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Cinéstasi
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Cinéstasi

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Cinestasi: Dopo mesi di contatti virtuali su un forum di cinema, le vite di quattro trentenni di successo, due uomini e due donne, al loro primo incontro reale mutano radicalmente; nasce un'accattivante amicizia e un'originale passione: rigirare scene di celebri film che hanno fatto la storia del cinema. L'amore per i set, però, presto li cambierà, coinvolgendoli in modo maniacale, ma sarà una tragica e fortuita morte a far precipitare le cose; dopo i primi mesi di rimorsi seguiti all'incidente, i protagonisti si accorgono che lo sgomento iniziale viene gradualmente sostituito da un sentimento di compiacimento e onnipotenza. I registi, allora, torneranno ad agire, rinnegando ogni scrupolo etico e dando inizio a un gioco perverso che li porterà fino alle porte dell'abisso. Mentre i delitti - scollegati tra di loro - si succederanno senza sosta, gli insospettabili continueranno a condurre vite agiate, senza che alcun sospetto ricada su di loro. Ma il finale sarà un colpo di scena continuo: scoperti e braccati grazie alle intuizioni di un geniale ma controverso commissario, i ragazzi non rinunceranno alla loro tragica visione artistica; decideranno di resistere, scegliendo il loro degno e spettacolare finale. Fiction e realtà si intrecceranno nella storia in modo perverso, così come bene e male, facce opposte della stessa medaglia.
LanguageItaliano
Release dateMay 31, 2019
ISBN9788855083508
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    Cinéstasi - Guglielmo Averna

    S.p.A.

    Cinéstasi

    Deborah lasciò di proposito la porta socchiusa; Noodles la seguì a distanza, sgambettando rapido a una ventina di passi da lei. Il pomeriggio era freddo, e il fanciullo dal corpo gracile ma dallo sguardo feroce era vestito troppo leggero per smettere di tremare.

    La vide entrare. Il rifugio di lei era un grande magazzino, a metà strada tra una cantina fumosa e una zona di stoccaggio di frutta e verdura. È lì che Deborah danzava di nascosto; è lì che giocava con i suoi sogni, al di fuori delle ore di lezione. Sarebbe diventata una donna di spettacolo – immaginava: avrebbe ballato nei teatri di tutto il mondo. L’adolescente acerba che teneva ancora in ostaggio il suo corpo, presto avrebbe lasciato il posto alle grazie di una donna elegante. Gli occhi, però, sarebbero rimasti gli stessi: verdi, di quel verde luminoso che tutto calamita e contagia.

    Noodles non osò entrare subito; preferì spiarla ancora un po’. Quasi di sottecchi, alzandosi in punta di piedi, vide la ragazza avviare il grammofono. Sentì le prime note musicali. Ammirò, un po’ divertito e un po’ intrigato, le prime sontuose piroette. Deborah se ne accorse, regalandogli un sorriso che era come un invito. Noodles, incoraggiato, decise di scostare l’uscio. Era buffo con quel cappello in testa; un piccolo grande uomo in calzoncini corti.

    La ragazza smise di ballare; anche il grammofono si fece silenzioso. Ancora vagamente trafelata, impiegò pochi secondi per ricomporsi, assumendo in un attimo l’elegante postura che da sempre l’aveva contraddistinta. A Deborah riusciva tutto terribilmente naturale; anche il sedersi tra limoni e arance, facendosi largo tra le casse di frutta del padre, apparve agli occhi di Noodles come un gesto raffinato.

    Deborah lo osservò malinconica, poi lo invitò a sedersi al suo fianco. Il ragazzo, solitamente sicuro di sé, questa volta apparve intimidito, ma raccolse l’invito e le fu accanto. Tra loro due, adesso, non c’erano che una manciata di centimetri. Vestita con un abito scuro che le scivolava fin quasi le caviglie e scarpette basse da danzatrice, sfogliando un vecchio manoscritto, la giovane donna cominciò a parafrasare il Cantico dei Cantici, senza smettere di osservare l’adolescente che le respirava vicino:

    – Il mio diletto è candido e rosato; le sue guance sono oro sopraffino. Il suo collo è uno stelo soave, anche se non se lo lava dalla Pasqua passata.

    Il piccolo uomo scosse la testa, ma le pupille verde smeraldo di Deborah lo inibirono all’istante.

    – I suoi occhi sono occhi di colomba; il suo corpo risplendente avorio e le sue gambe sono due colonne di marmo in calzoni così luridi che stanno in piedi da soli.

    Noodles rimase impietrito dalla voce e dallo sguardo magnetico di lei.

    – Egli è tutta una delizia, ma sarà sempre un teppista da due soldi: perciò non sarà mai il mio diletto. Che peccato.

    I due adolescenti si fiutarono ancora qualche secondo: Deborah gelida, nella sua bellezza quasi regale; lui un cucciolo ferito, sull’orlo di un catartico pianto. Poi il bacio. Le due bocche nervose si saldarono, inumidite da lacrime di incerta paternità. Un bacio bellissimo, tenero. Ma un bacio incompiuto; l’eco di un trambusto che proveniva dall’esterno, infatti, riportò i due giovani alla realtà. Il primo a issare le antenne fu Noodles, come se avesse già presagito quello che sarebbe accaduto di lì a poco. Poi una voce, più voci: lo spioncino della porta del magazzino si issò e abbassò più volte.

    – Noodles, corri, vieni! Abbiamo bisogno di te.

    Era Max, l’amico Max.

    Guardò il viso cristallino di Deborah; cercò in lei un cenno, un cenno vestito da consenso.

    – Vai Noodles – fece lei – vai: c’è mammina che chiama. Corri.

    Il ragazzo rimase interdetto, con espressione attonita e confusa. Ancora quelle voci, ancora quei rumori di disordini che da sempre avevano funzionato da esca. Si alzò, continuando a fissare gli occhi della sua amata. Avrebbe voluto fermarsi; avrebbe dovuto fermarsi. Ma era più forte di lui.

    – Aspetta Deborah, vedo che vuole. Torno subito, d’accordo?

    Lei non disse una parola. Quando Noodles le volse le spalle, chiudendo la porta d’ingresso, il suo viso assunse una triste smorfia d’addio.

    Capitolo I

    1–

    – Non ho parole: tu... tu sei nata per fare l’attrice. Ma guardate che classe; guardate come dà l’idea di trattenere le lacrime: Irene, sei davvero un incanto!

    Non era la prima volta che arrossiva; forse i complimenti erano l’unica cosa che la imbarazzavano ancora.

    – Grazie; effettivamente devo dire che questa mi è riuscita proprio bene. Ho sempre adorato il personaggio di Deborah e credo di aver visto quel film almeno quattro volte.

    – Quattro volte? s’intromise Teo. – Solamente quattro? Io, prima dell’epoca delle videocassette, dei DVD e di YouTube, ogni volta che in televisione davano il capolavoro di Sergio Leone, non mettevo piede fuori casa. Ho passato l’adolescenza a nutrirmi delle sue battute. Ricordo un sabato sera, una festa di quinta ginnasio che si annunciava trasgressiva e allettante: un ricchissimo ragazzo della Genova bene aveva affittato gli spazi di un castello diroccato sopra le alture di Pegli. Non si parlava d’altro da un paio di settimane: a scuola erano tutti eccitati all’idea di partecipare al festone dell’anno...

    Teo fece una pausa, frugandosi tra le tasche per vedere se avesse il pacchetto di sigarette ancora con sé.

    – ...ma – proseguì entusiasta – nonostante fossi tra gli eletti, decisi di perdermi l’adunata di corpi in preda a tempeste ormonali: su Rai2, quella sera, davano C’era una volta in America, e in versione integrale. Tre ore e mezza di cinema allo stato puro! Meglio che imboscarsi con la più bella del liceo.

    Giulio rise a quella considerazione; rise anche Irene. Barbara, invece, non aveva sentito; si era attaccata al cellulare da un paio di minuti e la chiacchierata non sembrava tra le più amichevoli.

    – Anche io – intervenne Giulio – posso vantare un’esperienza simile. Diedi buca a una ragazza con cui avevo un primo appuntamento, e per lo stesso movente: Sergio Leone con la sua banda di malavitosi che attraversano quasi cinquant’anni di storia americana; quella volta, credo fosse su Retequattro.

    Barbara, nel frattempo, aveva smesso di litigare col telefono e, accovacciandosi sul morbido divano del salotto di Giulio, tornò a intromettersi: – Bè, mi sono persa qualcosa? Scusatemi ma...

    – Era lei? chiese Teo, mentre rimetteva al computer la chiavetta contenente il file del loro film.

    – Sì, era lei, ma lasciamo perdere; comunque, tornando a noi, Irene fantastica, come al solito, ma anche Giulio non ha sfigurato: secondo me ha reso benissimo l’espressione da cagnolino intimidito di Noodles, mentre il teppistello ascoltava rapito le parole di Deborah. Sì Giulio, questa volta hai dato il meglio di te; il mese scorso, invece, non mi avevi esaltata mentre recitavi il Tancredi de Il Gattopardo

    – Sì, lo so, lo so, ma non mi è mai piaciuto quel personaggio, benché Il Gattopardo sia un capolavoro assoluto...

    Giulio cincischiò qualche secondo; Irene, invece, aveva aperto una bottiglia di vino: era la terza in due ore. Nonostante gli effluvi di Bacco, i ragazzi erano molto lucidi; in verità, lo erano sempre quando si trattava di commentare le loro imprese.

    Emulare e ridare vita alle scene di film che avevano fatto la storia del cinema: da quasi un anno, da quando si erano conosciuti in internet su un forum di appassionati della settima arte, le loro esistenze avevano cambiato volto. Quattro vite diverse da quattro città diverse, unite dalla passione smodata per la fabbrica dei sogni; un’intuizione che a partire dai fratelli Lumiere della Lione di fine Ottocento, diede origine al più grande laboratorio creativo che la storia dell’umanità avesse mai partorito: con la nascita del cinema, infatti, il mondo non sarebbe stato più lo stesso.

    – È vero, avevo recitato male – riprese Giulio, tentando di giustificare lo scarso approccio professionale della volta precedente –, ma ve lo avevo detto che avrei preferito un’altra scelta.

    – Sì vabbè – cinguettò Irene –, però i film non li puoi scegliere sempre tu.

    – Sarà... ma non mi pare che ti siano spiaciute le mie scelte; guarda adesso, siamo ancora ad applaudirti per come hai impersonato Deborah.

    – Ehi ehi – sbottò Teo, apparentemente stizzito –, ma nessuno mi fa i complimenti per la scenografia? D’accordo, questa volta non appaio ma... chi ha trovato il grammofono Anni ‘30? chi ha scovato il postaccio dell’area dismessa di fabbrica dove abbiamo girato? E poi… di Morricone nessuno ne parla? L’effetto, secondo me, è stato fantastico. Mentre Irene, in veste di Deborah, parla al Noodles–Giulio, ammirate con quale sincronia si diffonde la musica: che crescendo di sensazioni! Fermi fermi... sentite qua... Barbara... rimetti indietro il file... ho la pelle d’oca.

    – Sapete cosa mi fa impazzire di più di C’era una volta in America? intervenne Giulio, mentre apriva una finestra che incorniciava il cielo su Torino –; a parte, ovviamente, le grandissime interpretazioni di Robert De Niro e James Woods; ciò che rimane davvero di quel film è quella sorta di strisciante malinconia per i sogni e le occasioni perdute.

    – Concordo – sentenziò Barbara –; è un sapore che ti rimane dall’inizio alla fine e ... e non ha alcuna importanza che i protagonisti siano elementi ai margini della legalità e con un’etica discutibile: in quel fumoso intreccio di passioni, amori e amicizie, c’è davvero molta poesia. Aleggia uno spirito romantico e distruttivo insieme.

    – Anche lo stupro del Noodles adulto – aggiunse Irene – ha un qualcosa di sontuosamente romantico.

    Nella stanza calò un improvviso silenzio; una pennellata di stupore dipinse i volti dei ragazzi. L’eco degli ultimi tram notturni, intanto, duettava con le note del maestro Morricone, mentre l’appiccicosa afa dell’estate padana imperlava di sudore le fronti dei quattro cinefili.

    – In che senso romantico? – chiese, costernata, Barbara. Come può uno stupro essere romantico?

    – È che... mi rendo conto che possa suonare strano ma... in quella scena di violenza carnale c’è come uno struggente gesto di resa: un senso di terribile frustrazione per il fallimento di più vite, per il destino nefasto che per un soffio, sempre per un soffio, ha impedito che le cose andassero per il verso giusto. È un’espiazione al contrario: Noodles abusa di Deborah, per giunta nello squallido abitacolo di un’auto, perché ha finalmente capito che non c’è modo di redimersi dei propri peccati e di recuperare gli errori del passato: vuole, in modo crudele e nichilista, bruciarsi definitivamente, non avere più rimpianti. È la più grande ammissione della propria miseria che il cinema ci abbia mai regalato.

    Irene si meritò un altro applauso; era la seconda standing ovation della serata.

    – Ecco perché – commentò Teo – avevi proposto di girare quella scena! Ci credevi davvero allora.

    – Certo che ci credevo! Ma tu e Giulio sembrate tanto aperti e coraggiosi a parole ma poi, per una scena di sesso in macchina, fate tanto gli schizzinosi.

    I ragazzi scoppiarono a ridere.

    – E poi – per un attimo Irene tornò bambina, atteggiandosi da smorfiosa – il materiale tecnico è tutto mio: videocamera Samsung Solid State Drive, cinepresa Canon XL2, macchina fotografica digitale, treppiede, decoder, scanner, registratori... toccherebbe sempre a me decidere le scene e gli attori! Se da oltre un anno andiamo a fare i cineasti in giro per Italia, è grazie alle mie attrezzature da oltre cinquantamila euro! Nessuno di voi, prima di conoscermi, aveva girato un cortometraggio.

    – A parte...

    – Sì sì Giulio – lo fermò immediatamente –, a parte quella volta che, coi tuoi amici universitari, avevi girato quel documentario sulla musica anni ‘70. Ce l’hai raccontato mille volte! Stavi per dire quello, no? –

    L’uomo annuì sorridendo, voltando le spalle al gruppetto.

    Rividero la loro clip; la rividero un’altra volta; e un’altra volta ancora.

    Avevano occhi che brillavano. Potere del cinema. Una passione che si era trasformata in vita; una passione totale. Non più solo film in sale buie; non più solo cineforum, retrospettive di grandi registi e festival in giro per il mondo. Ora i registi erano diventati loro: per gioco, per sfida, ma erano diventati loro. Era stato un continuo crescendo di perfezione: dal primo buffo cortometraggio, in cui si erano cimentati a far rivivere un’improbabile sequenza de Le Iene di Quentin Tarantino, all’ultima chicca del film epopea di Sergio Leone. Ed era nata un’amicizia: tra immagini oniriche, lavoro di montaggio e cineprese a mano, era nata una bizzarra ed elettrica amicizia destinata a lasciare il segno.

    2–

    L’alba su Genova tardava ogni giorno di più. L’autunno bussava alle porte dell’Appenino ligure, dove violenti scrosci di pioggia avevano già fatto gonfiare i rigagnoli che poi scivolavano in mare. Teo adorava le mattinate livide e adorava alzarsi molto presto.

    Da Piazzetta Sant’Elena si poteva sentire l’odore del pesce; ora Teo viveva là, a due passi dal Porto Antico e con alle spalle il dedalo di vicoli della città superba. Si era trasferito da poco più di sei mesi, da quando la separazione con la moglie era diventata ufficiale. La sua nuova alcova era un trilocale semi–mansardato dal color ruggine e dall’abbaino che dava sul mercato all’aperto; nulla a che vedere con la casa che aveva condiviso con la moglie a Voltri, una villetta ereditata dal padre di lei il cui giardino era grande quanto due campi da tennis. Teo, nella nuova dimora, a dire il vero si trovava bene; ma Lorenzo, il pargolo venuto al mondo dal suo matrimonio sbagliato, gli mancava, e una brezza di malinconia tornava sempre a soffiare quando pensava al figlio. Ma i giudici, come da prassi consolidata, avevano affidato il bimbo alla madre, perché i suoi due anni erano troppo pochi per poterle stare lontano.

    L’uomo mise su il tè. Il lunedì si annunciava impegnativo: doveva incontrare un paio di amici architetti perché c’era in ballo un progetto importante, di quelli in grado di mutare una carriera. In embrione, l’idea di disegnare un grande asilo polifunzionale, una struttura all’avanguardia da far edificare su una zona in passato occupata da un indigeribile complesso di alberghi; insieme alla sua squadra, desiderava partecipare alla gara d’appalto e stava per presentare il suo progetto al Comune di Genova, in attesa di un primo giudizio preliminare. Teo era giovane: non aveva ancora compiuto 33 anni e ottenere il nulla osta per un lavoro così impegnativo avrebbe regalato al suo curriculum un innegabile prestigio.

    Belin... Paolo, dove sei? Io e Robi siamo già al Bar LoScuro da mezz’ora. È il terzo caffè che ci prendiamo. Guarda che poi diventiamo nervosi...

    – Sì... scusa Teo, sto cercando parcheggio, ma a Genova è sempre un delirio. Pochi minuti e sarò là.

    Il titolare del bar era amico di Teo da oltre un ventennio. Entrambi conoscevano vita, morte e miracoli delle loro irregolari esistenze. Avevano anche condiviso un paio di viaggi, e sempre in lontani posti che sapevano di salsedine. Teo, in realtà, nutriva un sospetto su di lui: che sapesse già da tempo, prima che tutto uscisse alla luce del sole, del tradimento di sua moglie. Era solo una sensazione ma, nonostante l’amico continuasse a negare, temeva che per pudore e per la pace coniugale non gli avesse riferito nulla dei suoi potenziali sospetti. Ne avevano discusso parecchie volte, ma la versione non era mai cambiata.

    – Oh... eccoti Paolo. Ma non era meglio venire in bus!? Lo sai che trovare un posto da queste parti è peggio che andare all’inferno.

    – Lo so, ma la colpa è anche tua. Sempre con ‘sto Bar LoScuro, nel cuore dei carrugi. Ma trovarsi in qualche bella piazza accessibile, mai eh?

    – Dai, sai che questo locale porta fortuna! Alla vigilia di ogni evento, passiamo sempre di qui. E ci va quasi sempre bene, o sbaglio? Hai visto come è andata per il derby, no? Tre a zero e doriani muti! Mai visto giocare il Genoa così bene...

    – Ma sì sì... che c’entra però il calcio ora...

    – C’entra c’entra... c’entra tutto. E prima della tesi di tua sorella, non siamo passati di qua? E infatti: 110 e lode. O quando aspettavamo il responso della diagnosi su mia madre? Ricordi come ero teso? Poi tutto è filato liscio!

    Il barista sorrise al terzetto: Teo, negli ultimi anni, gli aveva portato tanti di quei clienti che avrebbe potuto bere gratis finché campava. Il locale, nel giro di un quarto d’ora, si era andato riempiendo e lo spazio si era fatto troppo piccolo per le carte dei tre architetti.

    – Ragazzi, usciamo di qui. Tanto questa parte ce la siamo già studiata e ripetuta più volte. Dobbiamo dimostrare di avere le idee e saperle esprimere: dobbiamo dimostrare di essere credibili –

    I tre colleghi si misero in macchina. L’auto era quella di Teo, una Yaris Toyota di piccole dimensioni: mezzo veloce e agile, adatto per le contorsioni genovesi.

    – Oggi pranzi con tua moglie, vero?

    Teo l’aveva quasi rimosso. Fece una smorfia che sapeva di disgusto.

    – Sì, in effetti sì. Dopo l’incontro al Comune, mi devo vedere con lei in Piazza De Ferrari: dobbiamo discutere dei cavilli della separazione.

    – E il piccolo ci sarà? chiese il navigatore.

    – Magari venisse anche Lorenzo, ma sta con sua nonna oggi. Quindi non sarà un pranzo granché piacevole...

    Il Palazzo del Comune, nel frattempo, era già in vista, ma Teo non sembrava stesse cercando parcheggio. Si era fatto improvvisamente assente.

    – Uè architetto, ti saranno sfuggiti almeno tre posteggi. Non l’hai proprio mandata giù, eh? Ma lasciala perdere: era ed è una donna inaffidabile; e non che non ti avessimo avvertito eh…

    – Sì ma... Lorenzo...

    – Lorenzo crescerà benissimo! sottolineò Paolo. Ma sai quanti bambini coi genitori separati oggi? E vengono su alla grande. Anzi, crescono meglio che in coppie litigiose che hanno smesso di amarsi.

    – Sarà...

    – No, sarà: è così! Ma ora concentrati, sennò giriamo a vuoto e arriviamo in ritardo. Ah, apro e chiudo parentesi: stasera cena in osteria con le mie amiche di Sanremo, ok? Te lo ricordavi, vero?

    – Ma... veramente... veramente volevo andare al cinema.

    – E che palle con ‘sto cinema! E se anche una settimana salti, non è un dramma! No?

    Teo, finalmente, accostò.

    – Vediamo dai, ne riparliamo più tardi. Intanto cerchiamo di fare bella figura.

    Salirono di fretta la breve scalinata, eleganti d’abito ma con giacche non più adatte alla tramontana che vestiva Genova d’autunno.

    Si era addormentato; alle cinque e mezza del pomeriggio il buio aveva oramai vinto e Teo non poteva credere di avere dormito oltre due ore. Non era tipo da pennichella; si alzò quasi di soprassalto, come se in quelle ore di sonno si fosse perso qualcosa di importante.

    Belin... era una vita che non sprofondavo così di botto; la discussione con quella pazza mi deve aver esaurito –

    Guardò dalla finestra: la pioggia si era scrollata la timidezza mattutina e ora cadeva fitta sulla città incupita. Si avviò pigramente in cucina, spaventato dalla pila di piatti che andava ingrossandosi da un paio di giorni. Decise di scuotersi, ficcandosi addosso il suo impermeabile e uscendo a bucare il tempestoso tramonto. Teo amava passeggiare tra gli scorci del porto; si incamminò, curvo, in direzione del molo, dopo aver oltrepassato l’angolo delle darsene dove erano ormeggiate un paio di navi mercantili. La Lanterna si scorgeva appena tanto scarsa era la visibilità ma Teo, immerso com’era nei suoi pensieri, quasi non faceva caso alle sferzate di vento e acqua che gli rovinavano addosso. L’incontro al Comune era andato più che bene; di primo acchito, i periti del catasto avevano mostrato di approvare: c’erano i requisiti essenziali perché il progetto potesse, per lo meno, partecipare alla gara d’appalto. Era solo un primo passo, ma l’orgoglio di saper fare il proprio mestiere compensava le ultime recenti delusioni. Si lasciò alle spalle la zona più dura del porto, quella fatta di cantieri e camalli con la schiena piegata per dieci ore al giorno, e risalì la calata che poi lo avrebbe riportato nel cuore della città. Prima di entrare in un locale per farsi un cicchettino, acquistò il mensile Duel, una rivista che trattava di cinema in modo così sofisticato che solo i più appassionati osavano sfogliarla.

    Con tutta l’acqua che aveva preso, il Bar LoScuro era ancora troppo distante per pensare di rifugiarsi; Teo decise di tradire il suo amico per infilarsi in un baruzzo poco mondano, sotto i portici. Non fece in tempo a ordinare un bianchetto che la telefonata di Paolo interruppe il flusso dei suoi pensieri.

    – Amico architetto, come stai? Sopravvissuto all’Arpia? Avevi il cellulare spento oggi pomeriggio.

    – Guarda... ho dormito tutto il giorno, come non mi capitava dai tempi delle elementari. Comunque, sì... sono sopravvissuto. Sai, le solite cose: si scusa per come è finita male ma sottolinea che prima o poi sarebbe potuto accadere anche a me; dice che fin dall’inizio eravamo una coppia sbagliata; che l’unica cosa buona che abbiamo fatto è stata Lorenzo; che io le ho sempre preferito il lavoro, il mare, il cinema, il Genoa, mentre non avevo mai tempo per lei, ecc. ecc.

    – Roba vecchia – lo interruppe Paolo –, già sentita. A proposito di mare, perché hai venduto la barchetta?! Me l’ha detto il Robi, ieri. Era una bagnarola ma... simpatica.

    – Sì, un errore. Già pentito: uno dei tanti errori degli ultimi tempi. Per quello che ci ho ricavato poi...

    – Che besugo che sei a volte! Ascolta, cambiando argomento, ho sentito le mie amiche di Sanremo...

    Già, le amiche di Sanremo. Teo si stava nuovamente dimenticando della cena.

    – ... e mi han detto che arriveranno a Zena per le otto, otto e mezza. Saranno in quattro. Guarda che sono carine eh! E se la serata promette bene, credo si fermeranno a dormire da qualche parte. O da qualcuno...

    – Ci sarai, no? Ti giuro che se ti neghi, per il tuo cazzo di cinema, non ti guarderò in faccia per un anno, mi ritirerò dalla squadra di lavoro, dal progetto dell’asilo e ... e magari ci provo con tua moglie... tanto mi sa che...

    Scoppiò a ridere. La sfacciataggine del suo amico sgretolò le sue titubanze.

    – D’accordo, d’accordo. E sia. Verrò a ‘sta mitica cena. Una sola richiesta: il ristorante lo decido io. A me piace mangiare bene. Intesi?

    – Ma fai quello che vuoi... e sceglilo pure tu. Basta che ti scrolli un po’. Allora ok, ci sentiamo tra un’oretta. Ora vado a fare una corsetta. Ciau testun.

    Teo riattaccò senza salutare. Scosse il suo bicchiere di vino; ne gustò un sorso. In fondo a quel calice, cercava di scorgere anche un po’ del suo futuro.

    La locanda Dei Falconi era incastrata in un angolo della Salita di Santa Brigida, una stradina che nasceva da Via Balbi per arrivare a dominare i tetti di Genova. Le ragazze apprezzarono il rifugio.

    – Davvero bello qui. Peccato – fece una ricciola dagli occhi invisibili – che il tempo sia cattivo, altrimenti dalla terrazza avremmo visto anche il mare. Ma con quest’acqua...

    – Vedrete – si inserì Roberto, intento già da mezz’ora a corteggiare una bionda luminosamente ossigenata – che cibo e vino ci faranno dimenticare l’uragano. Vero, ragazzi?

    Paolo e Teo sorrisero. Il primo con espressione radiosa; Teo, invece, in modo più rarefatto, come per concedere un’effimera soddisfazione. Lucia, la donna seduta al suo fianco, pareva fosse entrata immediatamente in confidenza: sembrò quasi volerlo stuzzicare. Teo, oltre che un uomo pieno di idee e passioni, era anche un bel ragazzo: più alto di un metro e ottanta, col vezzo di rasarsi quasi sempre a zero, aveva un viso dal profilo molto armonioso e due occhi neri come piume di corvo; anche la sua muscolatura, in particolare attorno alle spalle, era piuttosto sviluppata grazie agli anni passati a far canoa e ai lavori di fatica sulle barche del padre.

    – E tu – chiese Teo, intavolando una fragile conversazione – da quanto tempo sei laureata?

    – Da un anno– rispose Lucia –, in Scienze dei Beni Culturali; forse, se Dio vuole, ho finalmente trovato un buon gancio a Imperia.

    – E di che si tratta?

    – In un museo… il Museo delle Olive.

    – Ah, capisco – nicchiò Teo.

    Paolo lo guardò malissimo. Con la scusa di andare in bagno, si fece seguire dall’amico.

    – Dai Teo, che ti prende! Ma quanto sei moscio. Quella ti mangia con gli occhi, non si vede? Dimentica tua moglie... non puoi farti condizionare così.

    – Ma mia moglie non c’entra! C’ho messo una pietra sopra.

    – Ma allora!? replicò Paolo. Che c’è di male a darsi ad altre storie? Ma anche fosse un’avventura di una notte?! Non hai più vincoli ormai.

    – Hai ragione, dai; sono io che sono un po’ lunatico in questo periodo. Passerà–

    – Bravo ragazzo, così ti voglio! Ma poi scusa... hai visto oggi al Comune, hai visto come hanno apprezzato il nostro lavoro. Dovresti essere contento, no? Non eri tu a dire quanto fosse importante questa prima verifica preliminare? –

    – Sì sì... basta... mi riprendo subito. Senti, tu vai pure: io esco tre minuti a farmi due note e torno al volo.

    Paolo si allontanò; Teo uscì verso la terrazza. La pioggia sembrava essere calata d’intensità, ma il forte vento ostacolava il fuoco del suo accendino. Respirò, di malavoglia, poche boccate di fumo; prima di far rientro, però, il trillo di un messaggio scosse il suo telefonino; non aveva intenzione di guardare chi fosse, ma un immediato secondo trillo lo indusse a darci un’occhiata.

    Venerdì 30 ottobre, nuovo incontro: questa volta, la location sarà Bologna. Il solito entusiasmo, il solito coraggio, la solita ambizione. Cominciate a fantasticare sui film. Non si accettano defezioni. A presto cinefili.

    A Teo tornò il sorriso; adesso, un sorriso vero.

    3–

    Barbara non poteva chiedere di più: considerava un assoluto privilegio riuscire a incanalare il proprio talento creativo in un mestiere che adorava. E considerava un privilegio anche vivere a Firenze.

    – Ogni singolo scorcio di questa città – amava ripetere spesso – è per me fonte di massima ispirazione.

    Inventava slogan pubblicitari, di quelli che lasciano il segno. Lavorava però dietro le quinte: il suo, infatti, non era un volto noto; note, invece, erano alcune sue frasi che emergevano dai cartelloni pubblicitari, alcuni tormentoni televisivi di réclame di successo e spot che coloravano di tanto in tanto le pagine dei giornali. Era diventata una consulente molto apprezzata: insieme a sette collaboratori, aveva aperto uno studio a Signa – a pochi chilometri dal capoluogo toscano – che nel giro di pochi anni era diventato un fiore all’occhiello nell’area grafico–pubblicitaria.

    La casetta dai tetti rossi in cui Barbara viveva si trovava in Via di Santo Spirito, sul selciato di un coloratissimo quartiere dal sapore decisamente bohémien, a pochi passi dal Ponte Vecchio, dove capannelli di studenti, turisti giramondo e nottambuli locali sostavano senza fretta. La ragazza, in quel rione, era in affitto da quattro anni, e si era così innamorata del posto che meditava di acquistare la casa nella quale abitava: i prezzi al metro quadro, a ridosso del centro storico, erano molto alti, ma il lavoro le stava girando bene e all’orizzonte si profilavano nuove promettenti consulenze.

    – È arrivata la mail da Perugia?

    – Di quale parli... quella...

    – Come di quale parlo – lo interruppe Barbara, un po’ nervosa per l’attesa –: di cosa abbiamo parlato venerdì sera fino a un minuto prima della chiusura dell’ufficio? –

    – Certo... certo – titubò Edoardo, suo collaboratore da anni – solo che sono entrato in studio da pochi minuti, un istante prima che arrivassi tu...

    – Ah sì – replicò la donna –, ed è per quello che eri già su Facebook?–

    Barbara preferì lasciar perdere; preparò il suo caffè, come sempre d’orzo. Altri tre della compagnia irruppero nello studio, facendo più chiasso di un elefante in cristalleria.

    – Dì... bischeri... qualcuno non ha ancora fatto colazione? Perché due cremini con cappuccio me li farei volentieri.

    – Non lo chiedere a Barbara – commentò Edoardo – sennò ti sbrana! L’è nervosa stamane.

    – Non sono nervosa, Edo! È che... tengo molto a Perugia! Ragazzi... qui si sta parlando dei cioccolati più famosi del mondo! Se davvero riuscissimo a collaborare per Baci Perugina, altro che Signa... ci apriamo uno studio a New York e andiamo a vivere di rendita per tutta la vita!

    – Adesso – tornò a sorridere, facendo udire la voce della donna più grande e più saggia, benché i suoi 32 anni fossero poco più dei loro –, adesso ci attacchiamo a mail e telefono. Oggi non si lavora d’ingegno e creatività: oggi, più che altro, si lavora di diplomazia. Vediamo di strappare un appuntamento – e che sia quello decisivo – a ‘sti cioccolatai di Perugia. Magari già per domani.

    Gli altri mostrarono facce un po’ perplesse.

    – Già – continuò –, mi piacerebbe per domani. Gradirei, con uno di voi, andare a bussare direttamente alle loro porte e spiegare di cosa siamo capaci. Siete con me, vero? Siete con me?? –

    – Sii – risposero quasi in coro –, certo che siamo con te.

    Allargò le braccia, in modo quasi trionfale. Si tolse il cerchietto che domava il casco ricciolo di capelli e accese il suo computer: Greta Garbo, dallo schermo del suo pc, le diede il solito benvenuto.

    Decise di pranzare con suo padre. Aveva temporeggiato fino all’ultimo, ma di fronte all’insistenza di lui, pensò bene di cedere e incontrarlo.

    Il cielo su Firenze si era improvvisamente ispessito: i dehor dei localini di Piazza Santa Croce si erano rapidamente svuotati; anche la temperatura ora pungeva, e perfino i turisti tedeschi dai pantaloncini corti e calzini bianchi non potevano nascondere i loro brividi di freddo.

    – Mangiamo dentro, no?

    – Sì babbo, fa freschetto e minaccia acqua. Mangiamo dentro.

    L’osteria era piena, nonostante fosse un anonimo lunedì ottobrino, ma i seguaci di arte, cibo e cultura, a Firenze, non andavano mai in sciopero. Padre e figlia ordinarono una ribollita, la prima della stagione.

    – Senti – attaccò l’uomo, senza preamboli –, non è che io non abbia accettato: è solo che mi ci vuole un po’ di tempo... io...

    – Un po’ di tempo? – lo interruppe bruscamente Barbara. – Sono passati tre anni da quando ho confessato, e da allora è come se fossi sparita dalla tua vita! Le telefonate si sono rarefatte, gli inviti a pranzo quasi scomparsi; perfino a Natale, a casa di parenti e amici, praticamente non mi rivolgi la parola.

    – Lo so figliola – fece un po’ accigliato – ma io sono un uomo all’antica, mi conosci. All’inizio non volevo quasi crederci, sai: sei la mia unica bimba; io sognavo una famiglia, dei nipoti...

    La zuppa toscana, nel frattempo, era giunta ai loro tavoli; il piatto fumava e quella giostra calda di pane e verdure li mise a tacere per qualche minuto.

    – Ascolta – ricominciò la donna –, io non ho mai sottovalutato il tuo disagio. Sapevo, conoscendoti, che sarebbe stata dura. Non ho mai preso alla leggera l’impatto della mia omosessualità sulla famiglia – aveva sempre un certo pudore nel pronunciare quella parola di fronte al padre – ma superato il trauma iniziale, speravo te ne facessi una ragione.

    – Sì sì... io... ci sto provando... io...vedi... se oggi sono qui, se ho tanto insistito per questo pranzo, è perché vorrei svoltare, vorrei provare a ricostruire il nostro rapporto. Anche se...

    – Anche se cosa, babbo? Sono sempre la tua figliola! Quella di sempre! Solo che amo le donne: babbo, amo le donne! Ma questo non fa di me una persona né migliore né peggiore. Sono la tua Barbara... quella che fino a tre anni fa adoravi. Ti ricordi, babbo?

    L’uomo ordinò un altro quartino di vino rosso. Si guardò attorno, come se temesse che qualcuno li stesse ascoltando.

    – D’accordo... ho sbagliato e non escludo che potrò ricascarci ancora ma... ora voglio riprovare a ricostruire il rapporto con te.

    La ragazza lo osservava in silenzio.

    – Io... io... ti prego Barbara, perdonami. Puoi perdonare tuo padre?

    Ancora silenzio. L’aria sembrava immobile; le voci del ristorante parvero spegnersi. Poi una lacrima; una sola lacrima di lei, ma che valeva tutta la gioia del mondo.

    Il vernissage aveva inizio alle ore 21. Barbara era incantevole: i pantaloni di velluto aderenti incorniciavano il profilo armonioso delle sue gambe, mentre una mise dall’intreccio scollato regalava alla ragazza l’immagine di donna fascinosamente sofisticata; gli occhi, poi, di colore azzurro acqua, risaltavano grazie al tocco sapiente di un rimmel mai banale. E poi era di buon umore: la chiacchierata con il padre l’aveva commossa e riconciliata con il quadretto – un po’ logoro – di famiglia; più complicato, invece, il pomeriggio al lavoro, dove non era ancora riuscita a ottenere un appuntamento decisivo coi vertici di Baci Perugina.

    Barbara arrivò lì con quasi due ore di anticipo: un suo ex compagno del liceo, ora gallerista, stava organizzando una serata per mettere in mostra i suoi dipinti di talentuoso ed eccentrico pittore, cercando di farsi conoscere negli ambienti locali. Aveva chiesto il soccorso della sua creativa amica, del cui buon gusto nessuno poteva dubitare.

    Maremma Barbara... se non sapessi delle tue inclinazioni, ti farei una corte spietata da quanto sei bella.

    – Beh – gli rispose sarcastica – se non ricordo male, ci provasti già negli anni della scuola, o sbaglio?

    – Mmm... sì... mi piacevi molto, anche se quel tuo modo di essere cinica mi spiazzava. Sapevi essere odiosa, talvolta.

    – Ma no dai – commentò la donna –, la mia era solo fragilità.

    Alcuni curiosi fecero il loro ingresso prima del previsto. Il pittore li accolse con un caloroso saluto, mettendoli subito a loro agio. Nel giro di un’ora, quel loft incastrato tra Via dei Benci e Via dei Neri, non lontano dai più bei gioielli a cielo aperto di Firenze, si era andato riempiendo. Barbara e il suo amico non riuscirono quasi più a parlare, e fecero fatica a fendere la folla colorata che discettava d’arte e pettegolezzi.

    Fu allora che la rivide. Era quasi un anno che non aveva più sue notizie. Qualcuno le aveva detto che, forse, si era trasferita in Portogallo; di lei aveva solo il numero del cellulare, che però si era fatto improvvisamente muto e irraggiungibile. Non sapeva come comportarsi: dopo il vortice di emozioni dell’incontro col padre, il suo cuore tornò a rimbombare, ed era la seconda volta in poche ore. Ignorarla non era possibile, prima o poi avrebbe incrociato il suo sguardo. In realtà, si sentiva combattuta: aveva preso una forte cotta per lei, vivendo due mesi di delirio totalmente adolescenziale. Poi, sul più bello, la ragazza era sparita; da un giorno all’altro, senza uno straccio di spiegazione, era sparita. L’aveva cercata ovunque, inizialmente. Aveva chiesto ad amici e conoscenti senza scovare indizi. Nessun indirizzo di posta elettronica a cui scrivere e nessun social forum da spiare. Alla delusione iniziale, era subentrata la rabbia. Ed era quella rabbia, ora, che le impediva di essere lucida. Avrebbe voluto andare da lei e rinfacciarle tutto, ma temeva di fare una sceneggiata.

    – Oh Baba – così la chiamavano quasi tutti i suoi più vecchi amici –, che tu c’hai? Ti vedo inquieta. Dovrei essere io quello nervoso, con la pioggia di commenti di ogni tipo sui miei quadri –

    – Sì... sono nervosa.

    – Oh perché mai?

    – Perché? Guarda là... in direzione del tuo dipinto Periodo Blu.

    – Sì – commentò il ragazzo –, e allora? Che c’è?

    – La vedi quella tipa dai capelli a spina? Quella coi jeans stinti e la camicia a fiori?

    – La vedo la vedo... carina l’è carina. Guarda che non sei qua per rimorchiare...

    – Ma sta zitto grullo! Sai chi è lei?

    – No Barbara; non so chi sia. Te me lo voi dire? O si va avanti con gli indovinelli?

    – È lei. La donna misteriosa...

    L’amico rimase un istante in silenzio, poi esclamò:

    – Oh maddai... quella per cui ci hai fatto una testa tanta? Quella che ti aveva sedotta e abbandonata, sparendo nell’oscurità?

    – Sì caro... è lei! E ora che ? Guarda, mi tremano le mani.

    L’artista non fece in tempo a rispondere. Un manipolo di attempati personaggi, dalle barbe incolte e dal profilo emaciato, lo avevano sequestrato per chiedergli delucidazioni sui suoi lavori.

    Barbara si ritrovò sola. Prima di decidere come agire, pensò bene di prendere una boccata d’aria, uscendo dalla porta di retro, ove sbucò in un cortile tra le mura di un palazzo di fine Seicento.

    –Adesso vado e l’affronto. Sarò calma ma decisa. Non siamo mica bambine. Ho diritto a una spiegazione, e che diamine...

    Stava per rientrare al chiuso, quando a un tratto le arrivò un whatsapp sullo smartphone.

    – Vuoi vedere che è di nuovo il babbo – pensò la donna. – È da questo pomeriggio che mi scrive messaggini di gioia per la ritrovata intesa. Mi fa piacere, per carità... ma ora esagera. Che tenero però.

    Lesse il mittente. Non era suo padre. Lesse il contenuto:

    Venerdì 30 ottobre, nuovo incontro: questa volta, la location sarà Bologna. Il solito entusiasmo, il solito coraggio, la solita ambizione. Cominciate a fantasticare sui film. Non si accettano defezioni. A presto cinefili.

    Barbara si carezzò la riccia chioma, riponendo il cellulare nella borsetta. D’improvviso, si sentì decisamente meglio.

    4–

    – E allora... uomini e donne che senza musica non sanno stare: vogliamo colorare questa giornata d’autunno? Vogliamo regalare uno squarcio di luce a questo lunedì di tenebra? Io, qui a Torino, stamattina ho visto la prima nebbiolina, di quelle già malinconiche... malinconia di un’estate ormai bella che tramontata. Ma arrivano messaggi da tutta Italia, e tutti dello stesso tono: pioggia, vento, nubi. E che ci volete fare, siamo pure a ottobre. Ma su con la vita! Adesso ci penso io a darvi una bella scossa elettrica e poi ci si ritrova tutti qui a far due chiacchiere. Intesi? E ora beccatevi le note di Immigrant Songs dei mitici Led Zeppelin! A tra poco.

    Si tolse la cuffietta. Era ancora un po’ sudato, viste le corse per arrivare in tempo in redazione. Aveva parcheggiato il suo scooter in un angolo un po’ a rischio: probabilmente, sarebbe tornato a casa con l’ennesima multa.

    – Uè Giulio, rischiavamo di partire senza di te stamattina. Stavamo per anticipare il giornale radio, poi abbiamo sentito il rumore della tua motoretta...

    – Non chiamarla motoretta – replicò all’istante –, non è mica solo una motoretta la mia! Massimo rispetto per il mio vecchio scooterone! Finché non arriva il freddo, io la macchina la lascio a casa.

    – Eh sì, però se poi devi arrivare in ritardo... noi...

    – Ma guarda – ribatté senza farlo terminare – che con le due ruote, nell’ora di punta, si è molto più veloci.

    – Nell’ora di punta sì – gli contestò il caporedattore –, ma ti sembra che la tua fascia oraria corrisponda all’ora di punta?

    Erano le dieci di mattina; in effetti, non esattamente l’orario di maggiore congestione del traffico. Giulio, al bonario rimprovero dell’uomo, alzò gli occhi al cielo, lisciandosi con fare sornione i goliardici baffetti; se li era fatti crescere da quasi due mesi e ora che avevano acquistato forma e consistenza, provava un ineffabile gusto a stuzzicarli e a prendersi gioco di loro.

    Occupava gli studi di Radio 77 da ormai tre anni, e la trasmissione che conduceva era diventata uno degli appuntamenti più apprezzati dagli ascoltatori. Si faceva chiamare MastroDj: per 120 minuti, con solo un paio di interruzioni per le news e brevissimi stacchi pubblicitari, Giulio seduceva attraverso la musica e attraverso i suoi istrionici commenti su arte e cinema. Tutte le sue passioni condensate in due ore: aveva totalmente carta bianca; nessuno gli controllava il suo materiale discografico e nessuno gli guardava la scaletta con cui decideva di impostare la trasmissione. Da lunedì a venerdì, dalle 10 alle 12 del mattino, MastroDj esprimeva totalmente se stesso, senza alibi nè censure: un rischio per la radio, ma un rischio premiato da ascolti più che lusinghieri.

    – Quaranta secondi e sei in onda, Giulio. Rimettiti le cuffie.

    Non aveva ancora trovato la sua moleskine di appunti, su cui domenica pomeriggio aveva tracciato la linea guida della trasmissione del lunedì. Nella sua cartellina non c’era; probabilmente lo aveva lasciato a casa. Non era la prima volta: per l’ennesimo lunedì, avrebbe dovuto procedere a braccio. Ma Giulio era uomo che sapeva improvvisare.

    Torino era la sua cartolina preferita; Giulio aveva sempre amato la sua città, anche negli anni in cui ancora non se la filava nessuno. Torino era la fredda e grigia città industriale solo per due categorie di persone: quei turisti

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