Carlo e Amalia
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Carlo e Amalia - Alfredo Moretti
(2001)
Preambolo
L’uomo in divisa si osservava allo specchio e sorrideva, per qualche verso compiaciuto della sua nobile figura. Il berretto da capitano di fregata lievemente pendente sulla destra, la giacca blu dell’alta uniforme e i nastrini ben allineati gli conferivano un aspetto solenne.
Al centro, appuntata al nodo della cravatta nera, la Croce di ferro di Seconda Classe con spada all’ordine dell’Aquila tedesca e il nastrino rosso al bottone della giacca.
Dimostrava male l’età: i baffetti s’erano già imbiancati e i segni delle intemperie sulla pelle del viso erano ben visibili. Non si sarebbe detto che quell’ufficiale avesse solo 36 anni ma molti di più.
Carlo si osservava, con gli occhi azzurri cristallini e l’incorreggibile sopracciglio sinistro più alto del destro. Pensò sorridendo che la vecchiaia, alla fine, non lo avrebbe catturato.
Fissò la Croce nera bordata di bianco che gli avevano appuntato sul petto il 9 maggio di due anni prima e pensò alla possibilità che i tedeschi avessero continuato a rispettarla anche dopo l’armistizio.
Non fu per quella medaglia che l’avviso scorta Aliseo riuscì ad uscire indenne dal porto di Bastia, prima che si scatenasse l’inferno? Può darsi, ma nessuno poteva confermare il gesto onorevole, non nel tempo di una guerra così ignominiosa e infame come quella.
Come sempre accadeva quando la mente vagava nel ricordo, questo ne richiamava molti altri e così le immagini degli ultimi anni si affollarono all’uscio della sua memoria, reclamando ciascuna di entrare per prima.
Immagini tumultuose, irrefrenabili e veloci come l’onda maligna dell’oceano che tante volte aveva scosso il sommergibile e cercato di spezzarlo in due tronconi, se la Madre Santa di tutti i marinai non avesse protetto lui e i suoi uomini.
In quel momento supremo, anche il sapore amaro della paura finì per essere superfluo di fronte all’impeto della decisione.
Eppure sarebbe bastato così poco per scomparire nella furia del mare immenso che sfonda la paratia e sommerge la vita con la morte, ma non gli accadde, non fu quello il suo destino e ne provò rimpianto.
La Patria vilipesa, l’Onore tradito, il Giuramento violato e Amalia che non poteva essere sua, tutto precipita di nuovo nell’anima.
Ogni cosa è insozzata dalla bassezza del momento e degli uomini.
Capitano di Fregata, presente! Rispose al saluto della sua immagine riflessa in uno specchio opacizzato.
Gli occhi tremarono alla dignità e alla fierezza, girarono intorno per compiere quell’ultima azione.
Poi li chiuse e rivide il piccolo Charlot che accorreva felice nelle braccia della mamma mentre lei gli narrava le fiabe in francese. Troppo piccolo per capirle, la guardava ammirato aspettando rispettoso il suo sorriso d’amore.
Povera mamma, quanta pena avrai per questo tuo figlio che non è tornato dalla missione più difficile.
Poi trovò ancora il colore castano degli occhi di Amalia che esplodevano nella loro bellezza e gli sembrò d’ascoltare ancora il suo pianto disperato e la sconfitta di non poter mentire.
Perché piangi per me Amalia?
Troverai la serenità che cerchi accanto all’uomo che hai sempre amato.
Carlo avvertì il valore della vita di lei che proseguiva, sentì il profumo della felicità che non era stata sua.
La rivide ancora nell’immagine di una mamma che crescerà i suoi piccoli e si sentì fiero del sacrificio.
Fu allora sereno, consapevole del dovere da compiere, orgoglioso dell’ultima prova che vinceva.
Ma non fu da solo.
Eccoli i suoi marinai e i loro volti, i sorrisi e gli occhi lucidi della speranza di tornare vivi a casa.
Eccoli riemersi dagli abissi che ora lo circondano ammirati e sorridenti e aspettano il suo ordine.
Si sentì protetto. Afferrò senza tremare la pistola d’ordinanza.
Fuori faceva molto caldo e Napoli era rumorosa, anche all’una di notte del 27 agosto del 1944.
PARTE PRIMA (Tripoli, 25 luglio 1939)
La temperatura prese a salire all’alba, non appena l’umidità della notte cessò di bagnare ogni cosa sulla costa della Tripolitania. Alle nove il sole era già alto e bruciava la pelle. Le case ricoperte di calce bianchissima abbagliavano come tanti specchi e riflettevano la luce verso l’alto.
Dalla tolda della torpediniera Alcione, ancorata in rada, si poteva osservare il traffico delle auto che nelle due direzioni percorrevano il lungomare Italia, fino al Belvedere. La gente passeggiava lentamente e le signore eleganti con l’ombrellino aperto si riparavano dai raggi solari. Tutti i militari italiani indossavano sotto gli elmetti coloniali di sughero, occhiali da sole scuri.
Qualcuno portava un asciugamano sotto il braccio: era ancora il tempo in cui, a Tripoli, nelle prime ore del giorno si poteva prendere un bagno rinfrescante e molti ne approfittavano.
Gli arabi si rannicchiavano ai lati delle strade, indifferenti agli sguardi di rimprovero degli europei che non si erano ancora abituati a vederli così accucciati a terra, secondo il loro modo.
Carlo prese il binocolo e volle scrutare da vicino i volti scuri degli arabi, le loro tuniche bianche e oleose sporche di sabbia e grasso, i tagelmust tirati fin sotto gli occhi e i piedi nudi insensibili al calore dell’asfalto che infuocava.
L’ordinanza gli portò una tazza di caffè caldo e lui lo ringraziò, cosa rara nell’ambiente militare. Il Comandante amava comportarsi sempre con gentilezza.
Un gran numero di soldati a petto nudo e elmetto coloniale in testa erano intenti a scaricare grandi casse da alcuni piroscafi attraccati al pontile 24 gennaio, quello più a ovest della baia e alcuni mezzi blu della Regia Marina attendevano d’essere riempiti.
Al Comando si preparano ai festeggiamenti
, disse Carlo sorridendo all’ufficiale in seconda che si era avvicinato.
Sì Comandante. Dovremo ormeggiare anche noi?
Non so, ho un altro incarico. Vedremo
.
L’aria calda, intanto, prese a muoversi e dalla terra sabbiosa il vento alzava piccoli mulinelli di polvere. A bordo i marinai si affrettarono a chiudere gli oblò e le porte, nessuno amava il soffio caldo che nasceva nel deserto e scaricava a bordo folate di calore.
La sabbia, finissima, si appiccicava al sudore e creava una specie di crema salata untuosa sul viso e sul collo che l’acqua non rimuoveva.
Carlo, pensò preoccupato che in quella fornace dell’estate africana, avrebbe dovuto indossare la divisa bianca per recarsi al Comando Marina e il sacrificio sarebbe stato grande ma non avrebbe mai fatto il contrario. La sua indole e la rigida attenzione alle regole, non gli consentivano di scendere dalla sua nave con la giacca al braccio.
Un ufficiale di Marina, per regolamento, non soffre il caldo e se lo fa riesce a nasconderlo, in qualsiasi circostanza.
Dalla tolda del castello di prua osservò distrattamente la superficie quasi immobile del mare, maculato da grandi macchie oleose galleggianti. Era abituato al puzzo della nafta mischiato a quello del pesce marcio, ma nel porto di Tripoli il feto era veramente nauseabondo.
Fortunatamente, ogni tanto giungeva da terra il lezzo dolciastro di chissà quale spezia aromatica locale e ci si abituava presto alla mescolanza degli odori.
Tornò ad osservare la bella città, dove era già stato in altre missioni ma sempre come ufficiale in seconda. Quella volta, al contrario, si presentava con il grado di comandante e la circostanza lo inorgogliva molto, anche se non era il tipo d’uomo che cedeva alla vanità.
La sua Torpediniera era nuovissima, entrata in servizio poco più di un anno prima. Oltre mille tonnellate di una bella nave d’altura, veloce e ben armata; un piccolo gioiello della Regia Marina italiana era affidata alla sua responsabilità.
Diede un’occhiata alle altre navi militari all’ormeggio e prese a classificarle una a una, ben conoscendone le caratteristiche e l’armamento.
Alcune alte, beccheggiavano lievemente sulla superficie con le prue taglienti e pronunciate e in esse riconobbe facilmente due grandi incrociatori leggeri della classe Condottieri. Belle unità, potenti e veloci, come levrieri pronti a inseguire la volpe che fugge e capaci di tagliare l’onda a 38 nodi.
Ripassò mentalmente tutto il naviglio minore e immaginò che gli incrociatori pesanti classe Trento o la corrazzata Roma, che spesso attraccavano a Tripoli, dovessero prestare molta attenzione a non schiacciare qualche unità minore contro la banchina.
Gli uomini della torpediniera Alcione, intanto, erano tutti occupati ai loro servizi.
Il sole seccò rapidamente ogni traccia delle pozze d’acqua che l’umidità notturna aveva creato sul ponte della nave e l’aria appena mossa dal vento caldo era già gravida del torpore che presto avrebbe avvolto ogni cosa, a così poca distanza dalla fornace dell’immensa distesa sahariana.
Una sensazione che lui conosceva bene per averla già provata in quella città sonnolenta, quando il caldo feroce e implacabile spegneva ogni vitalità e rendeva i gesti pesanti, lenti.
Quanti anni erano trascorsi dalla sua ultima missione in Libia?
Vi tornava tenente di vascello a 31 anni e comandante di una nave della Marina. Non si poteva proprio lamentare e rivide la sua giovinezza.
I cadetti allievi ufficiali anelavano all’imbarco nelle crociere estive organizzate dalla Scuola. Era l’occasione ambita e straordinaria di vivere finalmente il mare, dopo averlo studiato l’intero inverno nelle aule dell’Accademia.
La crociera estiva nel luglio del 1925, con la Vespucci, fu indimenticabile. Sebbene le esercitazioni si susseguissero senza sosta e i ragazzi imparassero la dura vita di bordo, la compagnia era assai allegra e gli allievi erano felici di essere finalmente protagonisti dell’avventura sognata mille volte.
Cercò di ripassare mentalmente i personaggi di quel tempo, ora quasi tutti inquadrati nel ruolo Ufficiali, troppi per ricordarli tutti ma di Ugo, di Ettore e di Livio gli era rimasto un ricordo molto vivo.
Poi i contatti s’erano diradati e ognuno aveva seguito la sua strada. Sapeva, però, che Ugo era stato trasferito al Comando di Mare Libia, come aiutante di