: che ne è più, della pietra? Il dito di un dio l’ha polverizzata, la mano di chi regge i pilastri del pianeta l’ha scossa e crepata, per umiliarci e sprofondarci nel più profondo degli abissi dalle nostre fragili, bizzarre torri d’avorio. Ho dovuto cedere la mia, e a quale prezzo!, perché l’effetto domino si propagasse per tutti e cinque i continenti, portando le macerie non di una catastrofe elementare, non di un’apocalisse di vento, o d’acqua, o di terre che tremano. Quella registrata in queste pagine, che forse oltre a me i miei figli, o i figli dei miei figli leggeranno, è l’Apocalisse in maiuscolo, quella che nessuno mai avrebbe auspicato per una stella lontana anche miliardi e miliardi di anni luce da noi.

    Dissoluzione, da quel lontano maggio in poi, non fu più una parola che investe un pensiero che ci sfugge, un ricordo che svanisce. Dissolta può essere la pietra che cede, si sbriciola, passa dallo stato solido a quello aereo, e poi da questo al nulla dell’universo che glaciale e crudele ci fissa dalle concave immensità al di sopra della notte. L’ultima apocalisse del mondo fu appunto questa: quella delle grandi città abitate, e non solo.

    C’era la cuccia di un cane, una abbandonata chissà quanti anni prima dal suo stesso proprietario a quattro zampe, nei pressi del terreno acquistato dalla mia famiglia per farci un agriturismo. La notai quasi subito, nella nostra prima visita al vecchio proprietario.

    Guarda che bella cuccia, qui solitaria in mezzo al nulla, feci notare a mia moglie, incantata dalle bellezze dell’uliveto dei Pacetti.

    Sarà stata di un cane da guardia, uno che si era stufato di stare sempre accuccia a non veder passare nessuno.

    Non aveva capito. Io mi riferivo alle proporzioni armoniche del tettuccio appuntito in tegole rosse, delle pareti mattoncini gialli, delle finte finestrine ai lati con le ceramiche azzurre che fungevano da vetri.

    Quella cuccia, qualche settimana dopo, non ci sarebbe stata più. Dopo aver seguito le sorti di tutte le case, di tutti gli edifici, di tutti i monumenti e le banchine della terra, di essa non sarebbe rimasto che un mucchio di detriti.

    Ancora oggi noi vecchi, che ci apprestiamo a lasciare la Terra in eredità alle prossime generazioni, ci chiediamo chi furono questi dei, queste forze o queste semplici leggi, fatalità antropomorfe che vollero la nostra rovina. La risposta non c’è, perché si è dissolta assieme alla pietra, e alla civiltà che vi poggiava come su di un altare dedicato al nostro ingegno architettonico.

    La domanda da porci sarebbe allora: abbiamo imparato qualcosa? Mi guardo intorno, io vecchio barbone, ramingo per le vie dissestate dell’umanità sopravvissuta, e posso azzardare qualche vaga risposta. Oggi abbiamo imparato a non costruire palazzi troppo alti, a non varare navi che assomiglino troppo a complessi edilizi con più di cinquemila ospiti a bordo, a non progettare piedistalli imponenti per le statue che celebrano i nostri morti più gloriosi.

    Si cammina a passi più leggeri per le vie del mondo, da quel maggio in cui la fine ebbe inizio. Si celebra Iddio sotto gli alberi, ci si raduna in Parlamento su gradoni di tufo esposti all’inclemenza degli elementi, ci si corica in semplici tende che tremolano e cigolano al soffio della prima tempesta.

    Per quanto ancora? Possano queste pagine d’un uomo come tanti, scrittore assolutamente involontario, manifestarsi all’ingegno dei nostri discendenti non appena essi cominceranno a dimenticare il monito dei Creatori, e a far della pietra edile l’ultimo, insostenibile coperchio del loro sarcofago millenario.

    - Flavio D.

    CAPITOLO 1

    La fine ha inizio

    Roma, 3 maggio

    4.00 a.m.

    Non so perché scrivo. So che devo.

    Ho cercato di ignorare il sogno, le visioni, tutti gli attimi di una realtà parallela, sovrapposta, che si intersecano a quelli di tutti i giorni che trascorro a casa, a lavoro, con i miei cari. Ed è dura far finta di niente, e continuare a sorridere, lavorare, conversare con quelle immagini terribili che mi intasano la mente. Terribili, sì, come il sogno di questa notte, e di quella prima, e di quella prima ancora.

    Decido allora di scrivere tutto su questo diario, perché magari se le rileggo a mente lucida, fredda, queste visioni mi paiono per quelle che sono, semplici immagini di una mente stressata, che ha bisogno di cambiare vita, abitudini, luoghi.

    Amina è mia moglie e lo sa bene. Siamo sposati da dodici anni e… ma a chi lo dico, per chi lo scrivo? Questo quaderno è troppo infantile anche per me, che sono un sognatore nato e che nell’agenzia di turismo dove lavoro da impiegato da più di cinque anni passo per l’uomo dai sogni realizzabili. Ora che ci penso, si intona con lo spirito del giovane che fui: un quaderno dalla copertina gialla, popolata di eroi dei fumetti, con sullo sfondo una città fatta di fiumi, ponti e grattacieli.

    Come nel sogno.

    Dunque, sono qui seduto al tavolo della cucina. Mia moglie e i bambini dormono, io mi sono svegliato troppo presto anche per aspettare con calma il mattino, e ricordare a tutti di vestirsi presto perché oggi abbiamo appuntamento con la nostra nuova vita: l’agriturismo, i progetti di ristrutturazione, l’atto di compravendita. Perché non ci ho pensato prima… prima di impazzire?

    Vedrai che è solo un momentaccio, tesoro. Capita, quando si affrontano cambiamenti così drastici. Io ho preso delle goccine per dormire l’altra sera, sai? Non ti illudere di essere nervoso soltanto tu, ha cercato di consolarmi Amina proprio ieri. Mi vede cambiato, lo so. Sono pallido, non ho più appetito e a volte dimentico anche di esigere il bacio della buonanotte da Paolo, il più grande.

    Siamo stressati tutti? E allora perché ora lei dorme beata nell’altra stanza, mentre io sono qui a tremare ancora una volta per quel cazzo di incubo? Città, città, città ovunque. E nell’ultima proprio Paolo che chiedeva aiuto dalla cima di un grattacielo di venticinque, trenta piani, con me che non lo vedevo né udivo propriamente, ma che sapevo per certo che si sarebbe schiantato prima o poi, senza che il suo papà ce l’avesse fatta ad arrivare per acchiapparlo in tempo, rampa dopo rampa, per quelle file interminabili di scale...

    I miei sogni non sono propriamente tutti uguali, ma in ognuno di tratta di cataclismi, orribili terremoti, palazzoni enormi, pericolanti, con niente di sicuro su cui poggiare un piede nel raggio di chilometri. Ci sono sempre e solo io a scappare da portoni scardinati, travi collassanti, finestre scoppianti in frantumi e lampioni che mi cadono addosso come tentacoli di ragno. Incubi comuni, certo, per chi sa di potersene liberare appena sveglio. Perché invece questa sensazione di terrore non mi lascia mai, neppure adesso?

    Ho pensato di iniziare la mia nuova vita acquistando un agriturismo già avviato nelle campagne a Est di Roma, alla vigilia del mio quarantesimo compleanno, di modo da abbandonare un lavoro che mi ha appassionato per anni, ma che non soddisfa più quel che desidero da una pausa perfetta dagli impegni della quotidianità, dal caos della vita urbana, dalle piccole e grandi preoccupazioni della società civile. Vendere pacchetti viaggio a turisti annoiati è un conto, ma offrire loro la serenità direttamente sul posto, vederli felici di distrarsi e di dimenticare gli affanni a contatto con la natura, immersi nel silenzio di frutteti e vigneti a perdita d’occhio, è un’emozione che ha pochi rivali nella vita.

    Perché allora la mia mente continua a mandarmi messaggi di dolore? Perché non appena chiudo gli occhi inizia il viaggio all’incontrario nell’altra vita, quella dei sogni allo specchio, dell’inconscio tenebroso, del buio innominato? Se provassi ad analizzare le immagini ora che sono ancora vivide e chiare di fronte a me, forse…

    Ecco che mia moglie si sveglia. Mi chiama, vuole che la raggiunga a letto.

    8.00 a.m.

    Devo aspettarli come al solito. I bambini, eccitati perché perdono una giornata di scuola per far visita all’agriturismo, fanno casino e mettono a soqquadro la casa, col risultato che siamo in ritardo pur avendoli svegliati tutti e tre un’ora prima del solito. Amina è una santa, in questi casi. Già pronto, non ho trovato altro da fare che riprendere in mano il quaderno di mio figlio.

    Non si può nascondere nulla a mia moglie. Di ritorno a letto alle prime luci dell’alba, mi chiedeva con la voce impastata di sonno cosa avessi che non andava.

    Hai avuto uno dei tuoi incubi?

    No, tesoro. Non è nulla.

    Ti sei alzato.

    Ero in bagno.

    La luce accesa era in cucina. Allora, mi dici o no che succede?

    Nulla, davvero. Dormi, adesso.

    Stamattina, intenta ad apparecchiare la tavola per la colazione, pareva aver già dimenticato i sospetti di qualche ora prima. Vederla sorridere, eccitata per l’avventura che ci aspetta in campagna, è in grado di ripristinare tutte le forze che avevo creduto perdute questa notte.

    I tuoi sono stati molto generosi, a permetterci di scegliere la proprietà più grande, ha esordito mentre la ammiravo di spalle, il fondoschiena in risalto sotto la vestaglia allacciata alla vita, sottile. In cucina si spandeva già l’odore del caffè che stava preparando: per la prima volta dalla sera prima tornavo a sentirmi felice, motivato.

    Era anche quella che ti piaceva di più, no?

    Quella con più spazio per i nostri ospiti…

    Ti sembra già di vederli, eh?

    Si è voltata, regalandomi il più radioso dei suoi sorrisi. Mi è venuta voglia di prenderla lì dov’era, stordito e rinvigorito dall’aroma di caffè e di brioche alla marmellata. Sono entrati i bambini, Paolo e Salvo, ancora in pigiama.

    E voi? Siete passati in bagno a lavarvi le mani?

    Vederli così, assonnati e arruffati come pulcini appena schiusi dall’uovo, mi mette dentro tanta di quella tenerezza che vorrei passare almeno mezz’ora ad abbracciarli forte, a sentirli tutti miei come quando ancora col pannolino li cullavo, in attesa che si riaddormentassero dopo la poppata notturna. Non posso. Amina mi rimprovererebbe e direbbe che sono troppo grandi per le coccole: lo stesso Salvo mi è sembrato un tantino infastidito quando l’altro giorno l’ho baciato prima di lasciarlo scendere dall’auto per andare a scuola. I suoi compagni guardavano, e lui non era abbastanza da ometto farsi trattare come un bimbo dell’asilo.

    Non c’è scuola papà, vero?, ha esordito il più grande, rubando sul tempo il posto al fratello e impadronendosi di cucchiaio e coltello come fossero armi.

    Solo per oggi. Lunedì si ritorna. E non giocare con le posate.

    Ma poi ci trasferiamo nella nuova casa?

    Non ancora. Ci sono dei lavori da fare, lo sai.

    Voglio farli anche io, i lavori!, è stata la pronta reazione di Salvo, euforico come l’altro.

    Amina mi ha avvisato che andava a svegliare Giulia, e io sono rimasto a fissare la tazza coi cereali che lei aveva già riempito per me, in attesa di versare il latte freddo. Profili frastagliati di scaglie croccanti, fantasiosi e grotteschi come guglie e doccioni, gargoyle e pinnacoli pronti a essere maciullati da denti e lingua, in schiocchi e frane tra le gengive…

    Papà?

    Mi sono riscosso come da un assopimento. Ho sorriso a Paolo perché ripetesse:

    Ma allora, cambieremo scuola?

    No, tesoro. La scuola la finirete qui, a Roma.

    Ma da scuola fino alla nuova casa è lontano!

    Andrete a stare per un po’ dai nonni.

    No! Dai nonni no!, è iniziato il solito coro di vocine dolenti, a tratti prossime ai toni acuti del pianto. Anche Amina è intervenuta dalla camera da letto, dove stava vestendo Giulia:

    Ragazzi, non cominciamo la giornata così, siete avvisati.

    Ho cercato allora di alleviare le loro preoccupazioni:

    Sarà solo fin tanto che non termineremo i lavori.

    Ma non ci vorrà molto, ha insistito Paolo, le sopracciglia aggrottate come quelle di papà, quando qualcosa non lo convince.

    No, per i lavori magari no. Ma occorre avviare l’attività…

    E Salvo: Che cos’è l’attività?

    Il nuovo lavoro di papà.

    Anch’io voglio lavorare con te, papà.

    Ah, e la scuola?

    Lavoro dopo scuola…

    Sciocchino. Non sai nemmeno che lavoro è.

    Una delle cose più belle dell’avere dei figli così piccoli, è poter specchiarsi ogni singolo giorno nella loro innocenza, e trarne spunto per dimenticare le preoccupazioni, ripristinare le energie perdute, tornare a nutrire ancora un po’ di fiducia in ciò che ci riserva la vita. Anche nelle situazioni apparentemente più disperate.

    Dopo la colazione, come d’abitudine, i bambini sono passati in camera a vestirsi e a far baldoria: è giorno di gita coi genitori, quindi avrebbero avuto il permesso di prendersela un tantino comoda. Mai fare simili concessioni a due fratellini troppo vivaci, e super eccitati!

    Giulia è corsa in cucina a darmi il buongiorno subito dopo, sgattaiolando attraverso gli sgabelli, agile come uno scoiattolo, e arrampicandomisi sulle gambe per sedermi in grembo.

    Allora, signorina. Hai fatto le trecce?

    Mamma me le ha fatte.

    Sei bellissima, lo sai?

    Sì.

    Amina è rientrata sbadigliando, pronta alla fase finale della colazione: il latte caldo dell’ultimogenita.

    Già stanca, tesoro?, le ho chiesto con aria fintamente ironica, mentre lei cercava di coprirsi la bocca all’ultimo minuto.

    No, no davvero. È solo che stanotte…

    Ah, già. Lo so, ti chiedo scusa.

    La tua cera non è molto migliore della mia, comunque.

    Mi ha fatto l’occhiolino, scoprendo i denti perfetti per rassicurarmi che era solo uno scherzo. Intanto mi guardava, lo so: mia moglie ha quello strano potere di leggermi dentro quando ho meno difese a disposizione per schermare le mie fragilità, quelle preoccupazioni che in modo generico, e forse un tantino esorcizzante, chiamiamo tra noi i pensieri.

    Qualche pensiero?

    Non ho risposto, preferendo tuffare il naso tra i capelli lisci della piccola e aspirarne l’odore di buono, come di pane all’olio, fatto in casa.

    Ah, Flavio.

    Abbiamo ripreso il discorso appena dieci minuti fa, mentre i bambini ultimavano le provviste di figurine, merendine, fumetti e cianfrusaglie varie da mettere nello zainetto per la giornata in campagna. Sapevo che Amina non sarebbe stata disposta a lasciar cadere il discorso, non quando io per primo non riuscivo a dissimulare quel tarlo che mi rodeva dentro, cresciuto di nascosto durante la prima mattinata, e ancora alimentandosi dei fumi pestiferi del mio ultimo incubo.

    Sempre lo stesso?

    Sempre lo stesso. Stavolta però ho visto qualcuno… Credo fosse Paolo.

    Paolo? Nostro figlio?

    La sua reazione è stata un po’ sorpresa; io mi sono affrettato a rassicurarla:

    Non sembrava in pericolo. Era solo che mi chiamava dalla cima di un palazzo, e io non riuscivo a vederlo, e continuavo a salire senza mai raggiungere la fine delle scale…

    Flavio, è solo un sogno!

    Ma lo so bene, amore.

    No, te lo leggo negli occhi. Tu la prendi più seriamente di quanto devi. Sei solo preoccupato per questo nuovo… cammino insieme. Devi rilassarti, andrà tutto bene.

    Mi sono lasciato abbracciare, cullare sul suo seno come un bambino bisognoso di protezione. Alla fine ho cominciato quasi ad assopirmi, e l’avrei fatto senza dubbio se Giulia non fosse arrivata a distrarci, infastidita:

    Mamma! Andiamo?

    L’ho presa in braccio, imbarazzato per quell’attimo d’abbandono:

    Sai che oggi non c’è l’asilo per te, signorina, non è vero?

    Amina era tornata d’umore perfetto: è andata a controllare che gli altri due avessero indossato i giubbetti e messo nello zaino l’ombrello, casomai fossimo stati sorpresi da un acquazzone imprevisto.

    Il sogno non è più un problema, ora credo di potermene dimenticare del tutto, almeno fino a stasera…

    Ecco, sono pronti. Si parte!

    Roma, 4 maggio

    7.00 p.m.

    Non voglio nemmeno pensare a cosa sarebbe successo se fossi arrivato in quel fienile con solo un minuto di ritardo. Paolo a quest’ora potrebbe non esserci più. Mio figlio! E la sola idea di averlo previsto, di essermelo sentito bollire nel sangue, quel crollo, mi fa perdere la testa. Giuro che se dovesse succedere qualcosa ai miei bambini...

    Stanno tutti bene, è questo quello che conta. Il piccolo già di ritorno da scuola non sembrava più molto turbato, anzi. Ha preso la cosa con un certo spirito: ne ha approfittato per vantarsene con i suoi compagni di classe.

    Stavo per essere schiacciato dalle macerie, e mio papà è venuto a salvarmi!

    Il suo papà, già. Il suo papà che lentamente, inesorabilmente, si sente impazzire. Se i sogni sono fatti per starsene rintanati nelle nostre notti inconsce, buie, irrazionali e spesso troppo brevi, perché ormai la mia stessa realtà cosciente ne sembra inficiata? Sì, come avvelenata, intorbidita, trascinata passo a passo in una spirale d’anormalità, terrori, sensazioni di pericolo imminente.

    E pensare che ero riuscito a lasciarmi i brutti pensieri alle spalle, ieri mattina presto, già in auto per il paesino di San Gregorio alle pendici del Cerella. I bambini non la smettevano di chiacchierare, Giulia faceva i capricci perché avevamo superato il parco senza fermarci per farla andare sull’altalena, Amina si godeva lo spettacolo della campagna romana che aveva sostituito gli ultimi condomini di periferia non appena superata la frazione di Lunghezza.

    Eravamo già stati a Casal de’ Gelsi, io e mia moglie. La proprietà, quasi interamente coltivata a ulivi, ci aveva subito conquistato per il verde incontaminato dei dintorni e per la rusticità ammodernata dell’antico caseggiato. Il proprietario, Enrico Pacetti, ci aveva assicurato che il nucleo dell’edificio risaliva almeno al Medioevo, poi era stato oggetto di vari restauri e aggiunte nel diciottesimo e diciannovesimo secolo.

    Ogni volta che ci torniamo, sento che abbiamo fatto la scelta giusta.

    Sarà una nuova vita, e sarà meravigliosa, vedrai, ho confermato l’entusiasmo di lei, una volta parcheggiato nell’ampia area di sosta accanto al casale.

    Si avvicina l’alta stagione, ma l’agriturismo è chiuso già da un paio d’anni perché il proprietario aveva licenziato il personale e si prepara ora a godersi una meritata vecchiaia in famiglia, in quel di Viterbo.

    Ci sono anche i pargoletti! Dio che teneri!, ci è corsa incontro, estasiata, la signora Pacetti. Ogni volta che la vedo mi appaiono più chiare le sue origini tirolesi: viso tondo e gioviale, sorriso contagioso, occhi azzurri come i più incontaminati cieli nordici.

    Non correte o finirete per far cadere vostra sorella!

    Sordi alle prime, leggere raccomandazioni, i pargoli si erano già dispersi per il prato verdissimo che faceva da corona a un piccolo boschetto di gelsi in mezzo al cortile. Il signor Enrico è uscito dal casale per accoglierci; siamo stati immediatamente investiti dall’atmosfera di casa che spirava dalle pietre grezze delle mura esterne, dalle tegole rosse del tetto spiovente, dalle finestre minuscole, come intarsiate nel mosaico di mattoni del primo piano.

    Fate come foste già i padroni, non c’era augurio più bello che il Pacetti potesse fare ai nuovi arrivati.

    Io e Amina abbiamo preferito discutere delle ultime modifiche alla pianta dello stabile proprio sotto ai gelsi del cortile. Un lato di quest’ultimo era interamente occupato da un vasto fienile dall’aria un po’ troppo grezza e spoglia, alquanto stridente con la sobria ed elegante complessità degli elementi annessi.

    Avrei pensato a una piccola piscina per gli ospiti sul lato interno, opposto all’entrata. L’ombra degli ulivi porta fresco, e poi la pavimentazione di terracotta si presta bene a fare da bordo vasca…, Amina era partita a ruota libera, contagiando l’allegra padrona di casa.

    Di certo la signora se ne intende. E poi al giorno d’oggi la clientela è cambiata, è più esigente.

    E quel fienile? Avete mai pensato a ristrutturarlo per ricavarne almeno altre due camere? Sarebbe una buona idea, secondo me.

    Buonissima, signora. Con i fondi giusti si può fare qualsiasi cosa.

    Ho scambiato un’occhiata divertita con Pacetti, per dargli a intendere che quando ci si metteva, mia moglie era un vulcano di idee, creatività, entusiasmo e anche un pizzico di invadenza. Alla fine ho optato per riprendere la discussione da un punto di vista più pratico:

    Quanti lavoratori stagionali occorrono, per l’intera tenuta? Temo questa sia la parte più spinosa, visto che non ci siamo mai occupati di uliveti…

    Nel frattempo i bambini erano spariti dal nostro campo visivo. Amina era andata con la signora Pacetti a prendere i vassoi con le limonate, mentre Giulia soltanto se ne stava attaccata al recinto dei conigli, ipnotizzata da quegli strani peluche animati.

    Giulia? Dove sono Paolo e Salvo?

    Lei ha sgranato gli occhi come svegliata da un’ipnosi, poi sorridendo mi ha indicato il vecchio portone socchiuso del fienile. È intervenuto il padrone del Casale, che mi ha rassicurato:

    Non c’è nulla di pericoloso lì dentro. Solo qualche vecchio forcone…

    Sarà meglio fargli una ramanzina, ho concluso, conoscendo bene la curiosità e la mania d’avventura dei due monelli.

    Siamo entrati nella fresca penombra dell’edificio, vasto almeno il doppio di quanto lasciasse presagire la facciata sul cortile. Scale, attrezzi da giardinaggio, botti sfiancate, un vecchio trattore semicoperto da un telo e un paio di fascine di legna si sono materializzati sotto i miei occhi, accecati dalla forte luce di fuori, appena in tempo perché non andassi a sbattervi contro.

    Paolo!, ho chiamato forte, due volte.

    Papà!

    Ah, ti sei nascosto? Vieni subito fuori con tuo fratello!

    Ma sta ancora contando, papà!

    Niente da fare. Si gioca, ma non dove io e la mamma non possiamo vedervi.

    Coraggio, vi mostro lo stagno dei pesci rossi. Volete?, li ha attratti entrambi, immediatamente, il Pacetti.

    Corsi fuori i bambini, ho lasciato che l’uomo mi precedesse di qualche passo. Qualche cosa mi attraeva ancora, misteriosa e irresistibile, all’interno del cono di luce che filtrava da una minuscola apertura nel soffitto di legno. Una coppia di piccioni tubava, invisibile, nel sottotetto.

    Del mondo dell’uomo non resterà pietra su pietra. Tutto fatalmente crollerà per volere del fato, dalla torre al macigno, e dal macigno alla polvere.

    Questo è quello che mi sono ripetuto, a mezza voce come un ammattito, da solo in quel posto tetro e desolato. Un attimo dopo, i piccioni sono volati via dal loro nido di pagliuche, sparendo attraverso l’apertura soprastante.

    Non resterà… pietra su pietra.

    Signor Damiani?

    Ho finto di non ascoltare, o forse era proprio il sogno a non volere che lo facessi. Impietrito lì in mezzo, in quel camerone coperto da una patina di pezzetti di fieno rinsecchito, ricordo ormai vetusto delle balle scomparse da tempo, lo sguardo mi si è annebbiato, le gambe hanno cominciato a tremarmi come se tutto lì intorno, assi, scale, travi, controsoffitto e cataste di legname, fosse sul punto di rovesciarmisi addosso.

    Flavio! Ma che hai?

    Era Amina.

    Non voglio… che resti.

    Ma si può sapere?

    Sullo sfondo del mio campo visivo, ma come lontani mille chilometri, stavano i coniugi Pacetti, e i bambini incuriositi da quella strana scena del loro papà imbambolato.

    Spaventi tutti, così.

    Non resterà… pietra…

    Cosa?

    Ricordo di averla spinta via da me, verso l’uscita, ma non con quanta intensità. Quella sera stessa mi ha detto che se non ci fosse stato il Pacetti a sorreggerla, avrebbe forse sbattuto la testa. Un attimo dopo, il soffitto del fienile ha ceduto e mi è crollato letteralmente addosso. I bambini sono stati scansati via dall’anziana coppia, con mia moglie urlante al seguito.

    Sono collassate le mura, si sono spezzate le travi e il pavimento d’assi si è incurvato fin quasi a scoppiarmi sotto i piedi come una liquida bolla di materia. Non so spiegare con esattezza quello che ho provato in quei momenti: è come se una gigantesca onda d’urto si fosse sprigionata proprio da me, fino a devastare tutto quello che incontrava lungo il suo percorso, per una decina di metri quadrati intorno. Sentivo un rumore assordante di mattoni e steccati che mi scoppiavano a un centimetro dalle orecchie, ma non riuscivo né a scansarmi, né ad esserne davvero terrorizzato.

    Mi hanno portato in salvo dopo appena dieci minuti: non c’è stato neppure bisogno di chiamare i soccorsi, perché non ero stato seppellito. Amina mi ha detto che sono rimasto in piedi, in mezzo a tutto quel disastro. In piedi, e assente.

    Ora mi credi se ti dico che c’è qualcosa che non va? Che tutto questo non è normale?, ho avuto il coraggio di mormorare a mia

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1