Furisia, la profezia: Il Segreto nella Sindone
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Furisia, la profezia - Claudio Cantore
Claudio Cantore
FURISIA
Il Segreto nella Sindone
Ed. EBOOK
Da quando l’uomo ha smesso di ascoltare le voci della natura, queste non hanno smesso di parlare, né l’uomo è diventato sordo…
Chi ha un perché per vivere, sopporta quasi ogni cosa
(Nietzsche)
INTRODUZIONE
«Dio, il Signore, ordinò all’uomo: Mangia pure da ogni albero del giardino, ma dall’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai
» (Genesi 2:16-17)
Il brano citato racchiude il significato di questo racconto che nasce dalla volontà di far conoscere il grande pericolo che incombe sull’uomo se la stoltezza supererà le sue conoscenze. L’uomo non si potrà mai paragonare a Dio, anche se saprà piegare al suo volere le bestie e la natura; egli dovrà restare sempre sotto il Suo timore o Furisia si scatenerà.
Questo è il segreto custodito nella Sindone, chi l’ha svelato non può raccontarlo al mondo; è un mistero che non si deve rivelare; il potere temporale ha troppa influenza, ma io lo conosco!
Io Federico de Vignola non lo posso riferire, un segreto libro ne contiene gli arcani, però voglio che sappiate la vera storia e il rischio che l’uomo corre per colpa della propria arroganza.
Tutto ebbe inizio nella primavera del 1578. Un cavaliere, il suo scudiero e due some cariche di mercanzia, si stavano avvicinando a Torino da est, lasciando alle spalle la valle del Canavese, la valle del Re Arduino, il primo re d’Italia.
Questa città stava rinascendo ed era la nuova capitale del regno dei Savoia.
PARTE PRIMA
Il ricordo del passato
Tarda primavera del 1578
Il Duca mi ha mandato a chiamare; è sempre un grande onore per me servirlo.
Nella missiva chiedeva di mettermi nuovamente a servigio per un’importante e segreta missione da svolgere. Ero ormai al suo comando da oltre vent’anni ed avevo condiviso con lui molte delle più importanti fasi della sua strabiliante vita.
Grazie ai tanti compiti che ho svolto, sono stato ripagato con un ottimo feudo che amministro e mi dà da vivere, ottimamente! Sono ben voluto dai miei sottoposti e tutti insieme siamo ligi e fedeli al nostro Sovrano.
Ormai sono passati diciott’anni da quell’importante evento che ha cambiato le sorti del Piemonte e rivoluzionato la mia vita: La battaglia di San Quintino!
Io c’ero e l’ho combattuta al fianco del Duca che allora era un giovane Principe Savoia; non che ora sia vecchio, me ne guardi bene Dio che non lo dica in sua presenza, ma a quell’epoca era un erede al trono senza terra, tuttavia valoroso comandante dell’esercito del grande Imperatore Carlo V.
L’importanza di questa battaglia, che ormai è diventata storia, è data dalla strabiliante vittoria ottenuta contro l’esercito francese e tutto questo proprio grazie alla capacità, alla testardaggine e un po’ alla fortuna, che non guasta mai, del Principe che seppe sfruttare al meglio le sue forze, anche se erano di molto inferiori rispetto al nemico.
Con questa vittoria, fu stabilita la pace tanto attesa. Quella che avrebbe acceso le speranze di una nuova Europa: un nuovo Sacro Romano Impero.
Fu il trattato di Cateau-Cambrèsis del 1559 che ridisegnò i confini dei nuovi Stati ed aprì finalmente la porta al nuovo regno del Piemonte, non più soggiogato, facendolo ridiventare una nazione indipendente. I feudi smembrati dagli zoccoli di troppi cavalli e troppi eserciti conquistatori furono raggruppati sotto un unico Sovrano.
Il Piemonte diventò uno degli Stati più strategici della nuova Europa e l’ago della bilancia nei conflitti europei.
Sarà la spina nel fianco dei Francesi, troppo spesso brutali invasori; si presenterà come punto di riferimento per la Spagna e il confine occidentale per l’Austria, ma soprattutto dovrà pacificare e dare sviluppo a quel territorio alpino, fin troppo spesso lasciato in balia degli eventi, che s’impoveriva e chiedeva giustizia per i soprusi subiti.
Alla guida di questo nuovo Stato non poteva quindi che esserci una persona influente e capace …e chi se non Emanuele Filiberto; che ne era, peraltro, il discendente diretto della famiglia Savoia la quale ne aveva, in passato, già guidato le sorti?
In questo modo da Principe, Emanuele Filiberto, divenne Duca del Piemonte.
Anche se sconfitti, i Francesi imposero un matrimonio che legasse le sorti del piccolo stato alla Francia. Prescrissero, come clausola, l’unione di Emanuele Filiberto con Margherita di Valois Duchessa di Berry e sorella del re francese Enrico II, imponendo anche un tempo per la progenie.
Emanuele Filiberto era così testardo e volenteroso che riuscirà nell’intento ed ebbe il figlio atteso che sarebbe diventato l’erede della nazione: Carlo Emanuele.
Impose inoltre al nuovo Stato una propria struttura, rafforzando le istituzioni, creando un esercito e facendo riforme innovative.
Io, congedatomi dall’esercito, fui nominato Signore di Pertugio e mi dettero un piccolo castello feudale. Il Duca, durante l’investitura, mi disse che sarei stato un buon Amministratore
e che dovevo, con la riappacificazione di quei territori, dare uno sviluppo e benessere a quelle terre. Era ancora molto diffuso il banditismo e la mancanza di un controllo forte e capillare, ma non autoritario, avrebbe evitato la rinascita, sempre latente in quei luoghi, del movimento dei Tuchini, i ribelli al potere, che soggiogavano la popolazione appena un secolo prima.
In fondo io mi trovavo bene: il paese era piccolo, ma redditizio e riuscivo a ben amministrare.
Il benessere, se non proprio l’opulenza, si stava espandendo. Poche erano le abitazioni e tutte costruite all’intorno di un santuario dedicato a san Firmino, il protettore dei militari e soldati. Era una strana ubicazione per quel monastero, incassato in una valle non così importante e transitata. Solitamente si richiede l’intercessione di santi che sorveglino il territorio o le bestie da soma, ma non i soldati. Era stato proprio un ufficiale francese, di ritorno dopo la sconfitta di Pavia contro il grande Carlo V, a fondarlo, un nostro ex-nemico.
I paesani anziani raccontano che egli cadde gravemente ammalato proprio in quel luogo e il Santo venne a soccorrerlo.
Per ricordare quell’evento fu eretto quell’edificio sacro.
Pertugio
Il viandante che arriva in questo feudo può scegliere tra due cammini: egli può giungere sia dalla strada di Busano che da quella di San Ponso. In entrambe le vie, egli ha subito il piacere d’immergersi in prati verdi, orti e casolari. Sullo sfondo ammirerà una collina con varie tonalità di verdi e sopra, più in alto quasi a dominare sulla roccia, il Sacro Monte di Belmonte, gestito dalle sorelle Benedettine.
Io, in questo feudo, stavo sperimentando la coltivazione su larga scala di un tubero da me portato dal Nuovo Mondo, una piantagione di trifolaia.
Questa è una radice che ha una pasta color violaceo ed è commestibile, con un gusto molto piacevole. È una pianta robusta che si è ben adattata al nostro terreno; sono già da diversi anni che la coltivo ed ha un’ottima resa.
Gli Indios del Nuovo Mondo la chiamano Batatas ed è un cibo molto importante e nutriente per loro. Sto incontrando però molte avversità per la sua diffusione, principalmente influenzate dalla paura nei confronti di ciò che cresce sottoterra.
Addirittura c’è chi dice che è alchemica, ma di magia negativa, oppure che si tratta di cibo flatulento, o peggio ancora che questa radice diffonde la lebbra, anche se nella mia terra questa malattia non si è ancora vista.
Ero certo che tutto questo non era vero e che la trifolaia sarebbe diventata un nutrimento presente in tutte le mense, così com’era diffusissima nel Nuovo Mondo: facile da coltivare e altrettanto da conservare.
Ora invece temevo che la chiamata del mio Sovrano significasse una nuova missione che mi staccasse ancora una volta dai miei affetti e dalla mia terra, anche se un po’ di voglia d’avventura l’avevo nel sangue, dopo questi anni di quiete.
Inutile tanto supporre: tra non molto sarò a Corte e finalmente saprò…
Volevo portare qualcosa di buono al mio Sovrano e, sapendo del piacere che gli procurava la libagione, avevo con me alcune pinte di Freisa, un vinello dolce ed amabile, che producevo direttamente nelle mie vigne. Era un vino rinomato e la sua fama si diffondeva ovunque; valicava le frontiere del regno, addirittura!
Ad ogni dogana dovevo dichiarare che il vino trasportato non era per essere commercializzato, ma un dono personale al Duca, così ottenevo l’esenzione del pagamento del dazio. Era un vino molto ricercato e, proprio per questo, pagava un’imposta doppia rispetto a quello normale; l’esenzione quindi era sempre vista con sospetto, dai doganieri, nelle zone di pedaggio.
Torino ormai è vicina, entro poche ore sarò al cospetto del mio signore.
Le strade polverose e l’arsura accompagnata dal ritmico sobbalzare del passo del cavallo mi facevano rivivere la vita passata per cedere poi ad un mutismo riflessivo, durante il quale ricordavo avventure e pericoli vissuti.
Non viaggiavo solo, ero accompagnato dal mio stalliere tuttofare che governava due some cariche di cose buone, oltre il vinello già citato.
Non si può andare dal Duca a mani vuote.
Filippo, il mio stalliere, è un giovanotto tranquillo esibisce un bel viso in cui spiccano occhi scuri, dallo sguardo vivace ed intelligente che sprizzano una gran voglia di vivere, contornato da nerissimi capelli. Il suo corpo di ventenne è robusto e muscoloso, disegnato dal sole e scolpito dal lavoro della terra.
Nonostante fosse egli molto felice di questa inaspettata gita nella capitale, conosceva molto bene il mio carattere e quindi, quando mi vedeva chiuso nel mio mutismo, restava in attesa che fossi io a parlare.
In quel viaggio avevo poco da comunicare, volevo solo ricordare.
Fiandre, Piccardia: Il giorno di San Lorenzo del 1557
Eravamo ai piedi della Fortezza di San Quintino… una porta chiusa all’armata imperiale e difesa dal prodigioso esercito francese.
Allora ero un giovane di 25 anni, ottima prestanza fisica. Ero sempre stato al fianco del Duca con il quale, oltre l’età, condividevo l’amore per la terra d’origine: il nostro Piemonte. Ben sapevano però che questa nostra terra era spezzettata, divisa, razziata, egemonizzata da truppe rancesi, spagnuole e lanzichenecche.
Io, nonostante l’età, già capitanavo la Guardia d'Onore, una scorta personale del Duca, il quale era al comando dell’esercito imperiale che stava marciando verso sud.
Al mio comando, una compagnia d’armieri a cavallo formata da: cinquanta fidatissimi gentiluomini savoiardi, un luogotenente, un furiere, una trombetta e il sempre presente e miracoloso maniscalco.
Questo gruppo non era inquadrato nell’esercito imperiale, ma era completamente autonomo e sotto comando diretto del Duca.
Emanuele Filiberto era allora Principe di Savoia, un aspirante al trono senza nazione.
Egli era soprannominato dai suoi uomini, Testa d’fer, cioè Testa di Ferro
nella lingua piemontese, per la sua grande caparbietà ed ostinazione. La figura del Principe era molto ben idealizzata dalla truppa. Si mostrava nella sua scintillante armatura, a cavallo del suo poderoso destriero.
Anch’io lo ricordo così.
Il Principe non mancava mai di farsi vedere e scendere in combattimento nel momento più vivo e intenso della battaglia. La Guardia d’Onore aveva il compito di proteggerlo ed era sempre un gran problema: egli sprezzava il pericolo e si tuffava nel cuore dei combattimenti, mettendo a repentaglio la sua vita.
«…ma sono un soldato prima di tutto!» Mi rispose un giorno mentre cercavo di farlo desistere dal suo desiderio di battaglia.
L’immagine che mi è rimasta impressa nella memoria è stata quando, di fronte a noi e sguainando la spada, urlò, nell’aria della Piccardia, l’annuncio della mirabile vittoria ottenuta.
Sì! Fu una vittoria assoluta anche se, solo poche ore prima, passandoci in rassegna prima della battaglia, avvertivamo il suo timore, seppur ben mascherato dalla fierezza; tuttavia noi del Corpo di Guardia lo conoscevamo molto bene e capivamo la sua apprensione.
Non si poteva però neppure mentire alle evidenze: di fronte avevamo un’armata di 18.000 fanti e 6.500 cavalieri che stavano arrivando, noi eravamo meno di un terzo e con pochissimi cannoni. La fortezza poi, era stata rinforzata dall’arrivo di circa 500 Francesi e il nostro assedio non produceva gli effetti sperati.
La strada era chiusa, sbarrata!
Emanuele Filiberto comandava delle truppe miste: spagnuole, asburgiche, alemanne, ma un’importante parte era costituita da forze piemontesi.
Prima dello scontro il Principe venne da noi e fermò il suo cavallo. Con la celata alzata, guardandoci ad uno ad uno negli occhi, urlò il suo messaggio nella lingua che incendiava il nostro cuore:
«Fiöj bogè nen, neh!» (Ragazzi non muovetevi, eh!).
Che stava a significare: il non indietreggiare, non cedere la posizione assegnata.
Quella voce autoritaria, che si trasformava in familiare con il suono di quelle parole nella lingua che tenevamo nel petto, fece battere i nostri cuori tutti insieme, sincronizzandoci alla battaglia. Sapevamo che poche ore dopo non ci sarebbe stato scampo: o vittoriosi o morti!
In realtà fu molta la fortuna del Principe sabaudo, quanta la superficialità del comandante francese, il maresciallo Montmorency che, forte del suo esercito, si gettò nella mischia senza essere preparato, trovandosi chiuso in una vallata dove non potette che soccombere alle minori forze imperiali ben posizionate e strategicamente comandate.
Fu un macello: oltre 14.000 furono le perdite francesi mentre nelle nostre fila meno di 400, soprattutto prendemmo tutti i loro cannoni, addirittura lo stesso Montmorency fu fatto prigioniero e la fortezza espugnata.
Un vero colpo d’audacia e… fortuna.
La strada per Parigi era aperta, nessun altro esercito poteva oramai proteggerla e contrapporsi alla nostra avanzata.
Noi Piemontesi ci battemmo con valore e coraggio, mantenendo alto il nome della regione che rappresentavamo, ma che non era più nostra.
Ora era Emanuele Filiberto, che incarnava l’orgoglio della ricostruzione e quella vittoria, ne segnerà la svolta.
La ferita e la missione
«Maestà i Francesi sono caduti nella trappola, ormai è solo questione di poche ore, li accerchiamo e avremo la vittoria in pugno!» Disse il conte Carlo Manfredi Luserna d'Angrogna ad Emanuele Filiberto, nel loro colloquio all’interno della tenda di comando.
«Bene… meglio di così non ci poteva andare! Datemi subito l’elmo e preparate il cavallo. Andrò sul campo di battaglia a vedere la mia vittoria!».
Fu così che me lo trovai, inaspettatamente, alle spalle, con la spada sguainata, pronto a combattere.
Era la visione che galvanizzò l’intero plotone; ormai la fanteria francese era lacerata dalle perdite e si ritirava lasciando, sul campo, tutte le proprie armi. Io, vedendo il Principe, mi accostai al suo cavallo per chiedere se avesse ordini da darmi, così che riconoscendomi salutò e si distrasse dalla battaglia.
Vidi il pericolo!
Un archibugiere francese aveva l’arma puntata proprio verso il Principe e intesi la minaccia, mi misi sulla linea del proiettile e percepii l’esplosione dell’avancarica. Immaginai la traiettoria e mi posi a scudo sulla figura del Comandante.
Un colpo molto secco, metallico,