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Crab -Note dal sottosuolo-
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Crab -Note dal sottosuolo-
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Crab -Note dal sottosuolo-

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Un blocchetto di appunti ritrovato nell’antro della Sibilla Cu­mana. Voltata la prima pagina, si intravede una frase: Sono vivo. Può una simile affermazione essere autenti­ca? Può il con­tenuto di queste note provenire da un ignoto sotterraneo situa­to nei tropici? Ed am­mettendo pure che quanto scritto sia vero, com’è potuto accadere di vedere quel blocchetto materializzar­si pro­prio in quel remoto an­fratto?
Cosa accomuna il leader di un partito italiano ad un’isola sita nel sud del Pacifico?
Ed infine: qual è l'anello di congiunzione tra il pittore Barbaro Puglisi, il ministro Orazio Grifone, i nobili coniugi Newman, il team del detective John Barnard ed il misterioso ex galeotto Faruk Ananke?
Tutto questo ed altro ancora è Crab: una sorta di Area 51 dalla struttura a forma di granchio. Un immenso rifugio in cui si opera nella più assoluta riservatezza, dove una volta dentro non si può più uscire. È qui che tutto comincia ed è qui che deve finire, a meno che...

Gennaro Loffredo, nato a Pozzuoli nel 1971, ha studiato lingue e letterature straniere. Grazie ad uno stile ironico e al sapiente uso di un doppio costrutto narrativo, onnisciente/soggettivo, Gennaro riesce a trasformare il Mystery in un’esperienza avvincente ed emotivamente coinvolgente. Crab -Note dal sottosuolo- è il suo secondo romanzo, qui presentato in una nuova veste a quattro anni dalla prima uscita.

 
LanguageItaliano
Release dateAug 28, 2019
ISBN9788834176542
Crab -Note dal sottosuolo-

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    Crab -Note dal sottosuolo- - Gennaro Loffredo

    © Copyright 2015, 2019

    Prima pubblicazione: Febbraio 2015

    Seconda edizione: Settembre 2019

    Tutti i diritti riservati

    Vietata qualunque duplicazione.

    Eventuali marchi e loghi citati, sono di proprietà dei legittimi proprietari.

    Questo romanzo è un'opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell'autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

    L’autore ringrazia Patrizia Magretti e Carlo Stromboli per la gentile collaborazione alla stesura di questo romanzo.

    In copertina: immagine dell’antro della Sibilla Cumana, di Carole Raddato.

    «Così la neve al sol si disigilla,

    così al vento ne le foglie levi

    si perdea la sentenza di Sibilla.»

    [Dante, Paradiso XXXIII, 64-66]

    I

    La scolaresca percorse disciplinatamente i primi metri del lungo corridoio che costituiva l’antro della Sibilla, dopodiché, lontani dagli sguardi ammonitori della loro maestra rimasta ad attenderli all’imbocco, i ragazzini presero a darsi alla pazza gioia ingaggiando gare di corsa, oppure emulando le gesta dei loro campioni di wrestling; c’era pure chi si era messo ad esplorare quel luogo per conto proprio.

    «È che sono claustrofobica», si era scusata poco prima l’anziana insegnante con Manuela, la guida.

    «Non si preoccupi, è tutto sotto controllo», replicò questa sorridendole. «Fra venti minuti saremo di ritorno.» Non poteva certo prevedere che quel giovane branco le avrebbe dato del filo da torcere.

    C’era un ragazzino che risultò esserle particolarmente sgradito: inforcava un paio di occhiali spessi e grandi, tanto da rimpicciolirgli la testa, che le stava attaccato ai calzoni come una toppa e la tempestava di domande. Le formulava senza riprendere fiato e senza mai ascoltare le risposte. «E quanto è lunga? e quanti anni ha? e chi l’ha scoperta? e che cosa c’è laggiù?» A lungo andare era un vero strazio.

    «È lunga centotrentuno metri e venti centimetri; è stata costruita tra il X ed il IV secolo a.C.; l’ha scoperta Amedeo Maiuri nel 1932; laggiù c’è la stanza dove risiedeva la Sibilla.»

    Inutile scendere nei dettagli con quegli angioletti; raccontare di come i greci avessero fatto a scavare nel tufo e di come la galleria, il dromos, avesse una forma trapezoidale nella parte superiore e rettangolare in quella inferiore, rendendo di fatto la struttura antisismica. Né parlare della funzione delle nove aperture laterali presenti lungo la parete ovest, della volta piatta che caratterizzava la sala al termine della galleria oppure dell’oikos endotatos, la stanza oracolare dove la Sibilla vaticinava.

    Avrebbe meglio catturato la loro attenzione narrando delle leggende legate al culto della sacerdotessa Cumana aiutandosi con l’imitazione del canarino Titti.

    Manuela si considerava una cittadina del mondo, era un’inguaribile idealista. Seria e coscienziosa sul posto di lavoro, se non vista ridiventava una ragazzina: si arrampicava al ramo di un albero dondolandosi a testa in giù, oppure prendeva a scorrazzare tra i ruderi compiendo le evoluzioni di una ginnasta. Piuttosto robusta di costituzione, aveva grandi occhi castani, vivaci e assetati di conoscenza. La sua pelle era di un pallore anacronistico. A dispetto della comodità, lasciava i capelli lunghi, tanto da costringerla a spostarli di continuo dal viso, ma indossava abiti comodi in modo tale da essere sempre preparata per qualche pazzia. Generosa, altruista e attratta dal mistero, provava sempre un forte senso di smarrimento nell’attraversare l’antro della Sibilla, soprattutto quando le capitava di camminare sulle placche in ferro: il vuoto sottostante creava una risonanza sinistra che le dava la sensazione di poter precipitare da un momento all’altro.

    Al termine della visita rientrò nell’antro intenzionata a far pulizie. Non che fosse una sua competenza, ma qualche furbetto aveva gettato delle carte e non le andava a genio che i successivi turisti ironizzassero su quanto male gli italiani custodissero i propri tesori archeologici.

    Giunta nella sala principale fu scossa da un brivido. Non si era affatto resa conto di quanto fredda e umida fosse quel giorno la caverna, né di quanto tetra fosse l’atmosfera nel ritrovarsi là tutti soli.

    I suoi occhi furono attratti da un nastro di stoffa grigio che faceva capolino da un cumulo di vecchi sassi, in un angolo del lato ovest. Si chinò per toglierlo, ma era rimasto impigliato. Testarda com’era, si decise a spostare le pietre poste in cima al cumulo per alleggerire il peso e liberarsi una volta per tutte di quell’ornamento inopportuno. Rimase alquanto sorpresa nel constatare che in realtà si trattava di un segnalibro attaccato a un’agendina ammuffita e sporca di terra, rifugio ideale per una colonia di formiche. Sarà qui da secoli, si disse, certo non da millenni. E stona con l’ambiente. Incuriosita da quell’oggetto, lo ripulì alla meglio strofinandoselo sopra una coscia. Qualche stronzo deve avercelo nascosto di proposito, pensò, ma a che pro? Se non fosse stato per il segnalibro nessuno lo avrebbe scorto.

    Sul frontespizio ormai incolore c’era una scritta, si leggeva appena: Note dal sottosuolo

    John Barnard.

    Nella sala dalla volta piatta si aprivano tre nicchie. Quella sul lato ovest era grande quanto un cubicolo e, nonostante le opinioni contrastanti, la tradizione considerava questa come la stanza nella quale risiedeva la Sibilla. Anche a Manuela piaceva pensare che fosse così. La ragazza, con l’agenda tra le mani, raggiunse questa stanza, si sedette sui talloni a mo’ degli orientali, voltò la prima pagina e…

    Sono vivo.

    Manuela corrugò la fronte cercando di interpretare quella frase. Non sapeva cosa pensare.

    Voltò ancora pagina.

    Sigilla i discorsi con il silenzio,

    e il silenzio con il momento opportuno.

    [Solone, Frammenti]

    II

    L’ambasciatore dell’Azerbaijan sorseggiava il secondo brandy comodamente sprofondato in una poltrona dello studio di Orazio Grifone. Di tanto in tanto faceva schioccare la lingua a mo’ di apprezzamento, alitando particelle di quell’inebriante vapore. Il premier dalla sua scrivania lo osservava divertito. Aveva notato che lo strabismo di quel nanerottolo andava via via peggiorando, segno che l’elisir cominciava a fare effetto e che presto avrebbero potuto discutere di affari.

    «Gran donna!» diceva l’ambasciatore. «E che classe.»

    «Me ne compiaccio, vecchio porcellone!» replicò Grifone.

    «Ah, che abile linguetta, e che…»

    «Questa è per te», l’interruppe il premier, porgendogli una bustina trasparente tirata fuori da uno dei cassetti dello scrittoio. «Colombia.»

    «Tu sì che ci sai fare», ammise l’ambasciatore facendola sparire in una tasca della giacca.

    «E questa è l’offerta più bassa pervenutaci per l’appalto», proseguì consegnandogli una piccola busta da lettere gialla. «Regolatevi voi.»

    «Ehm… grazie», borbottò l’ambasciatore. «Ci adegueremo.» A questo punto aveva tutto: doveva solo sloggiare e recarsi in albergo, dove la vorace escort lo aspettava per il secondo round.

    «Seguimi in biblioteca», disse Grifone alzandosi di scatto. «Voglio mostrarti una cosa.»

    A pochi passi dall’uscio dello studio, un possente nero se ne stava inginocchiato sul pavimento a scacchi del grande corridoio adoperando uno strofinaccio umido.

    «Che ci fai qua?» gli chiese Grifone mentre gli passavano di fianco.

    «Tu sporchi, io sgrasso», replicò questi, secco.

    «Hai capito, le confidenze del negro», osservò l’ambasciatore punzecchiando il premier senza che rallentassero il passo.

    Il nero lasciò cadere lo straccio, puntò diritto verso i due e li superò sbarrandogli la strada. Era un colosso: il fisico di un centometrista sotto un volto pustoloso. Avvicinò il muso minaccioso agli occhi dell’ambasciatore e digrignando i denti gli disse: «Vuoi fare la fine di Sollazzo?»

    L’ambasciatore riuscì appena a deglutire.

    «Scusalo, Faruk», intervenne Grifone frapponendosi ai due. «Scherzava.» Lo rabbonì con una pacca sulle spalle. «Andiamo», esclamò quindi rivolto all’amico.

    Giunti poi in biblioteca l’ambasciatore ebbe un’illuminazione. «Lo hai chiamato Faruk... Faruk Ananke, quell’Ananke?»

    «Proprio lui.»

    «Il cannibale?»

    «Mah!»

    «Quello che la vostra rivista, Il pentito, mette tra i dieci uomini più sanguinari del pianeta?»

    «Tutta pubblicità.»

    «Quello che ha strozzato il gemello nella placenta?»

    «Le solite esagerazioni. Giocava col cordone ombelicale.»

    «Quello accusato di aver fatto a pezzi i genitori e fritto le interiora in padella?»

    «Dicerie da bar…»

    «Sant’iddio! E chi è Sollazzo?»

    «Ah, be’… quello è un episodio realmente accaduto. All’epoca stava dietro le sbarre.» Grifone abbassò di un tono la propria voce. «Sollazzo era un secondino prepotente. Faruk è riuscito a procurarsi un rasoio, gli ha strappato le palle e le ha divorate davanti a lui.»

    «Cazzo!» sbottò l’ambasciatore. «E ti tieni in casa un simile animale?»

    «È fuori grazie a me, al mio decreto svuotacarceri. Lo sto addomesticando. Presto avrò bisogno dei suoi servigi.»

    «Ma dico, non temi che…»

    «Di notte mi chiudo a chiave con il cannone sotto il cuscino. Ma ora basta parlare di lui.» E detto questo, il premier armeggiò con un piccolo telecomando – assicurandosi che l’amico non stesse sbirciando il codice – e si udì uno scatto. Dopodiché aprì un’anta della libreria che dava accesso ad un’altra stanza.

    Era un ambiente spoglio e senza finestre, in netto contrasto con il resto della sua residenza romana, si udiva persino l’eco dei loro passi. Da una parete sporgeva una serie di dipinti ad olio disposti in fila per quattro a creare un quadrato perfetto. Quasi perfetto, in quanto mancante della penultima tela in basso.

    «Ti presento il grande Barbaro Puglisi», disse il premier con fare pomposo, e disegnò un arco immaginario con il braccio, volto a risaltare i ritratti.

    L’ambasciatore non era certo un uomo fatto per apprezzare simili opere, ciononostante simulò un vago interesse. «Belli… belli.»

    «Osserva i soggetti: che nudi! e che colori morbidi. Le pennellate, poi…»

    «Perché c’è un buco?» l’interruppe l’ambasciatore indicando col dito grassoccio lo spazio vuoto sulla parete.

    «Li ho disposti seguendo un ordine preciso e ho scoperto che me ne manca uno. Andrebbe collocato proprio lì», rispose Grifone con aria infastidita, come a dare la cosa per scontata.

    L’azerbaijano non vedeva l’ora di sgattaiolare fuori da quella spelonca dall’intenso aroma di vernice, ma per non dare un dispiacere al suo ospite si avvicinò ancora a quei quadri e infine mormorò: «Come hai fatto a stabilire…»

    Per tutta risposta Grifone puntò il telecomando verso la parete e i dipinti presero a ruotare come le lancette di un orologio, fino a compiere un arco di 90°.

    L’ambasciatore fu colto da uno dei suoi attacchi: i suoi occhi si mossero in modo indipendente l’uno dall’altro cercando di decifrare quel mistero. Nell’insieme, i quadri avevano composto un’immagine di donna: un volto vintage dallo sguardo lascivo e seducente al quale però mancavano la bocca ed il mento.

    «La donna che fece impazzire Puglisi», spiegò il premier facendo sì che la sua lugubre voce rimbalzasse da una parete all’altra.

    L’amico continuava a scrutare quel nuovo insieme, stupefatto; finalmente Grifone era riuscito a destare il suo interesse. «Cosa è accaduto al tassello mancante?» domandò con fare riverente.

    «È in possesso della duchessa di York», spiegò il premier con aria rammaricata. «Non ha neppure risposto alla mia offerta.»

    «Lady di ferro!» osservò l’ambasciatore.

    «Ah, ma la ruota gira, amico mio!... A proposito, che mi dici di sua nipote?»

    «Lady Sonia? Una spocchiosa!» berciò l’azerbaijano. «Legata a un quaquaraquà per il quale ha acquistato un titolo nobiliare. Lo ha pure messo a sedere alla Camera dei Comuni. Un inetto opportunista arrogante che parla con parole non sue.»

    «Capisco. Cos’altro sai di loro?»

    «Non un granché. Tipi riservati, schivi. Ma perché ti interessano tanto?»

    Grifone soppesò le parole e, con fasulla noncuranza, mormorò: «Ho pensato di invitarli a trascorrere un weekend nella mia residenza rurale; gli inglesi vanno matti per l’antichità. E chissà… magari la nipote potrà intercedere per me».

    «Che puttaniere!» sghignazzò l’ambasciatore.

    Quando i due rientrarono in biblioteca, trovarono Chihuahua, l’inserviente di Grifone, in piedi su una sedia con un piumino tra le mani. Era impegnato a spolverare il grosso lampadario in ferro battuto che come una piovra stendeva i suoi tentacoli dall’alto del salone. «Buona sela signoli», disse questi sospendendo il lavoro.

    Al premier quell’invadenza sembrò un oltraggio alla sua persona. «Scimunito di un limoncello, quante volte devo dirti che qui non ci devi stare quando ci sono io?»

    «Scusa signole, poi non potele… vedele paltita», si giustificò il domestico.

    «La partita!» borbottò sprezzante l’ambasciatore, rischiando di commettere l’ennesima imprudenza.

    «Ah, già… c’è la partita. Quasi dimenticavo», replicò Orazio.

    Il premier aveva fondato una squadretta di calcio che militava nel campionato dei dilettanti. L’aveva chiamata Real Grifone e obbligava i suoi dipendenti a recarsi a tutti gli incontri casalinghi. Lasciò sbollire la stizza. Poi, rivolgendo un sorrisetto all’ambasciatore, chiese: «Hai mai conosciuto la giovane lady Sonia?»

    «Mai!»

    I due amici lasciarono la stanza, mentre il cinese riprendeva a spolverare.

    L’uomo ragionevole si adatta al mondo.

    L’uomo irragionevole cerca di adattare il mondo a se stesso.

    Perciò il progresso è opera di uomini irragionevoli.

    [George Bernard Shaw]

    III

    A discapito dell’eccezionalità dell’evento i funerali di John Barnard ebbero scarso seguito. In chiesa si erano recati una trentina di openiani – così si definivano gli abitanti della piccola isola di Open Arms – ed appena in venti, i più affezionati, avevano partecipato alla sepoltura in cimitero.

    Tra questi vale la pena di ricordare Chris, Amaltea, Stanley ed Arturo, i più stretti collaboratori del fu detective; il governatore Wang ed il suo vice, Gaspra Gregory; il capo della polizia Milla Orion con alcuni subalterni: Gianina, Denise ed Oberon; Ava, la ragazza di Chris; Juliet, l’ex ragazza di Barnard, con la sua nuova fiamma a sorreggerla; Nastassja Oort, ex moglie dello scomparso governatore Cassini, e pochi altri ancora a comporre un semicerchio intorno alla bara.

    Padre Leonard, dopo aver recitato il requiem si stava occupando del pio officio, mentre Frank, il nuovo custode, lo affiancava impaziente con un badile tra le mani, pronto ad interrare quella cassa da morto vuota.

    Ebbene sì. Vuota, poiché non era stato rinvenuto alcun cadavere, ma ci si era basati sulle deposizioni di due donne dalla moralità irreprensibile che avevano assistito al consumarsi della sciagura. Testimonianze sostenute da inconfutabili tracce, dal ritrovamento di alcuni oggetti appartenuti al detective e dalla rivoltella del carnefice di Oscar Regolo – l’ultima vittima di una raccapricciante serie che aveva sconvolto l’isola – annegato insieme a Barnard al termine di una estenuante lotta.

    I fatti salienti, stando alle versioni di Amaltea Hubble e della dottoressa Nastassja Oort, si erano più o meno svolti in questi termini: il detective Barnard, la notte in cui perì, stava indagando sulla morte di Oscar Regolo; un intricato caso che aveva anche visto il presunto assassino, il signor Benjamin Seyfert, finire a processo ed essere assolto per insufficienza di prove. In seguito ad una soffiata, Barnard aveva rintracciato la dottoressa Oort allo scopo di farsi chiarire alcuni aspetti della vicenda. Nel frattempo, la collaboratrice di Barnard, Amaltea, aveva ricevuto una chiamata anonima che raccontava di un tipo sospetto visto aggirarsi in piena notte ai margini del cimitero, proprio a ridosso della foresta. E così aveva raggiunto il detective e la dottoressa e tutti insieme si erano recati al camposanto per assicurarsi che non fossero state commesse effrazioni.

    Muniti di potenti torce, avevano perlustrato la zona fino a quando non avevano trovato alcune orme fresche che dal cimitero si addentravano nella fitta foresta. Poi era successo tutto il resto e, nonostante lo scetticismo paventato da alcuni cittadini openiani, i racconti delle due donne combaciavano alla perfezione. Avevano prima udito uno strano fruscio provenire da alcuni rami, poi visto un’ombra incurvata allontanarsi verso una macchia più folta. A quel punto, chiunque fosse, doveva avere avuto un valido motivo per nascondersi; gli era stato intimato di fermarsi e di farsi riconoscere, ma questi, per tutta risposta, aveva sparato due colpi di rivoltella in direzione degli inseguitori. Nel ricostruire gli eventi, Nastassja Oort aveva osservato che il sospetto doveva essere stato abbagliato dalle luci delle torce, mancando clamorosamente i bersagli. Era cominciata una vera e propria caccia all’uomo, e i tre, rinfrancati da una sequenza di scatti a vuoto, avevano abbandonato ogni indugio e affrettato il passo. Il primo ad agguantare lo sconosciuto era stato John, il quale, dopo una breve ma violenta colluttazione, lo aveva immobilizzato e disarmato. Poi, quel demone doveva aver scorto il detective vacillare e ne aveva approfittato per scivolare dalla sua presa, dandosi nuovamente alla fuga. Amaltea e Nastassja raccontarono di aver fatto chilometri di corsa sul terriccio molle, di essere state graffiate dai rami di alberi ricurvi e dalle punte aguzze di enormi foglie di pandano, prima di ritrovarsi di fronte ai corpi immersi fino al torace dei due uomini che sprofondavano avvinghiati nelle sabbie mobili.

    Amaltea, compiendo un ultimo e disperato sforzo, aveva provato a distendersi sull’orlo della palude e ad allungarsi, fino a sentire le proprie ossa scricchiolare per la tensione. Era riuscita ad afferrare il giromanica della camicia di Barnard, ma l’agitarsi di lui in quella stretta mortale non aveva fatto altro che provocare uno strappo, accelerando così la sua fine; e poco era mancato che lei stessa venisse risucchiata in quella poltiglia. Alla fine era rimasta lì, a piangere sulla sponda della palude, con un pezzo di tessuto infangato tra le mani.

    Crab

    -Note dal sottosuolo-

    1

    Sono vivo.

    Sono stato vittima di un complotto, come sono soliti dire i politici colti in flagrante reato, ma sono ben lungi dall’essere diventato un fantasma. Chissà cosa si saranno inventate, quelle due streghe.

    La verità è che mi hanno rapito, legato ed imbavagliato. Poi mi hanno condotto nella foresta e infine mi hanno spinto nella palude. Sapevo troppo. Avranno approfittato della dabbenaggine dei cittadini openiani, e questi se la saranno bevuta. Scommetto che ci è cascato persino quell’idiota di Chris. Milla Orion ed il governatore Wang avranno detto che è inutile dragare; che le paludi sono pozzi senza fondo, e poi Amaltea e Nastassja avranno prodotto delle prove… tutte a dimostrare che i fatti si sono svolti come loro hanno raccontato.

    Ah, ma io non ci sto. Troverò un modo per andarmene da questo posto.

    Più è grande il tuo habitat, maggiori saranno le tue possibilità di sopravvivenza.

    Mark Cassini, l’uomo che come me credevano morto, mi siede di fronte. Avremmo entrambi condiviso quella vita alternativa, ma a differenza sua io non ho scelte intelligenti: vivere nel Crab oppure essere rinchiuso in uno sgabuzzino di un metro quadrato, fino alla resa. Nessuno deve sapere, mi ha detto. Quelle parole continuano a tormentarmi.

    Scelgo l’adattamento.

    Visite mediche molto accurate.

    Dopo essere uscito dallo studio di Mark, Bob mi conduce in fondo al lungo corridoio, dove si apre una porta che reca un serpente alato come effige. Da lì si accede a quella che chiamano l’infermeria: un altro corridoio lungo quanto quello che abbiamo appena attraversato, con una serie di porte laterali. Bob apre la prima alla nostra sinistra, invitando la dottoressa ad uscire. Vedo, così, una donna grassoccia e bassa di statura, i capelli ingrigiti raccolti in quella che una volta doveva essere una folta chioma.

    Mi scruta diverse volte dalla testa ai piedi, come se stesse studiando un raro esemplare di essere antropomorfo. «Sì, sì», annuisce. «Bene. Venga con me», dice. Mi rassicura, non ho nulla di cui preoccuparmi. Al termine della visita sarebbe arrivata una certa signorina Lorraine a prelevarmi.

    Vengo sottoposto ad una visita molto scrupolosa: esami del sangue, dell’urina; controllano il battito cardiaco, la respirazione; mi vaccinano, prendono le mie impronte digitali, mi fanno guardare persino in uno strano binocolo che mi acceca per un istante e mi procura un forte bruciore agli occhi.

    Mi conducono in una stanzetta buia, larga poco più di un corridoio, in cui c’è una sorta di bara cilindrica dischiusa. Mi fanno spogliare e accomodare dentro, dopodiché mi rinchiudono e sento dire: «Dottoressa Aldrin? Lo scanner, grazie».

    Un fascio di luce porpora prende ad avvolgere il mio corpo e, nonostante non avverta alcun dolore, ne vengo fuori tutto intontito. Un’infermiera di colore sostiene che si tratta di una normale reazione e che presto mi riprenderò.

    Mi lasciano riposare su una sedia da ufficio, in quello spazio angusto, per una decina di minuti, e in effetti va già meglio. Poi, dalla consolle sento una voce dire: «Cerottino rilevatore».

    «Mi sono tagliato?» chiedo.

    Per tutta risposta, la dottoressa che mi ha visitato si affaccia alla porta ed esibisce un largo sorriso, mostrandomi i suoi denti macchiati di nicotina.

    Da lì a qualche minuto giunge un infermiere che mi ricorda il dottor House. Mi squadra anche lui per un attimo. «Dove lo preferisce?» mi domanda.

    «Di che si tratta?» voglio sapere.

    «È solo il nostro simbolo», interviene la dottoressa, sempre con quel sorriso raccapricciante stampato sulle labbra.

    «Cioè sarei marchiato, come voi?»

    «Avanti, su! Non faccia tante storie, detective», esclama alquanto seccato l’infermiere.

    Sanno chi sono, rifletto… Mi chiedo soltanto fin dove vogliano spingersi.

    Stavo per dire che potevano piazzarmelo anche sul culo, quando la dottoressa suggerisce all’infermiere: «Glielo applichi sul lobo sinistro», quindi, rivolta a me: «Le causerà un po’ di prurito e

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