Tripoli - La Terra di chi
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Tripoli - La Terra di chi - Rita Ragonese
1999 – IL VIAGGIO
Il viaggio è cominciato, non c'è che dire, Rosa ne è convinta. Quando il mare s'è fatto scuro e la volontà piegata al programma di bordo, il viaggio è proprio cominciato. Le resta da capire se è di andata o di ritorno.
Da più di mezz’ora se ne sta seduta sullo sgabello alto, appoggiata al bancone semicircolare del bar. Ha ingoiato una pastiglia contro il mal di mare anche se di solito il dondolio non la disturba. Ma quella mattina è agitata e se ne sta lì, davanti alla tazza fumante di tè, che oscilla come un piccolo mare protetto, come la sua anima liquida. Rosa pensa a quanto il mondo di giorno sia diverso dal mondo di notte. Due e indipendenti. Si trova immersa in quel ragionamento insopportabile.
I pensieri non girano, Rosa li disconosce come figli della nausea.
Ha scelto la nave per il tempo più lungo. Palermo-Malta-Tripoli. Per il cesareo aveva scelto l’epidurale. Stesso motivo. Avvicinarsi piano, esserci.
Quando aveva lasciato la città era molto giovane. Il tempo non aveva ancora a che fare con la distanza. Era qualcosa di grande ma non più della vita. Il deserto, quello sì, è distanza. L’oceano, è distanza. Ma il tempo era solo quello che mancava alle nozze di Amina.
Il tempo era il ritardo sulla data presunta, perciò Stella partorisce senza avere il marito vicino.
Il tempo era una festa lunga tre giorni.
Era non vedere l’ora.
Poi il tempo di colpo diventa adulto al porto di Tripoli. Una nave salpa tirandoselo dietro attraverso il Mediterraneo. Malta, Napoli, campo profughi. E il tempo dietro a moltiplicarsi, farsi terra, pianura, appennino. Distanza.
C’è il passato e c’è il resto del tempo. Per Rosa il passato non è qualcosa del mese o dell’anno prima. Il passato è Tripoli. Non sarebbe stato così se un colpo secco non avesse reciso il fluire della vita tra gli uomini e la terra. Tripoli sarebbe ancora solo una città.
Invece Tripoli è un conto aperto, una faccenda da sistemare non si sa bene con chi, né in che modo.
Trent’anni prima, senza spargere una sola goccia di sangue, un proclama e un decreto avevano inferto tutte le ferite dell’anima e adesso, dopo mezza vita, si sta presentando la possibilità di verificare la tenuta delle suture.
A breve la nave attraccherà, i piedi di Rosa calcheranno il penultimo e poi l’ultimo gradino della scala e poi poggeranno a terra. A Tripoli. Riprenderanno il contatto interrotto. In trent’anni tutte le cellule si sono rinnovate ma i piedi sono gli stessi che Tripoli ha sostenuto per tutta l’infanzia e l’adolescenza. La memoria è migrata di generazione di cellule in generazione di cellule, come l’appartenenza del sangue al proprio gruppo, per rimanere vivida e fedele. Per far sì che Rosa rimanesse Rosetta.
Fino a quel gennaio del 1970 la vita respirata a Tripoli era stata una massa dolce e cremosa di attimi che, con il passare del tempo, si era fatta sempre più definita fino a diventare una pallina di immagini, suoni e odori concentrati che rimbalza morbida nella testa e provoca a volte certi brividi leggeri.
Khadija avrà settant’anni, settantacinque al massimo. Sembrava anziana già allora, chissà adesso. L’importante è che abbia mantenuto la lucidità della mente, senza quella il viaggio intrapreso da Rosa sarebbe inutile. Sarebbe come aprire alla pagina delle soluzioni e vederle svanire un attimo prima di averle lette.
Se non potrà rincontrare Amina, Rosa confida di poterla rintracciare attraverso le spiegazioni di Khadija. La ritroverà, ne sarebbe certa se non fosse per lo spillo del sospetto che punge gentile.
Amina non si era fatta trovare all’appuntamento alla Mansura qualche giorno prima della partenza in quel lontano 1970, ma questo non vuol dire niente.
Gli appuntamenti si realizzano solo quando il tempo è maturo abbastanza da poter dare un insegnamento. Lo stesso vale per gli appuntamenti mancati.
E adesso? Cosa si aspetta Rosa da quell’incontro? Non certo reversibilità.
Lo sta raggiungendo, camminando lungo la linea di confine tra impulsi di vita e tracce di morte.
1949 – MARIO
Mario è arrivato dalla Sicilia per un pezzo di terra secca da lavorare da mezzadro. Viti, aranci. Non gli interessava fare il proprietario, a lui. A volte si pensa così, quando gli altri pensieri costano troppo. Gli bastava crescere i due figli. La terra era secca come in Sicilia e pure di più. Ma almeno non c’era la guerra. Così credeva. E lui, anche quando le bombe arrivano a Tripoli, resta convinto che là è meglio, le strade sono tutte in pianura, no come a Solicchiata che con il carretto era una sfacchinata sotto quella montagna nera. A lui piacciono le strade ampie dove l’aria e i pensieri girano meglio. Anche la fame è più dignitosa in Libia.
«Mario, a quando il terzo piccirillo?» gli chiedevano.
«A mai. Questi sono i figli miei. Paolo e Francesca. Devono studiare. Almeno Paolo, diplomato lo voglio. Pensi che da sta sabbia ci puoi tirare fuori da studiare a quattro, cinque figli?»
Marca, sua moglie, lo guardava storto. Maternità mozzata. Insopportabile dipendenza dall’uomo dispensatore. E passi che non c’abbiamo la terra nostra, ma i figli…
Mario ha le mani grosse. Quando raccoglie patate, la pelle ce l’hanno uguale. Buccia di mani incrostate di terra. Sotto il sole di Libia a zappare il deserto dove manco il Signore.
Talib passa ogni tanto e seduto in groppa al somaro lo guarda e non lo capisce. Spezzarsi la schiena per quattro patate. Ma Mario riempie cassette e porta al mercato. Irriga il secco con il solo sudore. Mani grandi come badili che alla sera trovano pace sulle mani di Marca, sottili e veloci. Instancabili, anche quelle, che non si prendono mai una nell’altra. Infilano l’ago e con mosse da niente fanno grembiuli e pantaloni per studenti italiani.
Quando il sole si abbassa si alzano i grilli assordanti e una frescura da poco. Paolo studia in camera sua, sua sorella Franca ricama il corredo. E Mario respira la pace del cuore.
«Ci sarebbe un terreno da prendere. Un lavoro buono» dice Mario una sera.
«Ci fai cambiare casa di nuovo?» gli chiede Marca.
«No, niente. È solo un frutteto su da signor Antonio, giusto da tirarci fuori qualche comodità per noi. Diciamo un paio d’ore al giorno di lavoro».
«E quando ci vai, che già ora ti ritiri alla sera…»
«Questo è il fatto. Peccato. Proprio un peccato perderlo. Pure il pozzo c’è, la terra è buona, mica come qua. Sai la frutta che ci viene fuori!»
«Che ti disse signor Antonio?»
«Niente. Disse che Abdallah non ci va più, vanno un mese e si stancano sti arabi. Ora vuole uno fidato. A me vuole. Paga bene… peccato sarebbe».
«Mario, se tu dici che è un lavoro buono, vacci. Io ti do una mano nell’orto. Ora che Franca s’è sveltita a cucire, io mi faccio un paio d’ore giù al campo e lei mi porta avanti i grembiuli. Coi pomodori sai che m’arrangio bene».
«Per questo t’ho presa. Perché sei una che s’arrangia bene con tutto, sei. Vieni qua vicino, Marcuzza mia, che se non c’eri tu sto sole m’aveva già seccato le vene».
Hadi e Gino – L’allenamento
Hadi Tumi torna vicino al muretto a lato della pista e continuando a saltellare con le ginocchia al petto lancia cinque pietre ai piedi di Gino. Cinque belle pietre lisce e uniformi. «Dai facciamo una partita e poi riprendiamo». Gino non se lo fa ripetere, l’allenamento è stato pesante e quell’ossesso di Tumi non gli dava respiro. Due giri a cinque pietre. Funziona che dopo averle sparpagliate per terra ne lanci in aria una e prima di riacchiapparla ne raccogli un’altra da terra con la stessa mano. Così per tutte e quattro. Poi di nuovo ne lanci in aria una e le quattro sparpagliate le raccogli a due a due e così via. Se sbagli passi la mano.
«Vedi che questo gioco te l’ho insegnato io, eh!» dice Gino mentre lancia e afferra le pietre come un abile giocoliere.
Hadi ride: «Paura che vendo il brevetto? A quanto le posso vendere cinque pietre?»
Ride a bocca spalancata con i denti rigati di giallo. Dicono che sia l’acqua a ridurre così i denti agli arabi.
«No, è che poi ti vanti che è un gioco vostro, ti conosco io».
«Non ti preoccupare, il gioco è