Dell'amore e di altre tragedie
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Una serie di racconti di Lady Tora
Le vite si intrecciano, si incontrano per un attimo, a volte si sfiorano e si dirigono su strade diverse.
Quando accade ci ritroviamo in uno stato di smarrimento, non ci sentiamo forti abbastanza ma spesso siamo costretti a ricrederci.
I nostri amori, le nostre tragedie sono ciò che farà di noi un essere unico che si muoverà in un film in bianco e nero o a colori, senza effetti speciali e con colpi di scena che ci porteranno a improvvisare, fino alla scena finale che determinerà il genere di ciò che abbiamo recitato.
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Book preview
Dell'amore e di altre tragedie - Chiara Cazzato
Spartaco
Introduzione
Da bambina amavo guardare i formicai. Ogni formica operaia ha il suo ruolo, segue il suo percorso, aiuta la comunità.
Può accadere che un agente esterno rompa gli equilibri e tutte le formiche si muovano come schegge impazzite, cercando di salvare quel che si può e sacrificando anche loro stesse per il bene della regina. Questo a volte accade anche a noi che ci muoviamo in un ipotetico formicaio, molto più piccolo e disordinato. Abbiamo un ruolo e la nostra regina può essere una persona o qualcos’altro e basta un imprevisto per farci perdere la bussola e brancolare in uno stato di agitazione, alla ricerca di una soluzione o del sacrificio finale.
Le vite si intrecciano, si incontrano per un attimo, a volte si sfiorano e si dirigono su strade diverse. Quando accade ci ritroviamo in uno stato di smarrimento, non ci sentiamo forti abbastanza ma spesso siamo costretti a ricrederci.
I nostri amori, le nostre tragedie sono ciò che farà di noi un essere unico che si muoverà in un film in bianco e nero o a colori, senza effetti speciali e con colpi di scena che ci porteranno a improvvisare, fino alla scena finale che determinerà il genere di ciò che abbiamo recitato.
Ognuno vive le sue piccole tragedie in un microcosmo fatto anche di piccole cose.
L’amore arriva spesso all’improvviso, altre volte lentamente ma quando lo fa niente è più uguale a ciò che era prima.
La paura di soffrire è sempre in agguato perché i primi tormenti li abbiamo vissuti quando ancora non eravamo in grado di razionalizzare ma non sempre la fine di una relazione è la fine, a volte è l’inizio di qualcosa di più bello, a volte semplicemente è solo la vita che continua per la sua strada.
Non è facile parlare di relazioni, raccontare quel che si prova quando qualcosa si interrompe in modo tragico. Non è sempre semplice riuscire a non farsi trasportare dalle emozioni quando si raccontano vite spezzate ma a volte è necessario, se non terapeutico.
Quando ho iniziato a scrivere questi racconti mi sono umilmente ispirata a L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello perché in quel racconto ho visto tutta la tenerezza di una donna che in tutti i modi cerca di proteggere suo marito e tutta la rabbia dell’uomo tramutata in ironia amara per la sua vita che di lì a poco finirà e ho voluto omaggiarlo, senza pretendere di avvicinarmi alla sua grandezza, con il racconto Alla fermata, perché così avrei immaginato oggi il suo protagonista.
Come capita nella vita, nelle nostre vite, non sempre tutto finisce in tragedia o non sempre le cose seguiranno un percorso rettilineo, così avviene in questi racconti.
Chiara Cazzato (sì, è proprio il suo cognome), nata nel '79 in un paesino del basso Salento. Da sette anni vive a Roma, ora in provincia ed è la titolare di questa piccola ma agguerrita casa editrice dal nome Tempesta.
A chi le chiede della sua vita risponde sempre che sarebbe potuta essere un romanzo di serie B, virando alla serie a (minuscolo) con la nascita della sua attività e di suo figlio. è un'appassionata, non esperta, di grappa barrique e vino rosso, innamorata persa, platonicamente, di Stefano Cisco Bellotti (ex cantante dei Modena City Ramblers) e ha un cane con il prolasso dei condotti lacrimali, che si chiama Teo. Molti la chiamano Lady Tora (da leggere tutto attaccato per capirne il senso), nome coniatole dagli amici per il suo modo un po' sopra le righe di presentarsi come editore e come persona.
Gino e Ferrante
«Non fa’ troppi sordi!»
«Ma quali sordi!»
Così, ogni mattina da forse quarant’anni o giù di lì.
Ferrante passava con la sua bicicletta davanti a casa di Gino e quelle frasi, sempre identiche, nel tono e nei modi, erano ormai diventate un saluto o un rito propiziatorio.
Ferrante percorreva quella strada, che fosse giorno di festa o feriale, estate o inverno, che ci fosse terra arsa o bufera di neve e Gino lo sentiva ogni volta arrivare, anzi, ormai lo aspettava e ne riconosceva il cigolio della catena che probabilmente in vita sua mai aveva conosciuto lubrificante.
Solo una cosa era cambiata in quegli anni, l’aspetto dei due amici e l’andatura di Ferrante, prima scattante come una gazzella e nel tempo lenta come quella di una centenaria tartaruga, ma il resto era uguale. Un’istantanea di paese ferma e immobile, d’inverno una sfera di vetro da mettere sul comodino e smuovere ogni tanto per far cadere la neve.
Gino e Ferrante non si erano sposati, entrambi per motivi diversi erano rimasti scapoli e col tempo si erano abituati a quella vita autonoma e senza mogli per casa che dicessero loro cosa fare, come vestire e cosa mangiare.
Gino l’aveva deciso di proposito di non sposarsi, aveva avuto una fidanzata, erano vicini di casa e cresciuti insieme, si volevano bene, un bene puro, senza ombre e senza rancori.
Lei si chiamava Lucia, non era una gran bellezza e neanche le importava di esserlo. Sapeva che la sua missione di vita era diventare una moglie, magari una madre e un domani una nonna, niente altro annebbiava la sua mente.
Le storie di dolore non erano per lei, forse perché la sua testa non si era sporcata con quella robaccia che vendono in edicola e che racconta di donne innamorate e piene di passione. Lei sapeva che Gino sarebbe stato l’uomo della sua vita, i loro genitori erano anche compari, e non lo amava ma gli voleva bene e lo rispettava.
La domenica lei accendeva la radio e mentre faceva le pulizie aspettava che lui passasse, che fischiettasse per farla affacciare. Lei usciva, chiacchieravano un po’, poi si affacciava la mamma di lei e lo invitava in casa. Era normale fosse così, lui era come il figlio maschio che in quella casa non era arrivato.
Ogni tanto Gino e Lucia riuscivano anche a stare da soli ma non succedeva quello che molti si aspetterebbero da due ragazzi giovani e affamati di vita. Niente affatto, Gino e Lucia parlavano, perché lei era la sua più grande confidente e si raccontavano cose di cui nessuno poteva sentire e sapere.
A lui Lucia piaceva, come una sorella, sapeva che avrebbe dovuto sposarla ma non era lei che sognava la notte. Gino sognava Tommaso ma sapeva che mai avrebbe potuto dirlo, avrebbe ammazzato di dolore i suoi genitori, rovinato la sua vita, quella di Lucia e forse anche quella del ragazzo che era all’oscuro di tutto.
Tommaso lavorava con lui in falegnameria, era bravo, veloce, anche nel sottrarre materiali da rivendere. Gino lo sapeva ma mai avrebbe rivelato i peccati del suo desiderio, rischiando di farlo mandare via e così di vederlo meno.
Gli piaceva quando la mattina si trovavano nello spogliatoio della falegnameria, quando si spogliavano e mettevano la tuta da lavoro. Lo ammirava e fantasticava. Con la mente lo prendeva e lo sbranava e lo sentiva morire sotto le sue mani, esausto e felice. Poi tornava cosciente e lo notava mentre fumava e guardava Gino con aria interrogativa, come a chiedersi perché ogni santo giorno il collega si perdesse così nel fissarlo.
Lucia custodiva il segreto di Gino perché sapeva che una brava moglie questo deve fare e che l’importante era tornasse a casa la sera, da lei, che cenassero insieme e che magari figliassero: perché se no per cosa si viene al mondo?
Lucia, un anno prima che convolassero a nozze, un giorno, cadde e non si rialzò più. Il dottore spiegò