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Londra Amore Amicizia
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Londra Amore Amicizia

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Kika, Evelin e Barbara sono unite sin da bambine da una profonda amicizia che è nata tra le colline toscane.
Gli anni passano e le ragazze hanno superato da poco la trentina. Abitano distanti ma si sentono spesso al telefono e ogni anno immancabilmente si incontrano per stare assieme qualche giorno e raccontarsela. Quest’anno la meta è Londra.
Barbara vive lì, fa l’avvocato. Kika è un agente immobiliare di Venezia e poi c’è Evelin, una romana doc che è rimasta orfana di sua madre a diciannove anni e non ha parenti, fatta eccezione per il padre, un londinese, che però non ha mai conosciuto.
Il destino intreccerà per ciascuna una serie di coincidenze da capogiro.
LanguageItaliano
PublisherDonata Toso
Release dateJul 9, 2019
ISBN9788834154106
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    Londra Amore Amicizia - Donata Toso

    13

    CAPITOLO 1

    Era estremamente arduo e complicato riuscire a fare entrare tutto quanto nella minuscola valigia a mano, l’unica e striminzita che le era concessa, senza dover pagare il supplemento per il bagaglio in stiva.

    Evelin d’altra parte era stata perentoria con se stessa: Parto per un weekend a Londra e non per due mesi in Siberia. Due maglioni e un paio di jeans sono più che sufficienti!. Subito dopo aveva cominciato a accatastare una montagna di vestiti sopra il letto, dando poi inizio alla parte più dolorosa: decidere cosa lasciar fuori. La selezione era stata delicata, aveva richiesto tempo e una serie di scrupolose valutazioni.

    Aveva detto svariate volte, più agli altri per la verità che a se stessa, di essere un tipo sportivo, senza tanti fronzoli, che la cosa migliore erano un paio di jeans e un piumino, ma forse ora iniziava a pentirsene.

    Si beava di questo suo lato sobrio, sopratutto con le sue amiche di vecchia data, tanto che ogni volta che si sentivano al telefono, una parola in merito a ciò, per un verso o per l’altro, nei loro discorsi riusciva sempre a infilarla.

    La sera precedente ad esempio aveva telefonato Barbara da Londra, che le aveva vivamente consigliato di premunirsi con vari cambi, poiché la pioggia battente non esitava a smettere, e lei aveva risposto che un giaccone bastava e avanzava e che al limite l’avrebbe asciugato sopra un calorifero, e poi gli ombrelli erano stati importati dalla Cina da un pezzo.

    Ora, se non riusciva a far entrare tutto il vestiario nel suo bagaglio a mano e l’avessero vista carica di un valigione, fuori programma peraltro, le sue amiche si sarebbero fatte una sonora risata e l’avrebbero punzecchiata per tutta la vacanza.

    È vero che nessuno ci aveva mai creduto a questa sua celebrata essenzialità, che spesso poi si smascherava da sola senza aiuti esterni, come quando aveva parlato alle sue amiche della casa dei suoi sogni, non una capanna a cui aggiungere i famosi due cuori, ma un attico vicino al Pantheon da cui si dominasse tutta Roma, oppure una casa vittoriana al centro di Londra, tra Belgravia e Kensington. Per non parlare poi del suo abito da sposa ideale; da indossare con naturalezza, senza nessuna pretesa, aveva dichiarato quasi in tono solenne, aggiungendo solo alla fine con un filo di voce «… come quello di Kate Middleton».

    Le sue amiche, che la conoscevano dall’infanzia, la lasciavano parlare durante tutte le lunghe telefonate, immancabili appuntamenti settimanali, la contraddicevano di rado anche di fronte all’evidente contrasto tra la realtà e le sue fantasiose considerazioni e l’amavano per il suo buon cuore e soprattutto per il suo entusiasmo nell’affrontare la vita, nonostante le dolorose vicissitudini che l’avevano tristemente accompagnata.

    Evelin proveniva da una famiglia molto agiata della Roma bene.

    Suo nonno aveva un’azienda che fabbricava macchinari, destinati a loro volta alla produzione in serie di bulloni e viti di ogni forgia.

    L’azienda era in piedi dai tempi del bisnonno di Evelin, all’epoca era più piccola e contava pochi dipendenti, aveva una rete di clienti solo italiani e era meno organizzata, ma il giro d’affari era comunque florido.

    La madre di Evelin si era brillantemente laureata in ingegneria e aveva preso in mano le redini dell’azienda non appena suo padre, il nonno di Evelin, si era ritirato dall’attività per vecchiaia.

    Per alcuni anni era andato tutto a gonfie vele, poi con l’avvento di nuove tecniche di montaggio e assemblaggio e di conseguenza di nuovi impianti e macchinari, si era dapprima reso necessario licenziare gran parte dei dipendenti, che ormai facevano un lavoro inutile e superato, e successivamente ancor più indispensabile tentare un salto di qualità per restare a galla.

    Il rischio era enorme ma il passo era inevitabile.

    La madre di Evelin in quel periodo lavorava senza sosta a nuovi progetti e lo stress per la condizione dell’azienda in continua evoluzione, senza uno sbocco sicuro, senza un orizzonte definito, la stava consumando. Tentò il tutto per tutto, investendo fino all’ultimo soldo nell’acquisto di nuove attrezzature, tuttavia le cose non andarono nel modo sperato e l’operazione fallì.

    Il fallimento fu totale.

    L’azienda non si riprese e neanche sua madre. Si ammalò di un brutto male che se la portò via in quattro giorni. Si trattava di una di quelle forme fulminanti, dissero all’ospedale. Evelin rimase sola a diciannove anni.

    Non aveva parenti, né casa, né soldi se non quel gruzzolo inaspettato, un’ancora di salvezza, relativo ad un’assicurazione sulla vita che sua madre aveva previdentemente stipulato in suo favore quando era nata.

    Con una buona dose di coraggio e l’indole ardimentosa che la natura le aveva regalato, si stava facendo strada nella vita e si stava creando il suo futuro.

    Erano passati una decina d’anni da quel bruttissimo periodo e ora viveva in un grazioso monolocale nella prima periferia di Roma. Una delle ultime zone verdi del primo anello attorno alla capitale, così rigoglioso di alberi e prati incolti che le sembrava di stare in campagna. Non mancava nulla, nell’ultimo paio d’anni avevano aperto un supermarket, un bar, l’edicola e anche un baracchino per la grattachecca, e mezzo chilometro più in là, in direzione di Roma, c’era pure un panificio in stile montanaro, tutto in legno di faggio, che era un piacere entrarvi.

    Viveva bene in quella zona, era ben servita dai mezzi di trasporto comunali e lei comunque disponeva del suo motorino, compagno inseparabile molto più affidabile di un fidanzato, poiché non l’aveva mai delusa, mai abbandonata lasciandola a piedi.

    Dopo dieci minuti buoni alle prese col trolley, aveva incominciato a inveirgli contro incolpandolo di essere poco capiente, troppo piccolo, insomma non c’era verso, stentava a chiuderlo, eppure lo aveva riempito solo di due maglioni, uno merinos e uno cachemire a trecce grosse, un paio di jeans, un abitino da sera - magari ci fosse stata una festa a cui partecipare aveva pensato - , due sciarpe, una a trecce in tinta col maglione, l’altra quella a fiori, la sua preferita (non poteva certo lasciarla a casa), un paio di scarpine décolleté nere, biancheria semplice ma in pizzo, una camicia stile Oxford in tema col viaggio e una di flanella coi bottoncini a fiorellino, presa la settimana prima da Promod, il suo negozio preferito, e per finire una camicia da notte con ciabattine in tinta.

    Finalmente i suoi sforzi ebbero la meglio, un ultimo scatto e c’era riuscita, l’aveva chiusa. Ora non restava che partire.

    Dum de dum, dum de dum, dum de dum, dum de dum...

    «Il mio cellulare! Porca miseria, non l’avrò mica messo dentro la valigia? No, eh! Ah! Per fortuna, eccolo qua! Pronto?»

    «Evelin? Sono io, Chiara!»

    «Kika! Che bellezza sentirti! Sono quasi pronta, sto uscendo ora, ci vediamo stasera. Io scendo a Stansted. Barbara viene a prendermi e dopo verremo a prender te» le parole le uscirono dalla bocca a una velocità supersonica.

    Evelin era sempre carica di energia, un’esplosione di brio, una fonte inesauribile di forza e vitalità.

    «No, aspetta, aspetta! Volevo appunto dirti che non serve, prendo il trenino da Gatwick. Mi arrangio, non preoccupatevi! Preparate piuttosto una buona cenetta, di quelle da stare in compagnia, e che ci sia un buon vino rosso, mi raccomando!»

    «Ah! Ok! Faremo il possibile, ma sai che io me ne intendo poco, riferirò a Barbara!»

    «Evelin, non vedo l’ora di riabbracciarti! Mi sei tanto mancata!»

    «Anche tu! Sarà stupendo stare di nuovo tutte e tre assieme.»

    «Ti ricordi che spasso a Parigi?»

    «Dovremmo fare più spesso questi incontri, per me sono catartici…»

    «Ti voglio bene! A stasera.»

    «Un bacio. A dopo!»

    Chiara, per le sue amiche da sempre Kika, ripose lentamente il telefono nella sua piccola custodia piena di ciondoli e pupazzetti, se la prendeva mollemente, come il suo solito d’altra parte.

    Chi la conosceva bene sapeva che la sua frase preferita era take it easy, non c’era bisogno di affannarsi per nulla. Nemmeno ora poi che si sentiva particolarmente felice. Non vedeva l’ora di riabbracciare le sue amiche dell’infanzia, dell’adolescenza, di godere della loro compagnia.

    Comodamente adagiata sul letto, continuava a scartare quel vestito o quella giacca perché troppo larghi o stretti, stava scegliendo, e scegliere richiedeva naturalmente tempo, poi il vestiario da portarsi per quella breve vacanza era fondamentale, voleva sentirsi sempre comoda e a suo agio, voleva stare bene in tutti i sensi. Alla fine la cernita si era conclusa prediligendo un abbigliamento pratico, senza escludere un paio di opzioni eleganti, per non farsi mancare nulla.

    Finiti i preparativi, si godeva il suo caffé lungo, dentro una tazza calda fumante stretta nelle mani. Era un rito di relax che per nulla al mondo avrebbe saltato prima di partire. Il volo partiva tra quattro ore, ma lei voleva arrivare con calma al check-in e così si tirò su dalla poltrona e lentamente prese il bagaglio e lo caricò in spalla.

    Era arrivato il momento di telefonare a sua madre per salutarla, dirle di non preoccuparsi, di non telefonarle in quei giorni, che sarebbero stati solo suoi e delle sue amiche.

    Ma non fece in tempo a entrare in rubrica che il telefonino prese a vibrarle in mano accompagnato da un suono stridulo e ripetitivo.

    Driiiiiiiiiiiiiin, driiiiiiiiiin, driiiiiiiin, driiiiiiiiiiiin.

    Era lei, sua madre, con la suoneria inconfondibile che proprio Kika le aveva appioppato dopo l’ultima volta che sua madre le aveva urlato al telefonino: «Non mi rispondi mai, vuoi alzare quel volume della suoneria del telefono?! E potresti anche distinguermi dagli altri, così sai che sono io, e mi rispondi subito!»

    «Va bene mamma» aveva risposto Kika seguendo il consumato cliché.

    «No, fallo subito! Ora, Chiara!»

    «Va bene mamma, appena metto giù. Promesso…».

    Così quella particolare suoneria, più simile al suono del trapano di un dentista che al canto di un usignolo, era stata gemellata al numero di cellulare di sua madre.

    Voleva bene a sua madre ma il fatto che volesse essere onnipresente nella sua vita la infastidiva. Poi sua madre era ansiosa e tendeva a scaricarle addosso ogni cosa: Kika figlia mia o Kika il parafulmine, a seconda della situazione.

    Fece scivolare in tasca il cellulare, troppo caldo da tenere in mano. Sua madre l’aveva tenuta con l’orecchio incollato a quell’aggeggio per tutto il tragitto in bus fino all’aeroporto, ma in fondo ne era valsa la pena, Kika infatti, dopo svariati «Ok, va bene» era riuscita a strapparle l’impegno di lasciarla tranquilla e in pace, senza telefonate se non urgenti e di vitale importanza, e aveva sottolineato vitale.

    Sarà… aveva pensato Kika fra sé e sé.

    Barbara ferveva in preda ai preparativi per l’arrivo di sua cugina Kika e di Evelin. In realtà Kika era molto più di una semplice cugina, era una vera amica e come tale la considerava.

    Barbara, terminato il liceo, aveva deciso di iscriversi all’università di Oxford in Inghilterra, con il proposito di stabilirsi in futuro a Londra per fare l’avvocato. Era stata determinata in questo, per la verità solo in questo.

    La sua dedizione allo studio era invidiabile.

    Aveva superato con esito positivo il test d’accesso riservato agli stranieri e gli esami connessi, e a onor del vero non le era costata chissà quale grande fatica.

    Seguendo sin da piccola svariati corsi di apprendimento della lingua inglese si era portata negli anni a un livello eccellente.

    Per la verità parte del merito era dei suoi genitori, di suo padre in particolare, un veneziano verace con la erre arrotata e poca propensione per lo studio ma che, nonostante ciò, masticava l’inglese, un inglese imbastardito imparato a uno di quei corsi triennali gutta cavat lapidem.

    Egli in effetti soffriva per la sua mancanza di cultura e già questo era sintomatico di una presa di coscienza non comune.

    D’accordo con sua moglie aveva deciso di mandare la figlia ogni estate per un mese, appena terminato il periodo scolastico, presso un kinder-heim in un paese sperso e sconosciuto della Scozia, preoccupandosi solamente di una cosa: che nessuno parlasse italiano.

    Barbara d’altra parte sin da bambina era metodica e responsabile e la sua intelligenza aveva fatto il resto. L’amore per il diritto anglosassone l’aveva portata a laurearsi molto bene e in fretta, nonostante non fosse di madrelingua inglese.

    Dopo la laurea aveva completato il Legal Pratice Course, che era durato un anno, e successivamente si era iscritta in una delle Chambers più antiche di Londra.

    In amore però, non quello per lo studio, non quello per il diritto, ma quello vero, quello per antonomasia, era tutta un’altra faccenda.

    Da poco meno di un anno era sentimentalmente legata a un trentenne autoctono, un tipo alto e moro, dai capelli leggermente spettinati e con gli occhi di un intenso blu notte.

    L’aveva conosciuto un giorno per caso al parco andando verso la Royal Courts of Justice per un impegno di lavoro.

    Barbara di fretta attraversava il parco sui suoi tacchi spaziali e lui lì seduto su una panchina.

    Non passava inosservata col suo bel cappotto cachemire color cammello di taglio elegante e raffinato che mascherava egregiamente i suoi chili di troppo, le sue scarpine dal tacco alto, regalo di sua madre, che la slanciavano verso il cielo, e la sua borsa di un piccolo artigiano inglese che le stava a pennello.

    Era tornata da Parigi il giorno prima, praticamente si trovava di nuovo a Londra solo da qualche ora, dopo l’annuale incontro con Evelin e Kika. Camminava svelta assorta nei suoi pensieri, quando una voce l’aveva riportata alla realtà: «Hai forse una sigaretta?»

    Barbara senza neanche guardare in viso chi le stava parlando aveva risposto con la sua proverbiale cortesia: «Le devo cercare, giusto un attimo.» Velocemente si era sfilata i guanti per poter armeggiare con maggior disinvoltura dentro la sua borsa di dimensioni ridottissime. Nel fare quel gesto aveva alzato gli occhi e lì a momenti sveniva da quanto era bello.

    Dopo tale inaspettata folgorazione aveva aperto la borsa con un gesto impacciato e le era caduto metà del suo contenuto a terra.

    «Aspetta che ti aiuto» si era offerto lui.

    «Non c’è bisogno» aveva ribattuto lei.

    «Mi pare di sì!» aveva replicato lui con fermezza porgendole poi una cosa alla volta, «tieni qui la penna…, l’agenda…, le caramelle…, e anche i biglietti da visita…»

    «Grazie» la voce di Barbara era rotta dall’emozione, «eccoti la sigaretta» aveva farfugliato poi, già in completa condizione di sudditanza.

    «Grazie» aveva risposto lui con una voce sensuale e suadente. Era uno che ci sapeva fare ed era palesemente consapevole del suo fascino da mascalzone.

    Barbara era rimasta così colpita da quegli occhi esplicitamente provocanti, da quella bellezza da bandito, che il giorno seguente aveva rifatto lo stesso percorso nel parco alla stessa ora, nella speranza di rincontrarlo.

    Non aveva impegni e rallentava la velocità a ogni passo che la avvicinava all’uscita del parco.

    Alla fine si era ritrovata a girare con calma serafica tra gli scoiattoli baldanzosi, di tanto in tanto si fermava a guardarli, porgendogli dei pezzetti di biscotto mentre loro la seguivano fiduciosi di rimediare qualche cosa in più.

    Dopo svariati giri a vuoto, le sue aspettative di vederlo erano sfumate.

    Vuol dire che non doveva essere… le aveva bisbigliato una flebile vocina interiore e lei aveva ascoltato quella magra consolazione come fosse un oracolo.

    Si era avviata a passo spedito in direzione della Middle Temple Hall, e lì avrebbe sbrigato quel poco di arretrato che aveva, sistemato un paio di fascicoli, e si sarebbe avvantaggiata con le pratiche da espletare per i giorni successivi.

    Dopo qualche istante, la visione in lontananza. Si distingueva a malapena la sua figura alta e asciutta, ma era lui, ne era assolutamente certa, il suo passo un po’ molleggiato, come quello di uno che è in vacanza e se la prende comoda.

    Aveva l’aria di essere molto rilassato, sicuramente era il tipo d’uomo sicuro di sé.

    Nell’incrociarla le fece un sorriso e solo dopo aver fatto un paio di passi si fermò e girandosi le disse: «Ciao! come stai?»

    Era così sicuro del fatto suo da apparire quasi strafottente.

    «Ciao!» balbettò Barbara, schiarendosi la voce. Sentiva le ginocchia molli e il cuore in gola.

    Porca l’oca! Cosa ho fatto a mettermi il tacco dodici!? penso tra sé e sé. Ci manca solo la caduta plateale dai trampoli!

    Notò subito, con un pizzico di disappunto, che lui invece non era per nulla imbarazzato, anzi era evidente che si sentiva completamente a suo agio.

    «Vai verso il parco?» le domandò senza guardarla, benché fosse chiaro che Barbara si stesse dirigendo altrove. In quel preciso istante lei si sentì avvampare da un’ondata di calore a causa di quelle quattro paroline, di quella domanda che faceva trasparire l’interesse verso di lei.

    «No, sto andando… sto andando di là» disse tutta rossa in volto, indicando approssimativamente con la mano una direzione comprendente almeno novanta gradi.

    «Ti accompagno, se ti va.»

    Era già cotta a puntino.

    Le settimane seguenti Barbara e il suo nuovo boyfriend Albert si vedevano tutti i giorni.

    Lui la andava a prendere a casa e l’accompagnava al lavoro e poi la sera l’andava a riprendere come il papà va a riprendere una scolaretta.

    Spesso si recavano da Starbucks, in centro a Covent Garden, per rinfrancarsi dal freddo inverno londinese con un caffè lungo e un muffin.

    Barbara era avviluppata in un vortice, era in balia di lui.

    Chi li avesse visti, così a colpo d’occhio, avrebbe sicuramente detto che non ci azzeccavano molto l’uno con l’altra. Lei spiccava per la sua eleganza nel vestire e per la dolcezza dei modi, lui era al limite del trasandato, quello stile che molti ricercano, ma che a lui veniva spontaneo.

    Barbara si sentiva sempre in una condizione di inferiorità quando si relazionava con gli uomini a causa della sua insicurezza cronica, dovuta a tanti fallimenti in amore e forse a una componente genetica, contro la quale non poteva far nulla.

    Poi si vedeva goffa, più di quanto

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