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La Luce Dei Miei Occhi
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La Luce Dei Miei Occhi

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La luce dei miei occhi. Aïnim Z’aor Shîrāh, è un romanzo poetico, romantico, panpsichico; ambientato agli inizi degli anni Novanta, nella magica Sardegna. La voce poetica dello scritto, svela il processo doloroso iniziatico di una giovane donna: Berenice El’Ramos. Attraversa l’inferno, arriva al purgatorio; e a fatica, raggiunge la soglia del paradiso: rimane in bilico con il piede traballante tra un passo in avanti e uno indietro… Il Regno dei Cieli è qui, in questa terra: unico luogo dove, ci è concesso di esprimere il nostro precipuo talento: la componente più luminosa e misteriosa di noi.
LanguageItaliano
Release dateJul 26, 2019
ISBN9780244180546
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    La Luce Dei Miei Occhi - Patrizia Franco

    RINGRAZIAMENTI

    Patrizia Yārdén FrancoLa luce dei miei occhiAïnim Z’aor Shîrāh

    Al mio adorato Spirito Guida S-C. F.

    A Teresa Stara e Giovanni Maria Franco

    A Michele e Matteo e Luca e Giulia Farris

    A James Hillman

    PREFAZIONE

    Aïnim Z’aor Shîrāh. La luce dei miei occhi, è un romanzo poetico: romantico-panpsichico; ambientato agli inizi degli anni novanta.

    Il filo conduttore, che tiene cuciti insieme i lembi degli eventi, è intessuto di misteriosofici intrecci sottilissimi; fra mitopoiesi e realtà empirica ed empirea: coesa alle intrinseche radici archetipe.

    Le immagini impresse sui fogli, rilevano le potenze invisibili, i personaggi arcani, le janas; gli influssi sotterranei e celesti della fulgida Gallura: un frammento dell’antica Galilea, che, unendosi alle schegge di altre terre, bagnate dal Giordano che sempre scorre, hanno formato l’iridescente Hyknusa-Šrdn.

    La voce poetica della narrazione, svela il processo doloroso iniziatico, di una giovane donna: Berenice El’ Ramos; fondamentale e necessario, affinché si manifesti la sua essenza, per potersi dipoi, concretizzare.

    Iniziazione che, le consentirà di attingere la majîm dalla fonte ancestrale: saporosa e profumata e cristallina, nel luogo più sacro di lei.

    Privata dagli affetti, umiliata dagli eventi, si sente del tutto scollata dal mondo in cui vive: inadeguata, ripudiata, annientata e vuole farla finita.

    E attraversando il buio freddo dell’inferno, arriva in purgatorio; e, dopo un processo d’introspezione ponderoso, arriva sulla soglia del paradiso; e con il piede traballante, rimane in bilico tra: un passo in avanti o uno indietro.

    Il Regno dei Cieli è qui, in questa terra: unico luogo dove, ci è concesso di esprimere il nostro precipuo talento: la componente più luminosa e misteriosa di noi; che lo si scorge, penetrando la tenebra silente, dell’interruzione a strappo; per poi, riconoscerlo, accettarlo, amarlo, o, ripudiarlo.

    Ed è l’unico motivo, per il quale, arriviamo motivati in questo Mondo: tetro, seppur fanta- stico e irraggiante e prodigioso e policromato e sorprendente fra le sue ombre.

    Sii molto lento

    quando mi leggi

    perché

    è solo per te

    che ho colto l’essenziale…

    UNO

    Respiravo ad occhi chiusi, nel buio silente di quell’arcano mondo dove, da una goccia d’acqua eterea nell’acqua oscura che si espandeva, comparivano le immagini di un insolito filmato: all’apparenza astruso, scevro di un inizio e di una fine percepibili.

    E fluttuavo nel liquido gassoso di quell’immenso mondo, quando un getto scrosciante di acqua, mi ha portata via.

    Ho trapassato la membrana, lacera, per lo strappo violentissimo; e sono ritornata qui, in questo mondo simultaneo a quello.

    Mi si sceveravano le ciglia, e le palpebre tentennavano tremule, come le ali della farfalla mentre si poggia sopra la corolla.

    Scrutavo le sagome nere delle cose, falsate da quell’attimo di torpore per il quale non sapevo più chi ero e neppure dove mi trovavo; e intanto ravvisavo, nel getto scrosciante di acqua, la voce vivace della pioggia.

    Nel precipuo silenzio, s’innalzava l’armonia del suono ramificato dell’acqua, che ballava sulle tegole, che scivolava per le grondaie, che spruzzava dalle bocche spalancate dei pluviali.

    Mi si è allentato il respiro, che fioco quasi muto, rendeva fluidi i nervi, le ossa, i muscoli; e assumendo le sembianze di un nugolo cristallino, incorporavo il suono polifonico dell’acqua, e con lei ballavo e scivolavo e spruzzavo, come se fossi pioggia anch’io.

    Ha incominciato a tuonare. A ogni boato pareva che si lesionasse il cielo; e che si ricongiungesse, appena il tremito assordante si placcava.

    Sono uscita da sotto le coperte, e ho visto una sagoma deforme, attraversare a mezz’aria la stanza; si è spinta oltre la porta, ed è scomparsa in fondo all’andito ottenebrato dal colore della notte.

    Avevo i :<> talmente enfatizzati e ravvicinati, che il respiro non ce la faceva più a stargli dietro.

    Ho acceso la luce con uno scatto improvviso; ero madida di sudore e avevo le labbra e la gola secche.

    Ho premuto l’indice sul bottoncino della lampada che ha fatto :<>

    L’acqua scivolava lungo l’asfalto e si gettava nel pozzetto attraverso la griglia; che imitava il suono della cascata di un ruscello.

    E lo immaginavo esuberante e ridente e vanitoso; inoltrato nel bosco fitto e profumato d’autunno appena iniziato.

    Mi ci vedevo là: a toccare l’acqua, a spruzzarmela addosso, a berla, ad annusarla.

    E spalancando le braccia mi sarei messa a volteggiare, volteggiare, volteggiare……fino a barcollare e a cadere e a rotolare sopra la terra: vestita di foglie marroni, dorate, rossicce e beige.

    Ho schiuso gli occhi; lo scroscio della pioggia era una nenia in do minore, in quel momento.

    Ho tirato su l’avvolgibile. I giardini ridondavano di folle agitate di fiori, tutti verniciati di fosco come i rampicanti, talmente assiepati e accavallati, da rendere invisibili le recinzioni di metallo. Le foglie brune degl’alberi s’impreziosivano d’argento, sotto le luci dei lampioni; e il fiato espirato dal vento, le faceva muovere tutte, e si strusciavano dove più folti erano i rami.

    I panni svolazzavano concitati; si è distaccato dal filo un canovaccio: l’ho visto allontanarsi in fretta, ondeggiare verso l’alto e poi sparire.

    È passata una macchina, strascicandosi le migliaia di gocce strette insieme, sulla pelle incatramata della via. Stava passando l’autobus, il primo della linea, che ha rallentato alla fermata e ha proseguito dritto.

    Le finestre cominciavano a illuminarsi qua e là; le più lontane, lungo la strada obliqua, erano minuscoli rettangoli di luce, sullo sfondo plumbeo di un gruppo di palazzi appiccicati.

    Erano i primi vagiti del giorno, partorito dal ventre ciclico del tempo; iterato nel tempo. E quando il suo volto si sarà del tutto rischiarato, e i primordi non saranno altro che un placido ricordo, dalle sue fauci verranno fuori allora, una sequela discordante di rumori sovrapposti: amplificati nell’aria carica di vibrazioni estreme.

    I vetri si erano appannati e con l’indice ci ho scritto il mio cognome e nome; ho disegnato una casetta con le persiane aperte, un albero, una bambina, un fiore.

    Ho cancellato tutto, e si è formato un ovale irregolare di condensa, striato da una miriade di piccolissime gocce in successione: la più cospicua è scivolata, rigando l’opacità residua.

    Sono entrata in bagno e ho appoggiato tre scatole di compresse, sopra il ripiano di marmo del lavandino. Ho sfilato il blister dalla confezione gialla ancora intatta, e ho incominciato a premere le sue protuberanze di plastica che, ad ogni scrocchio, lasciavano cadere dentro il cavo della sinistra, un disco lenticolare ecrù.

    Ho fatto scorrere l’acqua e, in quell’istante, ho incrociato il mio sguardo riflesso nello specchio.

    E quando la bruma vischiosa e opaca e grigia, si era ormai dissolta, avevo davanti l’ampio panorama di tutta la mia vita e poi, ogni sua porzione di paesaggio in scorrimento.

    Come un fluitare di rami secchi, di fronde fresche e di radici, per un fiume che a un certo punto, si porta rapido nel suo letto e va: gorgogliando tra i sassi ad alta voce e si trascina oltre: rivelando i tratti del suo duplice profilo.

    Vedevo mia madre, quel poco che ricordavo di mio padre, nonna Josefina;

    Saulo e Ihoah: il loro sorriso incantato di quand’erano bambini. Come se stessi sfogliando l’album delle foto in bianco e nero ingiallite dal tempo; lo stesso tempo che, aveva lasciato intatta invece, l’espressione smussata dei loro volti: così perspicua in ognuna di quelle immagini, che a guardarle ogni volta, mi si inondavano gli occhi di rugiada.

    Guardavo me bambina, che correvo scalza nella terra infervorata e nuda, all’intorno dello stazzo di Sebastiano e Ilde, i padrini di battesimo di mia madre.

    Quanti ricordi, durante le lunghe estati trascorse in Gallura: la parte più fulgida della mia dorata e atavica e imperscrutabile

    Hyknusa.

    Giocherellavo tra l’erba selvatica, i biondi ciuffi degli steli secchi, i fiorellini radi, i cespuglietti folti, le querce, gli oleastri; le galline, i pulcinetti, il gallo canterino, le scrofe, i maialini, il verro; il cavallo, le mucche, i vitellini, i gatti, il cane, le caprette…

    E che dire poi, del suo effluvio inebriante sprigionato nell’aria: Ilde e Sebastiano quell’odore ce l’avevano impregnato nella pelle e nei capelli, negli abiti che indossavano, nel carattere che avevano.

    Rivedevo le loro facce sorridenti; era sempre così che me li ricordavo: con le rughe sulle guance e intorno agli occhi.

    Ingoiavo a fatica la saliva; mi tremolavano gli zigomi, le labbra, il mento. Ho scaraventato le pastiglie contro il muro e i :<< TIN TIN TIN TIN TIN TIN TIN TIN TIN TIN TIN TIN TIN TIN TIN TIN. ...>> Sulle piastrelle, sono sfumati nella sordità vibrante.

    Mi sono seduta nel piatto della doccia rannicchiando le gambe: le ho tenute strette fra le braccia, lasciando andare la fronte sulle ginocchia; e sono rimasta così, fino a quando

    l’acqua è diventata fredda.

    Mi sono vestita, infilata le scarpe; asciugata

    con il phon i capelli.

    Ho stretto il pomello del portoncino e lì, dalle falangi in poi, mi sono fatta subito di pietra: identica alla cariatide di una fontana dove l’acqua non sgorga più.

    Si è messo a squillare il telefono e persisteva; ho sollevato la cornetta, detto :<> per via dei :<> che hanno fermato la n, la t, la o.

    Ho fatto ruotare il pomello del portoncino che ha scattato di colpo.

    Mi sono seduta al volante della mia Golf . Stavo in coda a un’attempata Cinquecento, sulla scia rintronante del suo motore sgangherato; e svoltando a sinistra, ho parcheggiato tra una Panda rossa e una Tipo gialla; la mia Golf nera completava il miriapode d’acciaio: era lungo lungo, e ciascun metamero, aveva una forma e un colore diversi.

    Sono entrata in una via: una di quelle vecchie ben chiuse ai lati da una fila di palazzi a pochi piani, intercalata dai vicoletti posti di traverso.

    I balconi erano minuscoli, di ferro battuto antiquo; e le persiane di legno, avevano la vernice verde scrostata sulle stecche e nei telai; e i muri, sciupati e macchiati, emanavano l’odore dell’acqua che non s’asciuga mai.

    Camminando, ho incontrato qualche sporadico raggio di sole, che disgiungeva l’ombra a sprazzi, lungo i miei passi.

    Sono sbucata nel Corso, arrivando in un attimo, fin dove la strada s’incrociava. Mi sono fermata nel Largo, davanti all’ampia vetrina di una libreria; e, in un angolo quasi nascosto, i miei occhi hanno scorto l’ultimo romanzo di Carlo Andreani: un soffio ardente mi ha trapassato il dorso; ho letto :<> e c’era proprio lei raffigurata: un cerchio illuminante in un blu, spennellato di azzurro imbrunito e d’ antracite.

    C’erano diverse persone che aspettavano l’autobus; ne avevo alcuno di fianco, e molte di più alle mie spalle, che occupavano l’intera striscia dell’isola pedonale.

    Sono entrata nella libreria; il locale era invaso dalla fragranza di migliaia e migliaia di pagine: impregnate di parole che palpitavano mutole nell’attesa…

    C’era una signora alla cassa, e un uomo che teneva cinque libri tra le mani. Era distinto nell’aspetto; con il suo abito verde muschio, e i capelli e il pizzetto ben curati.

    Lo ha accompagnato alla porta la signora, e si sono salutati stringendosi la destra.

    Mi è venuta incontro: aveva i capelli nivei e la cute rosa rilucente :<

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