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Io sono Beril Kart
Io sono Beril Kart
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Io sono Beril Kart

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About this ebook

Beril Kart ha 145 anni e vive sul pianeta terra assieme al suo padrino e protettore

Artar Kart. Beril sa di essere diversa dai terrestri anche se il suo desiderio più grande è voler vivere come loro.

Lei possiede poteri inimmaginabili senza avere la capacità di gestirli: ne perde il controllo subendo una trasformazione su tutta la metà sinistra del corpo, coprendosi di glifi dorati che man mano si scuriscono con la perdita della ragione, portandola in un pericoloso ed incontrollato stato catatonico.

Artar, in seguito all’attacco di alcuni sciacalli galattici, perde la vita nel tentativo di difendere la figlioccia mentre Beril viene messa in salvo dal generale Sakar Santier impegnato a dare la caccia ai loro aggressori. Beril viene portata su un pianeta ai confini

dell’universo, a lei viene spiegato che incombono grandi minacce in quanto i peggiori esseri stanno dando la caccia a dei cimeli, i Quattro Elementi.

Con la promessa da parte del suo salvatore dell’aiuto nella gestione delle sue virtù, la ragazza comincia a scoprire nuove realtà, allenandosi con la milizia sotto il comando di Sakar.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJul 23, 2019
ISBN9788831629775
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    Io sono Beril Kart - Ilaria Galanti

    633/1941.

    Prologo

    «Non saprei dirvi di preciso chi sono, dove sono nata, e da chi. Il mio padrino non me ne ha mai voluto parlare, nascondendomi tutto per centoquarantacinque anni.

    Qualcosa aveva appena cambiato il corso della mia vita, non so nemmeno con precisione come e in quale modo, ricordo poco, per ora.

    Ho appena aperto gli occhi, non so dove sono, ma non ho paura, credo sia per lo stordimento.

    Cerco di realizzare cosa possa essere accaduto nelle ultime ore, sono confusa.

    Provo a muovermi, ma è come se il mio corpo non rispondesse ai miei comandi. Forse ci vuole tempo, provo con altro, devo capire dove sono.

    Cos’è questo odore? È buono, sembra molto simile all’incenso. Amo quel profumo, mi rilassa. Ma dove potrei trovarmi?

    In una stanza chiusa, quasi buia, se non fosse per quel fievole bagliore a poca distanza da me che illumina appena ciò che mi circonda. Ma cos’è quella luce? Guardo meglio, non ho mai visto una cosa simile. Sembra una piccola sfera trasparente, con un piccolo fuoco all’interno, ma la cosa più curiosa sono le incisioni su quella sfera. Ho dei flashback, ma non riesco a ricondurli a nulla.

    Forse ho la mente ancora troppo confusa.

    Artar… perché non è con me?

    Ok, devo stare calma e cercare di ragionare. Sono in posizione prona, su un letto. Anche comodo direi.

    Sono vestita, sì, ma sento le spalle nude.

    Il vestito è chiaro, molto probabilmente bianco, e non credo sia mio.

    Ho anche le gambe scoperte, i piedi nudi? Sì, sono scalza.

    Se quello strano lume illuminasse poco di più, potrei osservare meglio quanto mi circonda.

    Dio mio che male! Ho i polsi che vanno a fuoco, devono essere i miei bracciali. Perché stringono, perché scottano? Quanto ho dormito questa volta? Artar, dove diavolo sei?

    E se mi concentrassi sui rumori?

    Richiudo gli occhi e apro bene le orecchie, ma me ne pento subito. Che ronzio fastidioso, credo provenga dalle mie orecchie, per il resto non si sente nulla… silenzio totale, nonostante il mio udito fine.

    Aspetto ancora un po’, quel ronzio mi dava fastidio non poco… così decido di riaprire gli occhi, ma trovo una situazione totalmente cambiata!

    Quella fiamma nella sfera è più grande, vedo meglio, la mia attenzione non è più su dove mi trovo, ma con chi.

    Lui è lì, ha un viso già visto, ma dove? Alto, con quei corti capelli neri e gli occhi azzurri che mi fissano in modo preoccupato. È un uomo molto affascinante, con un abito che può sembrare una divisa da combattente, ma futuristica. Grigia scura, con delle placche metalliche applicate su braccia, petto, spalle.

    La mia attenzione viene catturata da ben altro. Lungo un fianco scende, appesa alla cintura, una lunga spada, dentro al suo fodero. Una spada? Chi diavolo è questo?

    Beril, come stai?

    Giusto, Beril sono io… ma come fa a conoscere il mio nome, perché è qui con me?

    Vorrei chiedere come e perché fossi lì, ma non riesco a emettere un suono. Le mie labbra sono immobili, conosco la condizione in cui mi trovo, non è la prima volta; uno stato di trance provocato da un evento forte, quando la situazione mi sfugge di mano, la mia energia cresce e si espande in modo anomalo. Non devo essere un bel vedere, gli occhi mi si tingono di nero, come il mio corpo, lungo tutta la metà sinistra. Spesso reagisco con degli scatti, come se avessi delle convulsioni.

    Quando succede c’è sempre Artar a gestirmi, ma lui ora dov’è? Perché non è con me? Ho paura e i polsi bruciano ancor più di prima!

    Mi sto agitando, voglio sapere che diavolo sta succedendo, ora!

    Beril stai calma, stai facendo tremare il pavimento, ci sono io, sono qua per aiutarti.

    L’ultima cosa che vedo prima di riaddormentarmi, nonostante la difficoltà che provo nel percepire cosa sta succedendo in questo momento, è quell’uomo che mi mette la mano destra su una spalla, spingendo per bloccarmi, e la sinistra sulla fronte, con il palmo aperto da cui esce una luce fortissima, bollente, potentissima.

    Il suo tocco mi sconvolge, è devastante, sento il suo essere scorrere dentro il mio corpo. Quegli occhi, lo sguardo così profondo.

    Ancora immobilizzata da lui, sento come se il soffitto venisse giù verso me, spingendomi addosso, soffocandomi. Comprime sempre di più, brucio sempre di più, mi sento svenire, mentre vedo che i miei bracciali brillano di una luce mai vista, accecante come quella che proviene dalla mano dello sconosciuto.

    A un certo punto si fa tutto buio.

    Svengo».

    1.1 - LA CANTILENA DI ARTAR

    Beril non era originaria del Mondo a voi conosciuto, ma nemmeno lei era al corrente delle sue vere origini. Per lei l’età era solo un numero, a vederla si sarebbe potuto dire avesse circa venticinque, forse trent’anni. Ne aveva centoquarantacinque ed era l’unica cosa che sapeva. Lei non mutava con il passare del tempo, avrebbe mantenuto il suo aspetto per l’eternità.

    Una bellissima ragazza, con occhi così espressivi che avrebbero potuto raccontare chi fosse per ore, senza aprire bocca. I suoi capelli erano lunghi e neri, così brillanti che sembrava avesse dei fili di seta. Le sue labbra piene avevano il colore del corallo, poteva far invidia a chiunque, sembravano minuziosamente disegnate da un artista, tanto erano sensuali.

    Altezza media, il corpo di una Dea. Tutto avrebbero pensato di lei, tranne che fosse nata per essere una guerriera.

    Fu portata nel Mondo da noi conosciuto nella seconda metà del 1800 da Artar, suo padrino e protettore, l’unica famiglia che lei avesse mai avuto.

    I luoghi in cui i due vissero, furono molti, specialmente quando Beril era piccola, perché cresceva molto più in fretta di un bambino terrestre. Quando divenne donna, gli spostamenti erano relativi al fatto che fosse evidente che né lei né Artar invecchiassero come tutti gli altri, oppure avvenivano quando il suo padrino si insospettiva: dare nell’occhio era il suo peggior incubo.

    Beril non sempre riusciva a tenere un profilo basso, nonostante Artar glielo raccomandava di continuo. Artar voleva bene a Beril come a una figlia, ma le aveva sempre tenuta nascosta la sua provenienza.

    Non posso ancora, arriverà il giorno in cui potrai vedere.

    Lui era un tipo solitario, non si faceva mai notare, era sempre sul chi va là.

    Beril, invece, era idilliaca, spensierata, piena di gioia di vivere e voglia di condividere con gli altri, l’esatto opposto del suo padrino.

    A lei piaceva conoscere altre persone e uscire con gli amici, scatenando il dissenso del padrino. Beril aveva anche cominciato a lavorare da pochi mesi dopo aver convinto Artar, a patto che si fossero sentiti ogni mezz’ora al telefono.

    Era una piccola azienda di moda con pochi ma cari colleghi; qui Beril si faceva valere per le sue brillanti qualità. Con lei lavorava un ragazzo, Alain, per il quale si era presa una cotta. Artar lo aveva capito, così la metteva in guardia di continuo sul fatto che lei fosse immortale mentre i terrestri no.

    Artar spesso la pedinava, l’aspettava all’uscita dell’ufficio per assicurarsi che avrebbe tirato dritto fino a casa.

    Un uomo di bell’aspetto almeno quanto la sua freddezza. Le volte in cui il suo viso era disteso e rilassato si potevano contare sulle dita di una mano. Aveva un incarnato olivastro, gli occhi verde smeraldo, i capelli corti e castani. Lavorava anche lui, ma per lo più da casa. Era uno scrittore che pubblicava nell’anonimato, molto apprezzato. Aveva venduto copie dei suoi manoscritti in tutto il Mondo, ricevuto proposte da agenzie cinematografiche, case editrici. A lui bastava così. Per lui esporsi era come fosse veleno. Aveva sempre destato curiosità, forse per il mistero che nascondeva dietro ai suoi scritti.

    A Beril faceva rabbia per la vita che aveva scelto per entrambi. Avrebbe potuto essere uno scrittore famoso, conosciuto da tutti, ma per lui era importante, vitale, rimanere nell’ombra.

    Nell’ultimo periodo di permanenza sulla Terra per Beril, si respirava l’aria del Natale, la ricorrenza più attesa stava finalmente arrivando e l’azienda per cui lavorava aveva deciso di radunare tutti i collaboratori per festeggiare insieme una sera, quella maledetta sera.

    Beril aveva passato l’intero sabato pomeriggio in giro per Milano con le sue colleghe, Giuditta e Milena, per cercare l’abito perfetto per quella serata; con loro andava molto d’accordo, si volevano bene.

    Ed erano proprio loro a spronare Beril affinché cedesse al fascino da Alain, che più volte le aveva chiesto di uscire, ma la ragazza, con una marea di scuse, aveva sempre declinato; non che non le facesse piacere, ma non le andava giù l’idea che Artar la seguisse per tenerla d’occhio, per poi tornare a casa e dover discutere sempre della stessa cosa. Potremmo svanire da un momento all’altro, sto cercando solo di farti capire che sarebbe più semplice senza legami.

    Ma Beril non riusciva a non averli, quei legami.

    L’immortalità è una brutta e triste maledizione.

    Beril avrebbe rinunciato a questo lusso in cambio di una vita semplice, di un compagno, una famiglia tutta sua, ma ciò non era possibile.

    Poi, quel sabato pomeriggio di spensierato shopping con le amiche, Beril si comprò, a suo dire, il più bell’abito che lei avesse mai posseduto: tutto blu, le lasciava le spalle scoperte, corto sul davanti e lungo dietro, come se avesse avuto uno strascico; le stava d’incanto, per di più lei era, inconsapevolmente, già molto bella di suo.

    Quella sera si fermarono in un pub per farsi una bevuta e brindare al loro legame, concludendo così la loro bellissima giornata insieme.

    Giuditta scherzava prendendo in giro Beril, scommettendo con l’amica Milena su come sarebbe andata a finire la festa che a giorni si sarebbe tenuta.

    Secondo me, cara Beril, non riuscirai a sfuggire al fascino del signor Denuro.

    Beril rideva, ma era in evidente imbarazzo.

    Non mi conosci abbastanza, allora.

    Denuro Alain: alto, biondo, con gli occhi color cielo e il fisico scolpito da una divinità. Nessuno si poteva spiegare come Beril potesse continuare a respingerlo.

    Ma perché Beril, ragiona! Non ti piace, o cosa? Perché a me non sembra, li vedo i vostri sguardi! Milena si fece seria.

    Devo appoggiarla anche Giuditta si intromise Alain è cotto di te, e tu lo guardi con occhi sognanti. Ci sono! Ci state nascondendo una relazione segreta? Altrimenti non ho una spiegazione.

    Nessuna relazione segreta Beril era sempre più rossa.

    Allora, qual è il problema?

    Non me la sento Beril mentì.

    Doveva farlo. Adorava le sue amiche, ma quando la mettevano in difficoltà, avrebbe voluto essere a migliaia di chilometri di distanza da loro.

    Beril, ti ha mai baciato? la curiosità fatta persona, Giuditta.

    No, mai.

    Milena alzò leggermente il tono: Come pretendi lo abbia fatto, come qualcuno le si avvicina di un passo, lei ne fa tre, ma nel senso opposto!

    Beril si incupì. Sapeva che aveva ragione, ma non erano a conoscenza di come fosse la vita di un immortale. Per lei era già dura sentire Artar dire che dieci anni di permanenza a Milano erano già troppi, che ogni giorno progettava un nuovo spostamento, provocando di conseguenza la paura di dover rinunciare a tutto, la rabbia per dover ricominciare tutto da principio.

    Il telefono le vibrò, interrompendo i loro discorsi e i pensieri di lei. Beril aveva spesso il cellulare in mano, circa ogni mezz’ora le arrivava o un messaggio o una chiamata da parte di Artar.

    Tutto bene?

    Sì papà, come sempre.

    Tuo padre? È così bello e giovane… ma che problemi ha? Senza offesa tesoro, ma non credo tu stia bene. Guardati!

    Non rispose alle parole di Giuditta, se non abbassando tristemente lo sguardo. Ogni mezz’ora, era asfissiante, e ne risentiva anche chi fosse vicino a lei.

    Beril era stanca di essere controllata di continuo, ma non poteva che accettarlo, anche se sapeva di potersela cavare da sola. Quello che sapeva fare superava ogni immaginazione, la sua forza, la sua energia.

    Come ogni volta, rincasando, trovò Artar sveglio, pronto a farle la ramanzina sul fatto che stesse fuori troppo tempo, approfittando della libertà a lei concessa, e che in questo modo si sarebbe compromessa.

    Lei avrebbe voluto fuggire, ma non con il suo padrino, come le altre volte. Fuggire per poter gestire la sua esistenza in modo naturale, senza costrizioni. Avrebbe voluto fare tante cose, aveva tante abilità e conoscenze, ma tutto ciò era soffocato da un pericolo imminente.

    Questa la cantilena che ripeteva sempre Artar.

    2.1 - LA FESTA

    Beril era eccitatissima, si stava preparando per quella festa organizzata con i suoi colleghi, erano almeno due ore che stava davanti allo specchio a cercar di acconciare i suoi bellissimi capelli neri. Artar era nel salone, seduto al tavolo, con un braccio si sorreggeva la testa e con l’altro giocherellava con un piccolo oggetto rettangolare, il localizzatore di Beril.

    Con quell’oggetto sapeva costantemente la posizione della sua protetta.

    Lei questa cosa non l’aveva mai accettata.

    Ma quella volta non ci fece caso, era troppo presa dal pensiero della serata e non le importava del dissenso di Artar.

    Uscì dalla camera da letto e Artar si girò, la preoccupazione quasi svanì dal suo viso.

    Beril, sei bellissima.

    Beril arrossì, sorrise. Suo padre non era incline ai complimenti.

    Quell’abito blu era un incanto su di lei, come erano spettacolari i capelli raccolti sulla nuca e la frangetta che le incorniciava il viso. Per un attimo pensò che stesse delirando, suo padre con l’espressione così dolce non lo aveva mai visto.

    Ma poi lui si avvicinò per abbracciarla.

    Beril, non posso vietare a te di vivere. Ma ti prego, stai attenta. Ho un brutto presentimento. Tieni il telefono a portata di mano, e i bracciali, non toglierli mai, qualsiasi cosa succeda.

    Beril, quasi imbarazzata e addolcita dalle sue parole, alzò lo sguardo, prese il suo viso con entrambe le mani: Vedrai che non succederà nulla, anche fosse, sai che me la so cavare, sai quello che so fare.

    Anche questo mi preoccupa abbassò la testa.

    Non era burbero come al solito, ma quasi triste quella sera. Beril si stranì per il suo insolito comportamento, ma ben presto dimenticò tutto. L’aspettava una serata magnifica, ed era presa da quel pensiero.

    Salutò Artar con un forte abbraccio, che lui ricambiò, uscì dalla porta e, sorridendo, si girò e ancora una volta ribadì: Tranquillo papà.

    Beril raggiunse il garage, salì in auto e uscì.

    La temperatura sul cruscotto dell’auto segnava +21 gradi, e pensò che fosse una temperatura anomala per il 22 dicembre. Mentre guidava, scrutò anche il cielo, si stava visibilmente annuvolando, avrebbe piovuto di lì a poco. A Beril non importava, lei amava la pioggia.

    Mentre guidava, ricevette una chiamata, era Giuditta che parlava ad alta voce per sovrastare la musica assordante che si sentiva di sottofondo, un pezzo dei Muse, Pressure.

    Beril sospirò sognante, amava la loro musica.

    Beril ma dove sei?

    In auto Giudi, sto arrivando!

    Qualcuno ti aspetta con ansia… ridacchiò. Vola!

    Dai che sto arrivando, non bere troppo, almeno non senza di me! rise con lei, riattaccò.

    Durante il tragitto cercò di rilassarsi mettendo un po’ di musica, trattenendo l’ansia con dei respiri profondi. Ancora non aveva cominciato a piovere, ma percepiva benissimo l’odore della terra bagnata, una cosa per cui lei andava matta. Era agitata, pensava ad Alain e a come respingere le sue attenzioni. Non sapeva per quanto tempo sarebbe riuscita a farlo.

    Alain era tutto quello che avrebbe voluto da un uomo, si sapeva distinguere.

    Era risoluto, sicuro di sé ma senza essere presuntuoso. Aveva un sorriso per tutti e mille per Beril. Non passava inosservato il fatto che lui non avesse occhi che per lei, nonostante l’anima della bella ragazza fosse una corazza impenetrabile. Lui aveva pazienza, ne aveva molta. L’avrebbe aspettata, e avrebbe atteso il momento giusto. Non avrebbe rinunciato a lei per nulla al mondo. Ogni volta che il suo sguardo capitava nel suo, era come un sogno, una forte scossa, chimica pura. Quando si sfioravano, il battito del suo cuore impazziva, sbattendo nel petto come a spingerlo in avanti, verso di lei, la sua musa, la sua cara, amata, Beril.

    Arrivò al parcheggio e prima di scendere dalla macchina, si riempì i polmoni d’aria, fece un bel sospiro e poi un immenso sorriso. Stava proprio bene, si sentiva vivere, quasi libera, non vedeva l’ora di vedere gli altri.

    Si incamminò verso l’edificio dove tutti l’aspettavano, davanti all’ingresso c’era lui, bellissimo, in abito nero e camicia bianca.

    Gli occhi chiari erano incorniciati dai suoi capelli biondi, tenuti sempre molto corti. Un fisico atletico e ben curato si intravedeva sotto il suo vestito.

    Era proprio bello, Alain. Bello, intelligente, ma soprattutto buono. Era amico di tutti, aiutava chiunque, sorrideva sempre e non era solo Beril a pensare fosse l’uomo perfetto. Molte donne sarebbero cadute ai suoi piedi, se solo lui avesse esercitato l’incredibile fascino a suo vantaggio. Probabilmente era proprio quel suo essere distaccato dalle relazioni amorose che lo rendeva ancora più intrigante.

    Aveva avuto anni addietro una lunga relazione, finita poco prima di conoscere Beril. Nessuno sapeva bene perché fosse finita, ma si vociferava che entrambi, parlando di matrimonio e famiglia, si fossero tirati indietro, pensando di non essere più innamorati l’uno dell’altra, se non addirittura di non esserlo mai realmente stati.

    La prima volta che lo sguardo di Beril e Alain si incrociò, ci fu una forte attrazione da parte di entrambi. Li presentò il loro capo quando lei cominciò a lavorare per quell’azienda. Persino lui si accorse della scintilla che esplose tra loro due.

    Alain era lì, quella sera, davanti all’entrata, ad aspettare.

    Buonasera signorina Kart prese la sua mano e la baciò. Posso avere l’onore?

    Sorridendo, Beril prese a braccetto il suo cavaliere, facendosi accompagnare. Un sogno per Beril, un sogno per Alain.

    I due ragazzi si diressero verso l’ascensore, Alain premette il pulsante, si girò verso Beril e sorridendo le chiese: Nessun coprifuoco stasera? Te lo chiedo perché ti premetto che sarà una serata molto lunga. Carlo è già bello alticcio, il boss poco fa ballava sul tavolo, Giuditta si dimena che sembra abbia il diavolo in corpo.

    Beril rise. Lei li amava, non poteva fare a meno di loro. Erano la sua quotidianità, con loro condivideva la sua vita, le piccole e le grandi gioie, a volte anche le tristezze.

    Entrarono nell’ascensore e Alain le chiese cosa avrebbe fatto durante le prossime feste.

    Niente di speciale, starò a casa con papà, credo…

    La mia famiglia possiede una casa sul lago di Garda, d’inverno è un incanto. Passa queste vacanze con me, ci saranno i miei, i miei cugini, gli zii e anche amici di famiglia. Mi dispiacerebbe saperti da sola.

    Non fece in tempo a ribattere che lui continuò, come se le avesse letto nel pensiero: Tuo padre non lo lascerai da solo, è invitato anche lui.

    Alain aveva avuto modo di conoscerlo, suo padre. Una mattina aveva suonato alla porta di casa sua.

    Beril aveva dormito a casa di Alain, ospitata perché aveva litigato con Artar la sera prima. Si strinsero la mano, il padre di lei rubò molte informazioni da Alain con quel gesto.

    Sapeva ed era rincuorato dal fatto che erano solo amici, per il momento. Ma l’amore che lui provava per lei, il senso di protezione di quel mortale verso la figlioccia, era forte. Incredibilmente travolgente.

    Artar pensò di poter usare la cosa a suo vantaggio, ma non poteva permettersi che Beril perdesse la testa per lui.

    L’ascensore si aprì e davanti si trovarono Giuditta con una bottiglia di rum in mano, ridendo, le urlò: Era ora! Ma dov’eri finita? Qua si fa sul serio!

    La musica era alta, Alain si dovette avvicinare all’orecchio di Beril: Ne riparleremo, ora vedrai che delirio! Ah, dimenticavo, non accetterò un no disse sfoderando il suo sensuale sorriso.

    Beril si sciolse. Come poteva riuscire ancora a rifiutarlo?

    Varcarono l’ingresso degli uffici, proseguirono verso il salone principale, dove Beril cominciò a salutare i suoi colleghi. Lei era felice, quest’atmosfera di spensieratezza e divertimento le piaceva.

    Dalla sua pochette sentì la vibrazione del telefono, un messaggio: «È tutto ok?»

    Beril rispose: «Sì, è tutto ok.»

    Non avrebbe mai preteso che quella sera avrebbe potuto esimersi dal tenere il telefono sott’occhio. Era già tanto che Artar l’avesse lasciata andare senza darle un coprifuoco. Beril pensava che alla fine si fosse rassegnato, se l’erano sempre cavata egregiamente. Anche se nel 1969, a Sidney, Artar disse che sulle loro tracce c’erano i Sioni, creature molto simili all’uomo, ma con quattro braccia, molto forti a suo dire. Dovettero abbandonare la loro vecchia casa, darle fuoco per non lasciare traccia alcuna. Beril in quel periodo non aveva amici, era molto attaccata a oggetti e vari lavori in cui si prodigava per passione, per ingannare il tempo. Ma questa era un’altra storia e Beril non le dava più peso da tempo.

    Si avvicinò a lei il boss, il suo meraviglioso capo.

    Beril, era ora dolcezza!

    Si diedero due baci e un forte abbraccio.

    Beril, tesoro, come stai?

    Bene, grazie. Tu come stai? rispose sorridendo.

    Meravigliosamente bene… ma tu sei radiosa!

    Le sorrise e alzò lo sguardo verso Alain, sorridendo anche a lui. Perfino il boss tifava per loro, c’era intesa, passione, pure un cieco avrebbe potuto vederlo.

    Mettiamo subito le cose in chiaro: regola numero uno, stasera non si parla di lavoro. La seconda è che vi dovete divertire, vietati i musi lunghi. La terza è che dovete festeggiare come se non ci fosse un domani.

    Ma un domani c’era. E quel domani non era quello previsto da tutti loro.

    Risero alle sue parole, la sua voce era leggermente alterata dall’alcol, era fantastico vedere un uomo tutto d’un pezzo per una sera spogliato dalle responsabilità dell’azienda.

    Beril si sentiva benissimo, un po’ agitata forse dal pensiero che Alain avrebbe potuto dirle qualcosa di più intimo, una dichiarazione, un bacio, o qualsiasi altra cosa.

    ***

    La serata trascorreva serena, erano in cerchio a raccontarsi storie divertenti tra di loro, Giuditta, Carlo, Paolo, Ambra, Davide, Beril e Alain, quando quest’ultimo, approfittando della distrazione degli altri cinque, prese Beril per mano.

    Vieni con me.

    Alain afferrò dal tavolo due flûte, mentre guidava Beril, tenendola per mano, sulla terrazza alla fine del salone.

    Pensava fosse meraviglioso quel momento, su quella terrazza in pietra, con la temperatura stranamente così tiepida. Alain la trasportò davanti al parapetto, le porse un bicchiere e la invitò a brindare.

    Beril, questo brindisi è per noi, per i nostri sogni, che si possano avverare e ci rendano sempre felici.

    Avvicinarono i bicchieri facendoli tintinnare al contatto, bevvero un sorso. Beril era muta, non sapeva cosa dire, ma si godeva il momento.

    Appoggiarono le flûtes sul parapetto, Alain l’abbracciò stringendola al suo petto senza mollare la presa.

    Beril sono stato zitto fino a ora, ma non posso continuare. Ormai è un anno che ci conosciamo, ho cercato di avvicinarmi ma forse ho insistito troppo poco, sento di doverti spiegare tutto, lo farò con poche parole. Voglio stare con te, mi piaci, non desidero altro.

    Beril si sentì il cuore in gola, le gambe le cedevano, l’aria le mancò per qualche istante.

    Alain se ne accorse, ma continuò: È un grande sentimento quello che provo. Ho bisogno di approfondire, ho bisogno di te. Sento che per te è la stessa cosa Beril. Lasciati andare, fidati di me.

    Alain la strinse ancora più forte. Beril era dolcemente impietrita dalle sue parole, dal suo profumo, dal suo calore. Ci fu un lungo silenzio prima che lei riuscisse a emettere il primo suono. Stava bene lì, nella sua morsa, con la testa appoggiata al suo petto, sentiva il suo cuore battere all’impazzata, doveva aver preso tutto il coraggio che aveva in corpo per poterle dire quelle cose.

    Alain, non so cosa dire.

    Non dire nulla, baciami.

    Beril pensò in quel momento che il suo cuore stesse battendo cento volte più forte rispetto al suo, se lo sentiva esplodere. Aveva desiderato quel momento così tanto che non credeva nemmeno fosse reale.

    Nello stesso istante, si ripeteva di andarsene, di dirgli di no, chiedendogli di rimanere solo amici perché lei non poteva, non voleva avere di più.

    Beril, tanto coraggiosa, si fece intimidire da una cosa così piccola ma pericolosa; in quel momento rimase completamente disarmata.

    Mille pensieri passarono per la sua testa nell’arco di pochi secondi che le sembrarono ore. Alzò la testa dal suo petto, lo guardò dritto negli occhi, si avvicinarono col viso entrambi, fino a far sfiorare le labbra. Le gambe le tremavano. Un brivido, una scossa la pervase dalla testa alla punta dei piedi poi un giramento di testa tanto che l’aria le venne a mancare.

    All’improvviso ci fu un boato, una forte luce e una scossa di terremoto che risvegliò all’istante i sensi di entrambi.

    Beril, stai bene?

    Beril annuì, ma il suo sesto senso si accese subito. Pensò di guardare il telefono, era tanto che non sentiva Artar. Un’ora, forse anche due.

    Prese il cellulare dalla pochette e vide le dodici chiamate perse di Artar.

    Maledizione, dodici! pensò.

    C’erano tre messaggi, i primi due erano i soliti, ma il terzo la inquietò.

    «Scappa, nasconditi, guarda il cielo e scappa più forte che puoi nella direzione opposta alle saette.»

    Alain lesse subito sul viso della ragazza che qualcosa aveva cambiato il suo stato d’animo, la prese per mano, chiedendole ancora se andasse tutto bene.

    Alain perdonami, devo andare.

    Ti accompagno.

    Non è possibile, mi spiace Alain.

    Beril era cambiata, temeva il peggio per Alain. Lui capì che ci fosse altro, era sempre così misteriosa e furtiva. Ma non si sarebbe mai immaginato cosa potesse essere lei, cosa potesse nascondersi dietro a una ragazza così bella.

    Si era creato scompiglio dentro al salone, il terremoto aveva creato panico, così la gente dai palazzi aveva cominciato a riversarsi per le strade.

    Beril doveva andare, subito.

    Non c’era posto per Alain.

    In quel momento fu tutto chiaro per lei. La paura, anzi il terrore, portò subito le sue conclusioni.

    Artar aveva ragione.

    Non c’era spazio nelle loro vite per i mortali, per i sentimenti che ne conseguono.

    3.1 - L’ADDIO

    Artar quella sera era particolarmente preoccupato, nonostante tutto lasciò andare Beril.

    Pensava fosse ora che crescesse, lui era consapevole che non potesse stare per sempre sotto la sua ala.

    Era arrivata l’ora, lei aveva un destino da compiere. Lui troppo a lungo lo aveva ritardato.

    Decise di andare sul tetto del palazzo a meditare, pur sapendo che non poteva consultarsi con le stelle, a causa delle nuvole. Se c’era una cosa che piaceva a entrambi, era salire sui palazzi più alti, osservare dalla cima tutto quello che li circondava.

    Lui, un uomo dalle origini antiche, ma che su per giù poteva dimostrare quaranta anni al massimo, così introverso che dopo tutti i decenni passati con Beril, ancora riusciva a essere vago circa le origini di entrambi. Era convinto che se lei avesse saputo la verità, non l’avrebbe più trattenuta, ed era troppo giovane per poter controllare la sua energia. Un fardello pesantissimo, ma necessario.

    Beril era appena una neonata quando gli fu consegnata, quando fece il Divino Giuramento al padre di lei, dichiarando che l’avrebbe cresciuta e protetta fino alla morte.

    E il Divino Giuramento era questo, non è una semplice promessa, ma rispettare quanto detto fino a che la morte non fosse sopraggiunta.

    Nel caso il Giuramento non fosse stato rispettato, al traditore sarebbe spettata la morte ed eterne persecuzioni nel Mondo dei non più vivi.

    Ma Artar giurò al suo Imperatore per suo volere, per il rispetto che nutriva verso il suo Sovrano e il suo popolo. Giurò perché era la via per la salvezza di tutti.

    Beril non aveva risposto al suo secondo messaggio, provò con un altro. Tenne il telefono in mano, aspettando una risposta che non arrivava.

    Il cielo era ancora più cupo rispetto a prima, Artar alzò lo sguardo, il tempo di vedere qualche fulmine e cominciò a piovere.

    Si chinò su una gamba, la meditazione divenne una preghiera, non si sa verso cosa o chi, ma sperava sempre di essere assistito e protetto da una buona sorte.

    Qualcosa stava mutando, l’aria divenne pesante, un forte odore metallico pervase le sue narici. La pioggia batteva incessante e violenta, gelida e pungente.

    Artar non sentiva più nulla se non un assordante silenzio provenire alle sue spalle.

    Rimase immobile per un istante ancora, non sapeva cosa si celasse dietro quell’assenza di suono. Con uno scatto si girò, mentre con la mano sfiorava il suo bracciale al polso sinistro, per poter indossare all’istante la sua armatura. Si materializzò su di lui, come una magia. Placche bianche gli ricoprivano il corpo, schinieri, cosciali, una lucente piastra frontale sul petto e un elmo scintillante con un’applicazione d’oro sulla parte della fronte, una V.

    Le spalle erano protette, come gli avambracci, da dove uscivano degli spuntoni affilati, sembravano le pinne dorsali di uno squalo.

    Si trovò davanti tre alte figure, strani umanoidi fatti di metallo e pietra, fusi tra loro. Alti due metri ognuno o poco più, e indossavano parti di armatura quasi messe addosso a casaccio. I loro occhi erano giallognoli, orripilanti, cattivi.

    Cosa volete?

    Artar udì un ghigno da parte di uno dei tre.

    Dacci quello per cui rischi la tua vita, e noi risparmieremo voi custodi con tono deciso, cupo, l’umanoide al centro lo sfidava, puntando la sua arma verso di lui, una lancia con la punta ancora sporca di sangue.

    L’artefatto è andato perso nei viaggi decine di anni fa, si dice che si sia spento, noi non ne siamo più i custodi Artar sudava freddo, voleva prendere tempo, soprattutto doveva scoprire se altri di loro sarebbero andati anche da lei, Beril.

    Non è la risposta giusta, custode con un movimento della testa ordinò ai due compagni di attaccarlo.

    Così fecero.

    Avevano un’arma a distanza, la puntarono verso lui. Un raggio violaceo colpì Artar che, coprendosi con il braccio destro, creò uno scudo fatto di luce, non permettendo al nemico di danneggiarlo.

    Artar, con lo scudo aperto, calò sul suo viso una visiera nera, sigillando il suo elmo, cominciando ad avanzare con cautela verso di loro.

    Allungò il braccio destro verso l’esterno rispetto al suo busto, aprì un attimo il palmo della mano, e, chiudendolo, evocò la sua spada.

    L’avanzata divenne una corsa, saltò verso quello di sinistra, tagliando prima la sua arma, poi la sua testa, il suo corpo si vaporizzò e divenne cenere. Si girò su se stesso, con un altro balzo calciò quello con cui aveva parlato, spezzò a metà l’altro con l’arma e colpì nuovamente, ma stavolta con la spada, il primo. I corpi, tramutati in cenere all’istante, se li portò via la pioggia.

    Artar sembrava non conoscere quegli esseri, non aveva mai visto nulla di simile, si chiedeva chi fossero.

    Beril!

    Doveva andare a prenderla, doveva avvisarla. Prese il telefono e la chiamò diverse volte mentre correva giù per le scale, per raggiungere la sua auto.

    Entrato nel garage, scrisse il terzo messaggio a Beril, per poi continuare a chiamarla.

    Mentre partiva, cominciò a pensare al peggio, Beril, ti prego, rispondi!

    La sua paura era che fossero andati prima da lei.

    Milano era deserta, Artar sfrecciò con il suo SUV per le strade della città, doveva raggiungerla, trovarla, nasconderla, il prima possibile. Aveva paura, tremava mentre cercava di risalire alla provenienza di quei tre individui. Ne aveva visti tanti di popoli, ma loro mai. Non erano estremamente forti o furbi, sembravano quasi guerrieri improvvisati data la facilità con cui se ne era sbarazzato.

    All’improvviso davanti a lui apparve un muro, forse ghiaccio o forse cristallo, non fece in tempo a frenare che si schiantò con la sua auto.

    Un boato assordante, il cofano dell’auto accartocciato, qualche lungo secondo di silenzio. Attorno alla scena si avvicinarono con cautela altri individui uguali a quelli di prima, con la guardia alta e le loro lance puntate in avanti.

    Il portellone dell’auto si aprì: Artar era illeso grazie alla sua armatura e al suo elmo.

    I suoi occhi divennero lattescenti, brillavano di una luce mai vista, come il suo corpo. Emanava un’energia che si poteva vedere a occhio nudo, si stava preparando a combattere. Si rese conto di essere accerchiato da decine di quegli individui, per quanto sembrassero sprovveduti, erano tanti, troppi.

    Senza aspettare una loro mossa, Artar prese la rincorsa e con la spada tra le mani si gettò nella mischia, cercando di ucciderne il più possibile. Ci riuscì inizialmente, avanzava roteando la sua spada, non risparmiando chi si trovasse davanti. Ogni volta che ne colpiva uno, si sentivano degli stridii e il leggero rumore del loro corpo che diventa polvere, uno dietro l’altro.

    Ne aveva fatti fuori già una decina, quando si sentì trafiggere la spalla destra, abbassò lo sguardo e vide la punta della lancia trapassargli la pelle.

    Erano troppi per lui solo, non poteva uscirne illeso.

    Artar si girò di scatto e ricambiò la cortesia; di nuovo, da dietro, lo colpirono. Vide la punta di una spada sbucare all’altezza dell’ombelico per poi vederla svanire di nuovo, sentendo tutte le imperfezioni della lama mentre il suo nemico gliela stava sfilando dalla carne.

    Artar percepì il sapore metallico del sangue nella sua bocca, ma non poteva finire così, doveva ancora mettere in salvo Beril.

    Cadde in ginocchio, allo stremo delle forze. I suoi aggressori si fermarono per un momento, con un passo laterale aprirono la via a uno di loro.

    Questo si avvicinò, ghignando, verso la sua preda, parlando con voce scura e rauca: Credo voi abbiate un disperato bisogno di dirmi dove troveremo quello per cui rischiate la vita.

    Non lo troverete qua, ma all’inferno!

    Con

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