La principessa e il dragone
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Book preview
La principessa e il dragone - Dario D'Amico
633/1941.
PROLOGO
C’era una volta, in un regno lontano, una bellissima principessa di nome Reginalda prigioniera di Maramaldo un mostruoso dragone dalle fiammeggianti fauci. Ella aspettava, da tempo immemore, che un bel principe azzurro venisse a salvarla. Ne aveva già contati tredici, tutti belli, tutti azzurri ma tutti, ahimè, finiti arrostiti. La principessa Reginalda si era oramai rassegnata al suo triste destino e, ogni giorno, si recava sulle loro tombe a deporre dei fiori, uno per ogni principe deceduto… Aspetta! Forse questa fiaba non inizia così. Anzi, non è nemmeno una fiaba e nemmeno ci sono principesse e dragoni, perlomeno non come ce li immaginiamo.
Questa, più che una fiaba è una storia, una triste storia che ebbe il suo inizio all’interno di un parco giochi frequentato da bambini. Tanti, troppi bambini. Allegri e sudati, rumorosi e urlanti. Una gioia per gli occhi dei genitori, per altri forse no. Un vagabondo incappottato stava attendendo che il parco tornasse sotto il silenzio di un cielo stellato. La panchina sulla quale stava seduto era diventata la sua umile dimora da diverse notti. Per ingannare l’attesa tirò fuori dal suo borsone un panino imbottito e gli diede un morso così feroce che faceva capire quanto vuoto ci fosse nel suo stomaco. La sua presenza non passò inosservata agli occhi dei genitori che ne erano infastiditi ma finché quel barbone
, come lo chiamavano loro, stava lontano dai bimbi la situazione veniva considerata accettabile.
Ma quella sera avvenne il contrario. Fu una bimba, con in mano la bambola di peluche di una principessa, ad avvicinarsi a lui.
«Ciao, che stai facendo?» gli chiese.
«Sto mangiando» le rispose.
La bimba lo scrutò silenziosamente e poi gli chiese ancora: «sei qui con i tuoi figli?»
«Oh, no. Non ho figli» le rispose sorridendo.
«I miei dicono che questa panchina è casa tua.»
«Una casa ce l’ho…»
«E perché dormi qui allora? Non ti piace casa tua?»
I bimbi, in genere, sono molto curiosi ma a volte alcune domande possono essere inopportune e il barbone non sapeva cosa risponderle. In suo soccorso arrivò la voce del padre. «Amore, non disturbare le altre persone» le disse.
La bimba lo salutò muovendo la mano di peluche della sua principessa e tornò indietro dagli altri bambini. Il barbone la seguì con lo sguardo; quella bimba gli aveva fatto una buona impressione e, dentro di lui, sospirava per non aver avuto la possibilità di crescere un figlio. A un certo punto il suo viso cambiò espressione dando segni di nervosismo. Si alzò dalla panchina mollando il panino imbottito e, velocizzando il passo, si incamminò in direzione del gruppo di bimbi. I genitori si accorsero del suo movimento e gli si pararono davanti per fermarlo.
E fu un errore.
«Via! Scappate!» urlò il vagabondo spintonando i genitori. Dopo averli oltrepassati si catapultò verso il gruppo dei bimbi finendo per scontrarsi contro un uomo dagli abiti neri, uno zaino in mano e un vistoso tatuaggio di dragone su un braccio. I due rotolarono avvinghiati per terra mentre i bimbi fuggivano spaventati, tutti tranne una: la bimba con la principessa di peluche che rimase lì, immobile, come pietrificata dalla paura. Una granata rotolò verso la sua direzione. Il barbone, senza indugiare, si lanciò verso di lei facendole da scudo.
La granata esplose. La sabbia del parco si sollevò da terra e, per lunghi secondi, non si vide più niente.
Capitolo 1 - La città fantasma
«Maledetta sabbia!» L’ufficiale Maggiore Montanari iniziò a tossire nonostante si stesse coprendo la bocca e il naso con un foulard a pois. La sua mano faceva il gesto di scacciare la sabbia ma il vento gliela ricacciava puntualmente in faccia, dritta su quegli occhialoni scuri che proteggevano i suoi occhi.
I suoi due sottoposti, i soldati Brambilla e Formicola, non gli erano di grande aiuto. Anzi, fino ad adesso, non lo erano stati per niente. Il primo aveva causato accidentalmente la perdita della scorta d’acqua costringendoli ad avanzare attraverso il deserto mezzi assetati mentre il secondo si era dimenticato di far controllare dal meccanico il fuoristrada così come gli era stato ordinato. A causa di questo l’auto si era fermata, lasciandoli appiedati, alla periferia di quella che era stata contrassegnata come città fantasma dalla mappa.
La città fantasma era una piccola e desolata città, costruita in mezzo al deserto, lontana da ogni centro abitato e formata da tante case in legno di cui molte oramai fatiscenti. Essa era divisa in due da una lunga lingua di sabbia che conduceva a una grande oasi verde dov’era presente una sorgente dalle fresche acque. Era la classica città fantasma dove nessun umano metteva piede da tempo immemore.
Fino a oggi.
I tre soldati, caricatosi sulle spalle il materiale necessario, si avviarono, controvento, lungo il percorso sabbioso che li avrebbe condotti alla sorgente. Le ante delle finestre delle case sbattevano ripetutamente accompagnate, come in un’orchestra sinfonica, dai cigolii delle porte spalancate mentre i continui e spettrali sibili del vento assomigliavano ai suoni dell’apocalisse.
«Se continua così, impazzisco» esclamò il soldato Formicola.
«Cosa?» chiese l’ufficiale.
«Non lo sente? Sembrano urla di dannati all’inferno. Mi lasciano un’angoscia addosso che non le dico.»
L’ufficiale, continuando a coprirsi la bocca con il foulard, gli sorrise con gli occhi e gli rispose: «Tranquillo. È solo il vento.»
«Siamo sicuri che sia il vento?» chiese perplesso il soldato Brambilla «il vento dovrebbe fare "uuuoooh" mentre queste sembrano delle risate.»
«Sì! Le hai sentite pure tu le risate?» chiese Formicola.
«"Ahahah! Eheheh!" Ho sentito una cosa del genere, solo più mefistofelica» gli rispose Brambilla cercandone di imitare i versi.
«Esatto!» confermò Formicola «io la definirei una risata spettrale.»
«Mefistofelica è più adatto» ribatté Brambilla
«Siamo in un paese fantasma, dunque spettrale suona meglio.»
«Mefistofelica!»
«Spettrale!»
I due continuarono a battibeccarsi mentre l’ufficiale, oramai abituato a quello che era diventata una loro consuetudine, rimaneva in silenzio per concentrarsi sulla strada che aveva davanti a sé. La folta sabbia alzata dal vento gli stava impedendo di avvisare quella realtà chiamata oasi.
All’improvviso un forte frastuono proveniente dall’interno di quello che sembrava essere un locale di ristoro allarmò i due sottoposti che si voltarono intimoriti.
«Questa l’ha sentita?» disse Formicola rivolgendosi al suo superiore.
«Sì, l’ho sentito anch’io ma, se ben vedete, le finestre sono tutte aperte e il vento è impetuoso… e noi siamo assetati e stanchi.»
«Cosa intende dire?»
«Dico che se non è il vento allora è solamente un’allucinazione uditiva dovuta alla forte disidratazione che stiamo subendo.»
«Mi dispiace, capo» disse un affranto Brambilla «è colpa mia se siamo rimasti senz’acqua.»
«No, e io che dovrei dire?» aggiunse Formicola «ho dimenticato di far controllare l’auto dal meccanico… a quest’ora eravamo già all’oasi.»
«L’acqua è essenziale per vivere. È solo colpa mia» ribatté Brambilla.
«Rimanere appiedati in mezzo al deserto è da ergastolo. Colpa soprattutto mia» replicò Formicola.
«No, è colpa mia!»
«No, è solo mia!»
«Mia!»
«Mia!»
I due continuarono a battibeccarsi ma non stavano litigando per davvero. L’avevano chiamato "il gioco del bisticcio" e consisteva nel trovare un pretesto per litigare; il vincitore sarebbe stato colui che riusciva ad avere l’ultima parola ma non sempre il gioco veniva portato a termine e così avvenne anche stavolta.
«Alt! Silenzio!» urlò l’ufficiale.
I due si zittirono di colpo. Si aspettavano un rimprovero per i loro continui battibecchi ma l’ufficiale, dopo essersi tolto il fazzoletto a pois, mostrò loro uno sguardo gongolante e con la mano indicò una direzione.
Gli occhi di Formicola e Brambilla scrutarono attentamente l’orizzonte davanti a loro. La sabbia, alzata dal vento, rendeva difficile la visualizzazione. Alla fine i loro occhi, prima rigidi e fissi, iniziarono a smuoversi e a brillare. Le palme poste nelle vicinanze dell’oasi erano oramai ben visibili e distanti solamente meno di mezzo miglio. Un urlo di gioia uscì dalle loro bocche arrossate dal caldo. A quella vista le loro energie si centuplicarono al punto da riuscire a correre a perdifiato le ultime centinaia di metri che li separavano dalla sorgente d’acqua.
«Ehi! Ehi! Aspettatemi! Io ho lo zaino più pesante!» urlò Montanari.
Formicola e Brambilla non lo sentirono; più giovani e più snelli e con meno peso sulle spalle avevano oramai distanziato l’ufficiale di almeno cento metri. Montanari imprecò ma non era incavolato con loro poiché li considerava come i suoi ragazzi
, da proteggere e condurli sani e salvi fino a casa.
Capitolo 2 - L’oasi
Le fresche acque della sorgente dell’oasi sgorgavano copiosamente dagli anfratti di una roccia formando un laghetto piccolo e non troppo profondo.
Formicola e Brambilla si spogliarono fino a rimanere in mutande. Dopo essersi tuffati a bomba
si diressero verso il punto in cui sgorgava l’acqua per poterla bere tenendo la testa all’ingiù e la