Il viaggio meraviglioso: Romanzo Edizione 2020
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Il viaggio meraviglioso - Helios D'andrea
figli
1° Capitolo
Stavo guardando il canneto: si sente muovere sempre qualcosa lì dentro. Osservo la canna: è gialla con delle macchie brunastre. Frammenti di canna volteggiano quando la scuoto. Sento sempre dei rumori intorno a me. È difficile sentire il silenzio. Resto qui a guardare quel gruppo di canne. Oggi non voglio lavorare. Quando si vedono queste cose, anche una formica che cerca di arrampicarsi su un enorme sasso, si dimentica che cos’è la serenità. Sono minuti quei piccoli esseri e noi siamo... secondi. Resto ancora qui a guardare quei campi che non sono miei. Ma quando li guardo, sento che mi appartengono. Nessuno me li toglierà, almeno in questo istante.
Salgo su quella canna, sto cercando la mia strada e i miei compagni. Trasporto un pezzettino di mollica buttato da un bambino che ha oggi tanto pane. L’umidità non mi spaventa. Credo di arrivare alla cima. Da lassù vedo molte cose, anche la mia terra. Non c’è neanche un’anima viva per ora; mi conviene scendere. Alla base della mia canna sotterro il mio pezzettino di mollica, tanto mi servirà dopo. Mi piace passeggiare lungo quel sentiero tra i canneti, fino alla mia tana. Lì dentro non c’è molta roba: un materasso, due sedie, un tavolo o meglio un tronco cavo con due sgabelli sotto, un caminetto, bacinelle, pentole e piatti in terracotta, qualche straccio per cambiarmi, corde, attrezzi vari, un aratro, un carretto, tanta paglia, una mucca e un bue, galline e caprette, nient’altro. La tana più vicina è almeno a dieci chilometri. Per portare un pezzettino di farina mi ci vuole poco, ma dieci chilometri sono dieci chilometri. Ho un terreno piccolissimo: un po’ di grano, ortaggi vari, un albero di mele. Sono solo. Non ho età. Quando la luce è chiara, mi attardo a lavorare. Il mio pranzo è davvero piccolo come me: formaggio, ortaggi, latte, poco pane. Qualche volta un uovo, mai la carne. Mi disgusta uccidere quelle povere anime. Quando poi la terra si oscura, mi piace risalire sulla mia canna. Da lassù la terra è meno scura. Non ce la faccio a guardare, il cielo è troppo alto per me. Dimentico quanti giorni sono passati. Quando il vento scuote la mia canna, ho quasi paura e scendo subito.
Non lasciare la tua valle, quando tornerai non la troverai più come prima.
È tempo di andare in paese. Ci vado mal volentieri, ma devo farlo. Un po’ di rifornimento non fa mai male. Naturalmente a piedi e con un carretto. La gente non mi saluta più. Sono mesi che non mi vedono. Non conoscono il mio nome ma forse, io non ho un nome.
Mi fermo in trattoria: una birra, riso e fagioli, un po’ di verdura. C’è un quadro in quella sala che mi piace. È solo un tramonto ma mi piace. Il conto. Non ho molti soldi, allora do un po’ di grano alla donna che mi ha servito.
Non ho mica le galline, che ci faccio con questo? Se non hai i soldi perché non vai a lavorare?
Non ho riposto. Me ne sono andato. Ho detto che ripasserò. Quella donna ha messo le dita sulla ferita: Perché non vai a lavorare?
. Perché, quello che sto facendo, non è un lavoro? Se il lavoro non stanca, non è un lavoro, dicono qui, ma dico io, se il tuo lavoro ti dà un pezzo di pane, allora sì che è un lavoro. E poi io non mi stanco. Vado all’emporio e al consorzio
. Compro quello che mi serve: attrezzi, concime, mangime. Metto tutto sul carretto ma alle volte non ce n’è bisogno. In piazza c’è una bella fontanina. Mi faccio una bella bevuta. Davanti c’è una casa con la croce sopra. Ho detto: deve esserci molta gente morta lì dentro. Lascio il carretto fuori. Entro e ... nessuno! Statue, sedie, lucette. Bella quella lucetta là in fondo su quel grande tavolo bianco. Deve essere come il mio piccolo fuoco del caminetto. Me ne vado. Ritorno a casa. Forse ho imparato qualcosa. Soprattutto a sta-re zitto e a pagare tutti i debiti.
*
Quella notte stavo sognando. Mi arrampico sulle rocce, visito paesi lontani. Tutti mi sorridono e mi salutano. Mi sveglio subito.
È proprio un brutto sogno. Ripenso alle lucette, chissà perché?
È ancora notte ma preferisco alzarmi, non mi va di continuare quel sogno. Faccio un giro fuori. Non fa freddo e non ho più sonno. Le formiche non hanno sonno neanche loro.
Ce n’è una che mi fa pena! È sempre la stessa. Sbaglia sempre strada. La vedo perché anch’io ho una lucetta. Chissà come farà a ritrovare le compagne! Io non ho una compagna ma non ci penso. Ho la campagna e questa mi basta. Cerco di seguire la formica: guarda un po’, dove va! S’infila sotto la mia porta e prosegue diritta verso il caminetto. Forse sente freddo. Ritorno al letto e spengo la lucetta. Mi guardo attorno ma la lucetta c’è sempre. Ah! Ma è la formica che brucia nel caminetto! Un piccolo rogo. Suicidio politico? Chi lo sa! Forse non gli andava di caricare pacchi per tutta la vita, tutti i giorni. Si è stufata. Io non mi stufo. Se avessi avuto una corda, gliel’avrei lanciata ma ora è troppo tardi. I piedini sono ormai bruciati. Mi conviene dormire. Non ho un calendario. I giorni sono tutti uguali, anche se piove. Se avessi delle canne da zucchero mi farei certe spremute! Potrei invitare anche tutte le formiche ma il capo operaio mi ha detto che, per ordine dei sindacati, non è possibile la-sciare il lavoro neanche per mangiare. Si mangia e si lavora. Per me, o si lavora o si mangia. Né l’uno né l’altro.
Mi conviene dormire. Infatti faccio un altro sogno. Sto portando dei tronchi pesanti come tutti gli altri. Ad un tratto lascio cadere il tronco, che pesta la zampa dell’ammiraglio e vado verso la porta. Vado diritto verso il caminetto; là c’è una bella lucetta. Mi ci metto dentro e brucio. È proprio un bel sogno. Non mi conviene dormire. Queste lucette sono strane.
Stamattina non mi va di salire su una canna. Ho ripensato ai sorrisi della gente del paese: sono diversi dal mio. Loro mostrano i denti, soprattutto i canini, io mostro invece la lingua. A chi? Ma forse al canneto che mi sta davanti, al campiello oppure dietro ancora alla collinetta, al di là del mio sguardo. Guardo le mie mani: sono ancora in buono stato nonostante il lavoraccio. C’è la terra nelle unghie: quella che non si può togliere, sennò che contadino sono? Come quelli che al paese se ne vanno rivestiti ma con le unghie sporche. Se passa un ragazzino gli dico:
Dai, fammi divertire, che si racconta di me?
Lui mi guarda.
Dicono che sei finito come un fico secco.
Non ce l’ ho i fichi.
E rido: oggi non lavoro. Rimango qui tutto il giorno all'ombra, guardo il canneto. Attorno ci sono paludi e sempre paludi… e poi, dove si va? Non conosco altro.
Non so perché l'ho fatto, ma mi sono ritrovato di notte a camminare il più svelto possibile.
Dove vado? Non ho neanche l'acqua. Cerco di muovere il braccio per afferrare qualche ramo ma non ci riesco. Ad un tratto inciampo, cado su un corpo molle e bagnato. Gli occhi e il naso sporchi di terra, il viso ha delle macchie deformi. I vestiti sono strappati. Sembra morto da tempo. Non ho paura, ma non riesco a muovermi. Lui mi tocca e poi mi afferra. Urlo ma non serve a niente.
Preferisco allontanarmi da questa storia. Ho deciso. Stamattina vado a vendere qualcosa, ma ora c'è l'autobus che mi porta in paese. Sulle strade c'è la solita gente pigra dai cinquanta in su, passeggia, chiacchiera, beve un po' di vino di canna. Qualcuno mi guarda:
Ancora qui? Per quattro soldi, che ci fai con quella roba?
La persona che ora sta dettando i miei ricordi a chi scrive è rimasta perplessa quando ha sentito la frase nella lingua originaria. Comunque la mia fatidica risposta era stata tradotta più o meno in questo modo:
Devo vendere qualcosa altrimenti mi annoio.
Comunque stasera faccio un giro per il paese, tanto non vendo. Rovescio qualche vaso di fiori da quelle finestre così basse in quei vicoletti oscuri. Strappo qualche foglia dal ridicolo giardinetto attorno alla fontana. Bevo l'acqua fresca e aspetto la sera.
Ehi, oggi non vendi?
E che devo vendere?
Qui gli schiavi non ci sono più. Non ho più la roba, tanto io la produco. Intanto l'acqua della fontana ha fatto amicizia con il tramonto del sole. Loro non hanno bisogno di me.
Stanotte ho fatto un bel sogno. Sognavo di non riuscire a dormire. Sì… perché quelli che sognano di dormire restano svegli mentre io dormo. E che faccio? Mi metto davanti alla formica che ha tentato il suicidio e le dico:
Quanto vuoi per non farlo?
Solo un po' di grano.
Allora va bene, tu sì che ti accontenti di molto. Le formiche dicono di non accettare, che è un ricatto. Ci sono molte parole dopo il