L'Odore dell'India
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L'Odore dell'India - Pier Paolo Pasolini
6
INTRODUZIONE
Sono le prime ore della mia presenza in India, e io non so dominare la bestia assetata chiusa dentro di me, come in una gabbia. Persuado Moravia a fare almeno due passi fuori dall‘albergo, e respirare un po’ d’aria della prima notte indiana.
P.P.P.
Il 31 dicembre del 1960 Pier Paolo Pasolini parte con Alberto Moravia viaggiando per la prima volta in India. L’occasione è partecipare ad un convegno per la commemorazione del centenario della nascita di Tagore che si tiene a Mumbai, un soggiorno che durerà sei settimane. Moravia sarà inviato per conto del Corriere della sera
, Pasolini del Il Giorno
, il 16 gennaio saranno poi raggiunti da Elsa Morante. Pasolini rimarrà molto colpito da questo viaggio, tanto che nel 1968 girerà un documentario sull’India per conto della rubrica televisiva Tv7. Il documentario Appunti per un film sull’India
, in bianco e nero dove sono le immagini a parlare, spesso crude e violente, con la voce narrante di Pasolini che raccorda i vari fotogrammi della pellicola.
Da questo primo viaggio, Moravia raccoglierà i suoi articoli in Un’idea dell’India
, mentre Pasolini trascriverà le sue impressioni in questo piccolo volume, un diario di viaggio diventato con gli anni un vero e proprio libro di culto. Pasolini si aggira attento e curioso nella realtà caotica e affascinante del subcontinente indiano, osservando i gesti e le movenze della gente, seguendo i colori dei paesaggi e soprattutto l'odore della vita, «di poveri cibi e di cadavere che, in India, è come un continuo soffio potente che dà una specie di febbre».
I templi di Benares, le notti di Bombay, le rive del Gange, tutto l'incanto di una terra ammaliante, impenetrabile e, insieme, l'orrore dell'esistenza che vi si conduce ci vengono restituiti con l'originalità di visione di uno dei nostri più grandi scrittori. Pasolini approccia l’India da un punto di vista colto, ovviamente, ma anche emotivo: è la prima volta che vi si reca, anche se ha già visitato altre realtà del terzo mondo, e ne rimane travolto. Non ha paura di immergersi in quella che nelle guide di solito banalmente si chiama la vera India
: esce la sera, spesso da solo, a camminare, confrontandosi amichevolmente con le mille situazioni umane che incontra, mai sottraendosi al reale putrido e patetico di quel Paese. Si imbatte così in un’improvvisa chiacchierata con dei giovani senza dimora pronti a divorare gli avanzi di cibo gettati dal ristorante del suo albergo, nell’odore di poveri cibi e cadaveri, nei mille colori dei sari, nella solennità coloniale della Porta dell’India, nell’orrore ma anche nel fascino di certe morti sul fiume sacro, nelle centinaia di corpi dei mendicanti sporchi e vestiti di stracci che dormono per le vie della città, nelle brevi intense amicizie con ragazzini di strada che gli lasceranno il segno nel cuore. Poi torna in stanza, e scrive, riflette, approfondisce argomenti: parla di religione, borghesia, politica, cultura.
Sopra a tutto, comunque, Pasolini esprime pietà e compassione; l’aspetto che sempre sottolinea è la dolcezza, il sorriso docile e a volte rassegnato dei suoi abitanti, gli occhi ridenti.
CAPITOLO 1
Penoso stato di eccitazione all‘arrivo. La Porta dell’India. Spaccato, naturalmente fantasmagorico, di Bombay. Una enorme folla vestita di asciugamani. Moravia va a letto: mia esibizione di intrepidezza nell’avventurarmi nella notte indiana. La dolcezza di Sardar e di Sundar.
È quasi mezzanotte, al Taj Mahal c‘è l’aria di un mercato che chiude. Il grande albergo, uno dei più conosciuti del mondo, forato da una parte all’altra da corridoi e saloni altissimi (pare di girare nell’interno di un enorme strumento musicale) , è pieno solo di boys vestiti di bianco, e di portinai col turbante di gala, che aspettano il passaggio di equivoci tassì. Non è il caso, oh, non è il caso di andare a dormire, in quelle camere grandi come dormitori, piene di mobili di un mesto novecento ritardatario, con ventilatori che sembrano elicotteri.
Sono le prime ore della mia presenza in India, e io non so dominare la bestia assetata chiusa dentro di me, come in una gabbia. Persuado Moravia a fare almeno due passi fuori dall‘albergo, e respirare un po’ d’aria della prima notte indiana.
Così usciamo, sullo stretto lungomare che corre dietro l‘albergo, attraverso l’uscita secondaria. Il mare è pacifico, non dà segno di presenza. Lungo la spalletta che lo contiene, ci sono delle automobili in sosta e, vicino ad esse, quegli esseri favolosi, senza radici, senza senso, colmi di significati dubbi e inquietanti, dotati di un fascino potente, che sono i primi indiani di un’esperienza che vuol essere esclusiva come la mia.
Sono tutti dei mendicanti, o di quelle persone che vivono ai margini di un grande albergo, esperti della sua vita meccanica e segreta: hanno uno straccio bianco che gli avvolge i fianchi, un altro straccio sulle spalle, e, qualcuno, un altro straccio intorno al capo: sono quasi tutti neri di pelle, come negri, alcuni nerissimi.
C’è un gruppo sotto i portichetti del Taj Mahal, verso il mare, giovanotti e ragazzini: uno di essi è mutilato, con le membra come corrose, e sta disteso avvolto nei suoi stracci, come, anziché davanti a un albergo, fosse davanti a una chiesa. Gli altri attendono, silenziosi, pronti.
Non capisco ancora qual è la loro mansione, la loro speranza. Li sbircio appena, chiacchierando con Moravia, che è già stato qui ventiquattro anni fa, e conosce abbastanza il mondo per non essere nello stato penoso in cui mi trovo io.
Nel mare non c‘è una luce, un rumore: qui siamo quasi sulla punta di una lunga penisola, di un corno della baia che forma il porto di Bombay: il porto è in fondo. Sotto la piccola muraglia, ci sono solo delle grosse barche, rade e vuote. A poche decine di metri, contro il mare e il cielo estivi, si alza la Porta dell’India.
È una specie di arco di trionfo, con quattro grandi porte gotiche, di stile liberty abbastanza severo: la sua mole si disegna sull‘orlo dell’Oceano Indiano, come congiungendolo, visibilmente, con l’entroterra, che, subito lì, è un piazzale rotondo, con dei giardinetti bui, e delle costruzioni, tutte grandi, floreali, e un po’ sprecate come il Taj Mahal, d’un colore terreo e artificiale, tra rade lampade immobili nella pace dell’estate profonda.
Ancora ai margini di questa grande porta simbolica, altre figure da stampa europea del seicento: piccoli indiani, coi fianchi avvolti da un drappo bianco e, sui visi mori come la notte, il cerchio dello stretto turbante di stracci. Solo che, visti da vicino, questi stracci