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Come ombre tra la nebbia: La prima indagine in via De Giorgis
Come ombre tra la nebbia: La prima indagine in via De Giorgis
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Come ombre tra la nebbia: La prima indagine in via De Giorgis

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Quel mercoledì 5 dicembre del 1984 è un giorno particolare per il dottor Elio Fabiani, costretto a girarsi i pollici nell’insolito silenzio del suo studio medico in via de Giorgis 15, una via nella zona centrale di Corvale, piccola città del sud Italia. Sarà però l'improvvisa morte di un caro paziente a disturbare la forzata quiete, che in realtà segnerà l’inizio di tutto. Altri drammatici eventi, tra cui il ritrovamento del cadavere di una giovane donna, lo catapulteranno infatti in un contesto a lui sconosciuto. Al punto che arriverà ad affrontare un interrogatorio al cospetto del suo nuovo “vicino di casa”, il tenente colonnello Mario Barbèra, giunto da poco a Corvale in qualità di comandante della Caserma dei Carabinieri, situata al civico 42 di via de Giorgis. Nonostante il loro incontro non sia dei migliori, tra i due nascerà un’amicizia che li porterà a seguire insieme le tracce di un assassino che ha escogitato un piano particolare: far fuori le vittime con le loro stesse mani. Fabiani e Barbèra dovranno sbrogliare un vero e proprio rompicapo, a incominciare dal capire se le vittime siano scelte a caso o legate da un unico specifico movente. 
LanguageItaliano
PublisherToniaFur
Release dateAug 7, 2019
ISBN9788834167038
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    Come ombre tra la nebbia - Antonella Furci

    Antonella Furci

    Come ombre tra la nebbia

    UUID: 6dae9aa2-77c1-4e9b-ab5c-64e186ec7f03

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Antonella Furci

    COME OMBRE TRA LA NEBBIA

    La prima indagine in via de Giorgis

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi, episodi e discorsi sono frutto dell’immaginazione dell’autrice e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, eventi, situazioni o persone, veri o immaginari, è del tutto casuale.

    A Elios G.

    preziosa e indelebile essenza nel cuore di tutti.

    Un giorno particolare

    Mercoledì 5 dicembre

    «Memè!» esclamò appena sentì la sua voce.

    «Ditemi dottor Elio che c'è?»

    «Senti, per caso, quando hai aperto l'ambulatorio, hai notato se c'era qualcuno fuori ad aspettare? O se è entrato e poi è andato via mentre stavi sistemando la mia roba?»

    «No, non c'era nessuno. Anzi, veramente non mi sono accorta di nulla, ma mi pare di no... No no, non è entrato nessuno. Strano, vero? Pure voi l'avete notato che stamattina non è venuto neanche un paziente?» rimarcò Memè, che quando doveva dire una cosa la diceva e basta senza pensarci troppo.

    «Eh certo! Se l'hai notato tu figuriamoci io che qui ci lavoro» borbottò stizzito, ma con il sorriso sulle labbra.

    La sua pazienza aveva raggiunto il limite. Per questo si era alzato di scatto, aveva dato l'ennesima sbirciatina nella sala d'attesa ancora vuota, e dal citofono interno aveva chiamato Memè all'appartamento di sopra. Ma nemmeno lei era riuscita a rincuorarlo. Pertanto, non gli restava altro da fare che rassegnarsi perché, a quanto pare, quella mattina nessuno si sarebbe presentato nel suo ambulatorio. Dopo quella breve conversazione con la domestica, riagganciò e tornò a sedersi lasciandosi sprofondare nella poltrona in pelle marrone con tanto di capitonnè. Poggiò lo sguardo sul quotidiano e, scocciato, riprese la lettura da dove l'aveva lasciata.

    Da fuori entrava solo buio, pioveva forte quel giorno. Le raffiche di vento erano così violente, che da un momento all'altro i rami della magnolia avrebbero potuto infrangere i vetri e irrompere nello studio. Ma a malapena però riuscivano a sfiorare la finestra.

    Le strade erano deserte e insieme al vento e allo scroscio della pioggia, il cigolio delle imposte faceva da sottofondo al silenzio di via de Giorgis. Chiuderle però, significava rimanere con la sola luce della lampada che il dottor Elio Fabiani cercava di evitare sempre. Non sopportava quel fastidioso senso che fosse già sera, quando in realtà l'orologio sulla scrivania segnava appena le 9:42 del mattino.

    Ma sarebbe andato avanti così ancora per molto, perchè l'incombere di nuvoloni grigiastri sul promontorio di Corvale annunciava che il cielo non si sarebbe schiarito di certo.

    Tuttavia non era la perturbazione meteorologica a spazientire il dottor Fabiani, quanto piuttosto il dover essere costretto a girarsi e rigirarsi i pollici e senza un perchè. Non che nutrisse la speranza che le persone si ammalassero, per carità! Ma tenersi sempre attivo e impegnato, era per lui una prerogativa principale, essenziale. Una questione quasi di vita o di morte, perché più lavorava per i suoi pazienti, più si sentiva energico, vitale, utile a qualcosa. E poi, fattore ancora più importante, la mole di lavoro non gli avrebbe consentito di dare spazio a tutto ciò che avrebbe potuto mandare in tilt il suo equilibrio emotivo.

    Gettarsi a capofitto sui suoi impegni di medico condotto, significava garantire una soddisfazione personale. Un'esclusiva felicità che dipendeva solo ed esclusivamente da lui, e da nessun altro.

    Per questo stare fermo a non fare nulla era qualcosa di impensabile per il dottor Fabiani, e ancor di più se la causa era da attribuire a qualcun altro. Ecco perché non riusciva a dare una spiegazione su come mai, quella mattina, nessun paziente si era ancora presentato in ambulatorio.

    Tra l'altro la situazione non andò mica migliorando. Anzi. A un certo punto peggiorò pure quando fu colto da un'improvvisa inquietudine. Forse era quell'atmosfera uggiosa a suggestionarlo un po', ma a un tratto fu come assalito da una sensazione strana, tipo un presagio in arrivo.

    Ma un'ora più tardi non era arrivato ancora nessuno, tranne Orazio. A passo felpato, l 'ammasso di pelo arancione striato con le zampe bianche come calzini era sceso dall'appartamento di sopra, aveva annusato qua e là lungo il pianoterra rialzato e si era infilato nella seconda porta in fondo al pianerottolo concludendo la sua perlustrazione nello studio privato del suo padrone. Lo aveva poi salutato con un lieve miagolio mentre con un balzo si era accomodato sulle sue gambe, lasciandosi andare così al piacere di farsi accarezzare.

    Orazio sapeva bene che non gli era consentito entrare dalla prima porta dell'ambulatorio, quella più in prossimità del portone del villino. Un edificio signorile di due piani dei primi del '900 con tanto di giardino laterale, con rampicanti di gelsomino profumato che recintavano tutt'intorno.

    Quel primo ingresso era riservato ai pazienti che in sala d'attesa rispettavano il proprio turno per essere visitati nella stanza adiacente. Qui, una seconda porta dava anche accesso allo studio privato di Fabiani: il suo rifugio prediletto, in pratica. Il luogo dove trascorreva intere giornate.

    Così, mentre tutto taceva e fuori diluviava, il dottor Fabiani fu costretto ad ammazzare il tempo leggendo il giornale che Memè, come sempre, aveva fatto trovare sulla sua scrivania. Si limitò però a leggere titoli e sottotitoli, distratto com'era a gettare lo sguardo sull'orologio in legno di tiglio intagliato, a cui teneva tanto. Era lì dai tempi in cui era suo nonno paterno, il dottor Elio Maria Fabiani, a visitare i pazienti.

    Tentò pure di approfondire qualche notizia importante del giorno, ma quella strana sensazione non lo abbandonava un attimo. Si sentiva come un leone in gabbia a cui era impedito di dare sfogo al richiamo della natura. Così, più nello studio dominava il silenzio, più l’irrequietezza aumentava.

    Decise quindi di accantonare il giornale e passare a uno dei soliti manuali di medicina. Magari avrebbe trovato qualcosa di interessante che attirare la sua concentrazione. Sfogliò velocemente le pagine, finché fermò l'indice sul capitolo di farmacologia. Appena poteva amava verificare gli effetti di particolari composti chimici su alcune patologie.

    Di là intanto la sala d'attesa continuava a rimanere vuota, dei suoi mille pazienti neanche l'ombra. Era la prima volta che si verificava una cosa simile. Non si era mai visto l'ambulatorio deserto di mattina e nel cuore della settimana. Qualcuno si presentava sempre, anche solo per una semplice prescrizione medica, e pure se fuori c'era il diluvio universale.

    Tra l'altro nemmeno il signor Antonio Parise si era fatto vivo. Lui, che non passava settimana che non si presentasse alle 9.00 in punto di ogni lunedì, mercoledì e venerdì e sempre per farsi rassicurare che stava bene e che di lì ai prossimi giorni non gli sarebbe venuto un accidente, e che quindi non sarebbe morto. Sarà forse per questo tempo disse Fabiani ormai ridotto a parlare da solo. Orazio se n'era già andato da un pezzo. Magari vista la pioggia e il freddo ribadì a se stesso il signor Totò avrà pensato di rimanere a casa. Anche se, pensandoci, lui è uno di quelli che viene qui pure con la bufera di neve, figuriamoci con acqua e vento. Aspetto un po' e se non arriva gli faccio un colpetto di telefono a casa.

    L'orologio segnava le 11.35 quando il dottor Fabiani riagganciò la seconda volta. Erano trascorsi all'incirca quaranta minuti dalla prima telefonata fatta a casa di Parise. Il tutto, mentre in ambulatorio la noia persisteva imperterrita. L a pioggia e il vento invece avevano cessato, lasciando il posto alla nebbia che, dal punto più alto di Corvale, aveva dato inizio alla sua lenta discesa sulla città.

    Sbirciando dalla finestra, quella che dava su via de Giorgis, il dottor Fabiani trovò finalmente il modo di distendere i nervi lasciandosi catturare dal movimento aggraziato e impercettibile della nebulosa bianca.

    Il suo sguardo fu quasi ipnotizzato da quell'avanzare lento ma deciso, da quella capacità di avvolgere e velare come una carezza prima i tetti, poi le abitazioni e infine vie intere.

    Si divertì e allo stesso tempo si stupì di come ogni cosa spariva alla sua vista. In quello scenario sbiadito, di cui appena si intravedevano i bagliori delle luci natalizie dei negozi, riuscì a scorgere i pochi passanti che camminavano con gli occhi inchiodati a terra per paura di inciampare. Le vie erano sgombre di auto e di qualsiasi altro mezzo. Davvero insolito per Corvale, pensò, dato che in genere bastava una semplice pioggerellina a mandare in tilt il traffico. Mi sa allora che è successo qualcosa di grave che ha bloccato tutto si diede ancora un'altra giustificazione, nella speranza che il tempo desse segni di miglioramento.

    Ma non trovandoli, circondato dal semibuio che filtrava dalla finestra, se ne tornò alla scrivania e riprese la lettura che aveva interrotto al paragrafo delle patologie rare che potevano essere confuse con altre.

    Cercò in tutti i modi di trovare la concentrazione, ma la mente in preda ai pensieri glielo impedì.

    Ma dove diamine è andato a finire? si ripeté facendosi una grattatina alla nuca. Che diavolo sarà successo? e alzò gli occhi all'orologio: era il momento di provare a ritelefonare al signor Parise. Scocciato e ora pure ansioso, poggiò d'istinto il libro sulla scrivania per fare un ultimo tentativo. Compose il numero e al terzo squillo finalmente una voce rispose.

    «Pronto?» Era il signor Totò.

    «Buongiorno, sono il dottor Fabiani.»

    Quella volta fu proprio lui a dover essere rassicurato. E pensare che non faceva altro che ripetere al suo paziente che: l'ansia era una questione di tutti e chi più e chi meno prima o poi deve farne i conti. Ma ribadiva pure che: " l'importante è non farla diventare patologica". In pratica come quella di Antonio Parise, per gli amici Totò, ipocondriaco cronico con attacchi di panico.

    «Caro dottore che piacere sentirla!» lo salutò l'anziano con un certo slancio e l'inconfondibile risatina che si percepì dall'altro capo del telefono. Si lasciò andare a un'esplosione di gioia e soprattutto di tante parole, che aspettava di dire proprio a Fabiani.

    «Lei non sa quanto l'ho pensata oggi. Ma sono riuscito a trattenermi, sa. Ha visto? Eh... ha visto?»

    Il dottor Fabiani sgranò gli occhi, aggrottò le sopracciglia poi si morse le labbra. All'improvviso ricordò tutto e in quel preciso istante si sentì sprofondare. Aveva detto al suo paziente di allenare la mente incominciando a sfidare piano piano le sue paure. Perciò quella settimana sarebbe dovuto andare a farsi controllare solo due volte, saltando il mercoledì.

    «Ha visto come sono stato bravo?» replicò Parise come un bimbo in cerca di apprezzamenti. «Certo, non le dico che fatica ho fatto a non venire da lei» aggiunse senza aspettare una risposta dal dottore. «Ho cercato di seguire alla perfezione ogni cosa che mi ha suggerito lunedì. Ma purtroppo, immaginando cosa avrei dovuto affrontare oggi, ho iniziato ad agitarmi ugualmente.»

    Parise incominciò a descrivere la sua mattinata, ignaro dell'imbarazzo del dottor Fabiani che non proferì parola. Lo ascoltava tra il compiaciuto e il dubbioso, perché non si capacitava di come era riuscito a dimenticarsi di una cosa così importante. L'anziano invece era un fiume in piena.

    «Ero molto teso dottore e nonostante mi fossi sforzato a seguire i suoi consigli» continuò imperterrito Parise «e cioè, che quando l'ansia mi assale devo immaginare qualcosa di positivo, alla fine però non ho resistito. Perché più pensavo al fatto che non sarei venuto a farmi visitare, più mi sentivo male.»

    «Mi dispiace signor Totò, ma l'esercizio consiste proprio in questo. Così ha spiegato il mio amico psichiatra.»

    «Sì sì capisco, però a un certo punto non ce l'ho fatta. Ho preso cappotto e ombrello e sono uscito per venire da lei.»

    Il dottor Fabiani storse il naso, a quel punto fu curioso di sapere cosa avesse fatto tutto quel tempo, dato che non era andato da lui.

    «Stavo per entrare nel suo portone, quando di colpo mi sono fermato. Mi è sembrato male disobbedirle. Così mi è venuto in mente di mettermi al riparo sotto un balcone dall'altra parte della strada, per guardare in direzione di casa sua. Ah...a proposito, la magnolia nel suo giardino è cresciuta, eh! Comunque ho preferito stare nei paraggi per sentirmi più tranquillo. Se mi fossi sentito male lei mi avrebbe salvato lo stesso dato che mi trovavo lì vicino.»

    «Ho capito» fu l'unica cosa che riuscì a dire Fabiani, mentre con una mano si teneva la fronte ancora incredulo per essersi improvvisamente rincitrullito.

    «Poi però...» continuò Parise che aveva proprio bisogno di sfogarsi «il vento e la pioggia si sono fatti insistenti e mi sono dovuto riparare dentro il Bar Castiglioni. Ho ordinato un cappuccino e mi sono seduto all'angolo vicino alla porta, il posto dietro quella pianta... come si chiama... ah sì sì... il ficus benjamina, così si chiama. Davvero una bella pianta ha messo la signora Castiglioni...»

    «Sì va bene, ma poi che ha fatto?» lo interruppe Fabiani sempre più incuriosito.

    «Dunque dov'ero rimasto… ah ecco, come le dicevo ho sorseggiato il cappuccino guardando fuori verso il suo palazzo, anche se la nebbia a un certo punto ha offuscato ogni cosa. Ma per fortuna ho scambiato qualche parola con alcune persone, il tempo è volato e a un tratto mi sono accorto di stare meglio. Sì dottore, mi sono sentito meglio. Comunque, ha visto come sono stato bravo?»

    «Bravissimo signor Totò!»

    Il dottor Fabiani era davvero contento e non si era scocciato a sentire il resoconto senza sosta del suo paziente. Anche se in un modo o nell'altro, ancora una volta si trovò ad assecondare le sue fobie.

    Antonio Parise era un ex maestro delle elementari, vedovo da un paio d'anni dopo ben quarantatré di matrimonio senza figli. Dai modi garbati e gentili, nonostante il suo stato ansioso, stava sempre attento a non dare mai fastidio a nessuno. Per questo suscitava in tutti una certa tenerezza. Pur non essendo uno psichiatra, il dottor Fabiani a modo suo cercava di aiutarlo a trovare quell'equilibrio emotivo che aveva smarrito dopo la morte della moglie. Un equilibrio però, che Parise voleva acquisire con il solo aiuto del suo medico di famiglia: di psichiatri e di psicologi, non si sa perché, non ne voleva che sapere.

    Dopo essersi assicurato che il suo anziano paziente stava bene, Fabiani lo salutò dandogli appuntamento a venerdì al solito orario. Era più sereno quando riagganciò, ma continuò ugualmente a pensare a come diamine aveva fatto a dimenticarsi di una cosa detta due giorni prima. Tra l'altro aveva rovinato la ginnastica psicologica, come lui l'aveva definita, perché oltre a non doversi vedere, non dovevano nemmeno sentirsi. Eh bravo Elio! si rimproverò da solo.

    La nebbia si era diradata, anche se il cielo continuava a rimanere coperto e avrebbe potuto riprendere a piovere da un momento all'altro. Ma si erano già fatte le dodici e mezza e ormai non c'era più nulla che lo trattenesse in studio. Avvisò quindi Memè che quel giorno avrebbe pranzato prima del solito e sistemò poi le ultime scartoffie prima di salire su a casa. Spense poi la lampada sulla scrivania e si avviò alla porta.

    Con le chiavi ancora in mano, la voce di Memè lo colse di sorpresa. La donna si trovava davanti al portone del villino, intenta a parlare con il solito tono spigoloso. Era scesa a prendere la posta che aveva dimenticato di ritirare la mattina, ma appena mise naso fuori le si pararono davanti due persone.

    Proprio nel preciso istante in cui il dottore uscì dallo studio, era intenta a dire che: « sì, è la casa del dottor Fabiani, ma sta chiudendo, quindi è il caso di tornare nel pomeriggio.» Presa dalla voglia di proteggerlo, anche quella volta Memè dimenticò che aveva a che fare con un medico e che quindi i pazienti venivano prima di tutto, figuriamoci del pranzo.

    Appena udì quelle parole, Fabiani si precipitò al portone per impedirle di fare ulteriori danni. Ma fu colto di sorpresa quando vide la coppia accanto a Memè. Non l'aveva mai vista prima. Si presentò cordialmente mentre al contempo lanciò un'occhiataccia alla domestica, la quale recepì il tacito rimprovero, a cui però rispose facendo spallucce e tornandosene di sopra.

    «Buongiorno dottore!» salutò lo sconosciuto che dimostrava all'incirca poco più di trent'anni. «Ci scusi per l'orario, ma il brutto tempo ci ha fatto perdere l'orientamento. Mia moglie non sta bene e siccome ci siamo trasferiti da poco in città, ci hanno indicato lei come un bravo medico. Possiamo? Altrimenti torniamo nel pomeriggio.»

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