Al margine del suo mondo
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Book preview
Al margine del suo mondo - Carlo Cottafava
Ci si perde nei propri sogni? L’inespugnabile labirinto onirico di un ragazzo si profila lentamente fra momenti di vita quotidiana, silenzi e fragili incomprensioni. I volti delle persone amate sfumano come coperti da un velo.
Un viaggio nella solitudine e nella difficoltà del tutto attuale di allacciare rapporti con l’altro. Più che una storia, un dialogo con se stessi in cui non si fanno altro che domande e nessuna risposta.
Questa edizione digitale inoltre include Note e Capitoli interattivi, Notizie recenti sull'autore e sul libro e un link per connettersi alla comunità di Goodreads e condividere domande e opinioni.
Carlo Cottafava nasce l’agosto del 1981 nella caliginosa valle del fiume Secchia fra le province di Modena, Mantova e Reggio Emilia. Studia lingue e culture dell’Asia all’università di Bologna e teatro in accademia a Torino. Vive da anni su quattro ruote come un artista del circo classico e interpreta la società come farebbe un acrobata trapezista. È alla sua prima esperienza letteraria.
© Carlo Cottafava, 2019
© FdBooks, 2019. Edizione 1.0
L’edizione digitale di questo libro è disponibile online in formato .
mobi
su Amazon e in formato .
epub
su Google Play e altri store online.
In copertina e negli interni:
Illustrazioni di © Mara Santinello
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore,
è vietata ogni riproduzione, anche parziale, non autorizzata.
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Al margine del suo mondo
Illustrazioni di Mara Santinello
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Alla gioia,
ai doni e a tutte le persone
che negli ultimi tre anni mi hanno
baciato,
una volta almeno.
Ai momenti di tristezza e di follia.
A chi ho sussurrato amore.
Come una bestiola selvatica mi sono rintanato
ma sappiate:
Vi amo ancora!
A te lettore che ora mi stai ascoltando.
Carlo Cottafava
Al margine del suo mondo
I.
Mia nonna scuoiava conigli o nei sogni del Minotauro
Un ragazzo con un accento misto a spagnolo, francese e bellunese si alza e comincia una cerimonia fatta di bolle di sapone fumanti, funi spezzate che portano alle nuvole ma poi si annodano, e caramelle. Era uno sconosciuto illusionista, eppure noi abbiamo accettato le sue caramelle senza timore. Poco dopo ci avrebbe rivelato che di fatto ha sempre preferito manipolare gli oggetti e non le persone. Così la tensione però si fece maggiore. Era proprio necessario specificare? È forse possibile manipolare le persone? Lui subito cercò di ritrattare, oppure fece solo finta di mostrare rimorso per quanto appena rivelato. Certo un’interpretazione eccezionale, una gestualità intensa, con quelle mani portate alla testa, la faccia fra le ginocchia, un lieve tremore e quella frase appena soffiata, quasi taciuta: «Non avrei dovuto dirlo. Piangi Pierrot».
Poco importa, eravamo troppo impegnati a rubare lo spettacolo, i nostri occhi erano assetati, forse quell’ambiente surreale ci succhiava l’attenzione fluida come acqua, una fonte d’energia, un fenomeno sospeso fra due forze che si attraggono in direzione opposta. Una lotta mai vista, ma alla fine le caramelle si ruppero e lo zucchero colando mieloso su di noi ci rallentò facendoci mettere da parte ogni velleità di battaglia.
Quando poi, nel pieno della pace, emerse da un anfratto buio e cavernoso un uomo enorme, forse un gigante o magari un orso goloso. Ciondolante si avvicinò a noi ma sembrava non vederci, pareva più che altro andare a naso, accennando ogni tanto qualche mugugno in un dialetto misto a francese, spagnolo e siriano. Fu a quel punto che mi sistemai le mutande per far posto a un ospite in più. D’Artagnan fra i tre moschettieri.
Comprare alla fiera equivale a farsi fregare, in fondo è questo il bello della fiera. È aliena, arriva negli spazi che conosci da sempre e li stravolge. Dove c’era la noia del solito la fiera mette il brivido dell’insolito. Come ci son finito? Non avevo certo intenzione di comprare, non volevo caramelle, ma già che ci sono perché combattere? Entriamo in questa casa degli specchi deformanti, vediamo cosa succede alla nostra immagine e poi addormentiamoci. Entrare significa uscire in un’altra lingua; chi parla la lingua dell’entrata non capisce chi parla la lingua dell’uscita e viceversa. Eseguiamo la stessa azione ma in condizioni diverse: il risultato è comunque una metamorfosi. Vedo persone compiere continuamente il travaso, è la cosa più normale che possa accadere. Mai sono stato stupito da tutto ciò, per questo non provo nessun disagio nell’entrare, nessuno sforzo per uscire.
La prima azione che ho compiuto ritengo sia stata anche l’unica che abbia avuto veramente senso nella sua infinita reiterazione. Però da poco ho cominciato a notare che esiste una condizione terza, in ogni travaso fra l’uscente e l’entrante si manifesta uno stato tensivo altro: il margine, un istante impercettibile nel quale si condensano le due forze; comprimendosi generano un’energia così grande da non esser riconosciuta. Siamo gente piccola in confronto a tutto ciò, siamo come i ciechi ai quali vien chiesto di descrivere un elefante, pur non potendolo toccare per intero. Come trovarsi al cospetto dell’universo credendo di poterlo abbracciare nella sua immensità: lo sforzo di comprensione ci allontana dalla comprensione stessa, perché nello sforzo isoliamo la ragione; quando è invece necessaria una piena compartecipazione dell’uno, del due e del tre, come dei diecimila esseri e di tutte le manifestazioni dell’ignoto.
Esplodo improvvisamente.
«Alzarsi dal divano è stata una cosa difficilissima, non trovi? Ora che siamo fuori è più facile ragionare, quest’aria mi ossigena un po’ i capelli. Forse i nostri capelli sono effettivamente delle protuberanze di materia grigia. Ismail, mi senti?».
La battuta non è stata sentita, meno male. Magari l’ho solo pensata. Mi sento stupido a tratti.
In strada c’è ancora molta gente, non è per nulla tardi e non serve preoccuparsi di prendere la macchina per sbattere il muso in qualche posto di blocco; non ci sono poliziotti in giro a quest’ora che abbiano voglia di fermare due fulminati che planano a cinquanta all’ora per le stradine strette di questa città medievale.
Il sogno si intitolerà I sentieri dell’immortale, ma potrebbe chiamarsi anche Mia nonna scuoiava conigli o Nei sogni del Minotauro. La questione è che questa è proprio una città strana, strana quanto lo è la vita in rapporto alla morte. Perché solo tenendo a mente il rapporto, le circostanze acquisiscono peso. Quando vivi non vedi il passaggio nello specchio e quando muori non lo puoi raggiungere, anche se improvvisamente ti rendi conto di vederlo. Sai quindi come si fa?
Credo non te lo rivelerò.
Attraverso di nuovo lo specchio, allungo la testa un po’ più in là e passo davanti a un distinto signore ben vestito con cappello, soprabito e pigiama. Celato dal fumo di una sigaretta consumata all’angolo della via cerca distrazione dove la moglie, appostata alla finestra di casa, riesce ancora a lanciare lo sguardo.
«Cosa c’è di industriale in questi suoni? La brillantezza, il fastidio che contrasta con la tribalità dei bassi. Sembra un ingranaggio fatto di carne e organi, una macchina primordiale capace di reggersi in piedi e magari di generare vita».
Mentre sprofondo sempre più nel sedile allungo la mano per cambiare stazione. La radio suona musica che conosciamo, ma che a volte ci accorgiamo di non aver mai ascoltato con attenzione. La radio suona sempre musica nuova, noi non l’ascoltiamo ma lei continua a stupire: una macchina primordiale capace di generare vita.
Vita agognata, ottenuta a fatica e vissuta con ancor più fatica. Espressione di un rigurgito, metamorfosi cronenberghiana. Tanto ti ho voluta, quanto ti vorrei ora allontanare. Fortunatamente questa assurda città allevia l’oppressione dell’interminabile. Schianta il sublime come si farebbe con una mosca sul muro e l’infinito in un attimo può esser chiuso in un sampietrino della piazza. Tutte le volte che desidererò la morte d’ora in avanti saprò dove recarmi.
Ecco il travaso.
II.
La mattina
«I l mattino ha sempre avuto un sapore particolare, non trovi?».
Non capisco come riesca a esordire con queste frasi appena sveglia. Non trovo affatto. Questa sarebbe la mia risposta, proprio perché alzarsi il sabato mattina alle otto è un trauma peggiore di svegliarsi alle sette tutte le altre mattine. La mia risposta resta taciuta. Sì sì, proprio così. Altro che sapore particolare, la mattina è proprio amara; per questo preferisco tacere. Piccoli silenzi, piccoli gesti, la tapparella sale lenta, piccoli anche i pensieri. Dove sono le mie pantofole?
«Hai fatto tardi stanotte nani, poi mi racconti, ok?».
Capendo che non avrebbe ricevuto risposta nemmeno a questa domanda, con molta più grazia di quanto ci si possa aspettare e dandomi lievemente le spalle, si sfila le mutande e le posa sul letto rimanendo per un attimo con solo la maglietta che usa per dormire. Io non posso fare a