Neanche gli Illuministi emettono più fattura
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Ad ognuno degli undici racconti corrisponde una differente situazione, che rappresenta il vero unico punto fermo attraverso il quale al lettore è consentito un appiglio narrativo: un appartamento, una telecronaca, un bar, un sottomarino..., dove anche il fattore tempo appare come elemento del tutto ininfluente, e nel quale si muovono uno o più protagonisti, i quali si trovano a fare i conti con una realtà in continuo divenire, farcita di personaggi dalla natura più imprevedibile e mutevole: oggetti, persone, concetti astratti.
Il linguaggio è un uso ricreativo della parola, dove la grammatica, non più una rigida gabbia, divenga un sistema di regole del quale farsi beffe, aprendo un enorme spazio da gioco. La formula è dunque quella di giocare con la metrica, la punteggiatura e la morfologia delle parole, mettendo a frutto la lezione Patafisica nel prendere in giro tutto ciò che è empirico e demolire sistematicamente chi si prende troppo sul serio.
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Neanche gli Illuministi emettono più fattura - Michele Antonelli
stessi.
L’ APPARTA MENTE
…Ma non c’è proprio fine al peggio?
disse Carlo fra se e stesso guardandosi allo specchio, indugiando con lo sguardo in quell’ansa formata dall’incontro fra le sue narici e le estremità superiori delle guance, in quella porzione che lui denominava appunto peggio
. Poco dopo, quella sera accadde che cadde danneggiando inavvertitamente il suo preziosissimo archibugio da parata acrobatica. E d’altronde chi avrebbe potuto avvertirlo dal momento che si trovava solo nel gradasso appartamento, fatta eccezione per le languide occhiate di Pluto che da un angolo della stanza pareva dirgli Povero coglione!
.
Lurido cane dalla coda di ratto, imbruttito da un colore così arancionevolmente colpevole da sembrare con pochissime approssimazioni lo sfortunato epilogo d’una tragedia nucleare
sembrava più o mano rispondergli Carlo attraverso i suoi propri occhi.
– Ar-chi? – sussurrò qualcuno in quel precisato istante da un imprecisato luogo.
– Bugio… Bugio! – rispose Carlo senza alcuna esitazione.
Bugio arrivò.
– Non dovresti essere qui! – esclamò Pluto visibilmente contrariato, tanto da apparire otulP. Tutti si voltarono fissando stupefatti l’animale aranciato che aggiungeva alle proprie stranezze anche la facoltà di parola, ateneo noto per la loquacità degli accademici ivi in formazione. Ma egli continuò iper territo: –…O credi dunque che i gamberetti si peschino comodamente nella salsa rosa?!
Detto questo si rizzò su tutte e cinque le zampe e con aria sdegnata guadagnò la sduscita dalla stanza, per il vero ricompenso piuttosto iniquo, sparendo dallo sguardo tornito di Carlo e Bugio. Ben presto comunquete, i due se ne fecero una ragione per la dipartita del cane. D’altra parte Pluto non aveva mai brillato per intelligenza, nonostante le scarpe fluorescenti indossate abitualmente, e quindi un’esclamazione carica di cotanto risentimento come quella da lui esalata non necessitava certo d’esser soppesata più di quanto meritasse: tredici secondi erano più che sufficienti. Per il buono
dai ventitré; distinto
trentanove; e via così per multipli di tredici. Ma loro erano individui assennati e capaci di godersi la vita, consapevoli che le eccessive ambizioni ne minerebbero la spensieratezza. La sufficienza era perciò un traguardo serenamente accettato da entrambi i boscaioli.
Sua moglie Catania fece irruzione nell’angusto (saliva non disputandum est) appartamento, carica come sempre di suppellettili e varia ghingaglieria di pessimo gusto appesa fra i capelli, i lunghi baffi ed il vestito amaranto, che poi abitualmente posizionava sul mobilio del caso, illudendosi con ciò d’abbellire l’arreda mento. Nessuno aveva mai osato rivelarle l’oggettiva bruttura dei suoi soprammobili, evitando in tal modo l’opportunità di ferirla, dato che si trovavano ad una considerevole distanza dalla Guardia Medica. Il medico invece si trovava proprio nell’appartamento sottostante, ma era sempre troppo occupato a fare la guardia.
Subito dopo, rendendosi conto del disappunto in cui versava la grammatica, Catania s’abbandonò all’affermazione d’un imprecisato numero d’imprecazioni colorite, ma essendo moglie devota limitandosi ai colori primari: rosso, verde ed ocra. Mamma Ocra si offese, ma nessuno dei presenti ci fece caso dato ch’era sepolta sotto un cumulo di soprammobili.
L’orologio segnava luna, cosa piuttosto prevedibile dal momento che ormai la notte era oltrata ed inoltrata al tempo stesso.
Carlo era ancora intento nella riparazione del proprio archibugio, sotto la supervisione di Bugio, il quale era quindi in grado di scorgere i dettagli del rudimentale arnese da guerra ben oltre la sua superficie legnosa. Era infatti dotato della famosa vista a raggi X, ma la cosa era piuttosto inutile data la sua totale carenza di quella dalla A alla W.
Sulle prime Carlo s’arrabattò dunque alla meglio. Il peggio arrivò con le seconde, per non parlare delle terze, le quali, dotate d’un insopportabile saccenza pretendevano di saperla molto più lunga di lui rendendogli estremamente caotico l’intervento, tanto da indurlo alfine a mandare tutto al diavolo, nell’estrema convinzione che forse lui solo avrebbe saputo come aggiustarlo dato che notoriamente ne sa sempre una in più di se stesso.
Una mantide religiosa ebbe il buon senso di dire una preghiera per quel povero diavolo affinché trovasse il denaro necessario per permettersi l’acquisto del materiale occorrente ad agire in modo proficuo sul riparo [ab. Ripara-azione].
– Chi se ne prega! – fu lo sfogo del satanasso al culmine della sua frustazione mistico-artigianale. Volle allora prepararsi un minestrone per distendere i nervi un po’ sciatici, e sparì suonando il violino mancino in cerca d’un coperchio per la sua pentola.
Un brivido scese lungo la schiena di Carlo quando la arancione sagoma di Pluto, che aveva nuovamente preso parte all’arredamento della stanza, gli scagliò sulla nuca un gamberetto intinto nella salsa rosa, il quale non ebbe alcuna esitazione a precipitarsi nello scivolare verso il pavimento attratto da una forza misteriosa che nessuno ebbe la gravità di dichiarare grave.
– Quel che è fatto è gatto. – sibilò disordinatamente il quintupede trascinando stancamente la propria coda da roditore nel suo angolo abituale, presso il quale si accoccolò assumendo le sembianze d’un cocco.
Bugio ne fu tanto scosso e commosso a più non posso che da quel giorno antitetico prese a firmarsi Oigub. Un mese più tardi, non trovando alcuna corrispondenza fra i suoi documenti, mentre espletava il proprio lavoro di import-export di cavilli burocratici, fu fermato alla dogana di Lepanto per accertamenti. E per quel che se ne sa sta ancora là in attesa di menti certe.
In una notte come questa chiunque sa qualunque, ma quasi certamente qualunque non ha la più pallida idea di chiunque. Forse se l’idea avesse almeno una parvenza di tintarella di luna, luna di notte… E invece gno. Mò me ne vado
era scritto a caratteri cubitali sulle infradito che spuntavano dai i suppellettili inferiori di Catania. Povera donna! Aveva completamente perso il lume della regione e brancolava nel buio tra i branchi di nebbia in quella landa desolata situata fra le provincie di Topolinia e Tijuana meglio conosciuta con l’eufemismo di Padania.
Mentre ella s’accingeva alla propria transumanza, s’udiva il flebile segnale in dissolvenza proveniente da una piccola radio a transitor attraverso la quale mamma Ocra era riuscita a sintonizzarsi con la sua canzone preferita, un vecchio motivetto sanremese che le ricordava tanto la sua rude