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Robot 87
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Robot 87

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rivista (234 pagine) - Racconti di Brooke Bolander - Phenderson Djèlí Clark - Francesca Caldiani - Alain Voudì - Paolo Aresi - Ernesto Setti - Articoli su Ucronie - SF e mainstream - L.R. Johannis - Game of Thrones


Ricorre il cinquantennale dello sbarco sulla Luna e Robot ripropone un articolo del suo fondatore Vittorio Curtoni, corredato dai commenti di alcuni “grandi” della fantascienza. Cosa è cambiato da allora? La Terra che gli astronauti contemplavano dalla superficie lunare in una prospettiva totalmente nuova è migliore o peggiore? Forse la risposta, almeno per chi scrive fs, dipende dal grado di ottimismo di cui si è capaci. Così, pur senza ignorare i tanti problemi ancora irrisolti, per Paolo Aresi ciò che conta è l’anelito dell’uomo a osare, a raggiungere frontiere sempre nuove. Decisamente pessimista è l’approccio della talentuosa Brooke Bolander, con la sua visione di un pianeta reso inabitabile senza nemmeno la possibilità di emigrare (ma c’è chi lo farà per noi). Un mondo dove gli interessi economici hanno più valore delle vite umane, come nel racconto di Francesca Caldiani; dove la segregazione razziale è cosa dell’altro ieri, come ci ricorda, pur con tono lieve, Phenderson Djèlí Clark; un mondo in cui persino i rapporti familiari sono impossibili, tanto che andarsene rimane l’unica strada, come ci narra Alain Voudì. Un mondo dove continuare a fare ciò in cui si crede quando tutto ti crolla addosso è forse l’unica soluzione, come in Fine turno di Ernesto Setti.


Fondata da Vittorio Curtoni, Robot è una delle riviste di fantascienza italiane più rpestigiose, vincitrice di un premio Europa e numerosi premi Italia. Dal 2011 è curata da Silvio Sosio.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateJul 16, 2019
ISBN9788825409598
Robot 87

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    Robot 87 - Silvio Sosio

    Stop

    EDITORIALE

    Quelli rimasti fuori da Omelas

    Silvio Sosio

    Daniela osservava, dal balcone, il corteo di auto che entrava in Città. Erano giorni ormai che continuava, ma nelle ultime ore si stava riducendo. Dal suo balcone, all’ultimo piano, Daniela poteva vedere la distesa al di là delle mura, illuminata dalla luce fredda dei fari alogeni. Si era assiepata una piccola folla di curiosi, o più esattamente di invidiosi. Quelli che sarebbero rimasti fuori.

    Tra le auto ogni tanto c’era un camion, di quelli dei traslochi, ma pochi avevano sentito il bisogno di portarsi dietro i propri averi: la Sovrana S.p.A. aveva promesso una nuova casa fornita di tutto, ogni necessità e ogni comfort. Le auto entravano nel grande portone, largo come la strada, ai cui lati il grande muro che circondava la Città incombeva minaccioso su quelli rimasti fuori, alto oltre quindici metri. Daniela si chiese con quanta invidia dovessero osservare lo spettacolo di migliaia, decine di migliaia, forse anche più di un milione di persone che andava a vivere un sogno: una Città abitata da sole persone per bene.

    Al pensiero trasse un sospiro di soddisfazione. Niente immigrati, niente straccioni, niente islamici, niente ebrei, niente atei! Come ti saresti potuto fidare di uno senza dio? Niente zecche rosse – la domanda di ammissione era vagliata molto attentamente, con verifiche su ogni documento pubblico ma anche sulla digital footprint – e anche nessuno che avesse mai fatto volontariato in ONG, ONLUS o altri enti eversivi. Niente meridionali, se non decisamente benestanti e di provata fede. Niente femministe, niente intellettuali. Solo persone per bene.

    E nessun imbucato. Lei stessa aveva provveduto proprio il giorno prima a individuare una famiglia che non aveva diritto di restare. La donna, tale Calabresi, una che lavorava nella manutenzione, da giovane aveva scritto post su Facebook a favore dei traghettatori di immigrati nel Mediterraneo. Una persona così, priva di senso di identità nazionale, non poteva restare nella Città.

    La Città Italia. Era stata lei stessa a proporre questo nome, quando si erano riuniti per deciderlo, ancora prima della costruzione. Era stato un incontro tra poche persone: Amedeo Meda, il presidente della Sovrana S.p.A. che aveva proposto il progetto e l’avrebbe eseguito e finanziato, alcuni suoi colleghi politici, qualche ricco imprenditore. Erano tutti intorno a un tavolo, eccetto Meda ovviamente, che non usciva mai dalla sua residenza (si diceva avesse una grave forma di dermatosi che lo rendeva sensibile alla luce), e che si era collegato telefonicamente. La Sovrana aveva acquisito, anche grazie alla compiacenza politica, una vasta area disabitata in Sardegna, e in soli tre anni aveva costruito un enorme supercondominio di lusso.

    Delle urla in strada attirarono la sua attenzione. Si sporse dalla ringhiera per scorgerne l’origine: era la tizia che aveva sgamato lei, una tizia di cognome Calabresi. Dei miliziani del servizio d’ordine, omaccioni provenienti dai movimenti di estrema destra, la stavano scortando, insieme al marito e ai due marmocchi. La donna urlava, piangeva, sembrava disperata; il marito aveva la testa china ma almeno stava zitto. I due bambini si agitavano a malapena stretti dalla presa ferrea dei miliziani, che li trascinavano verso l’uscita.

    Daniela osservò la scena con un certo compiacimento, vide la donna dimenarsi fin quasi al portone della Città, poi scomparve alla sua vista, coperta dalle mura. Solo dopo qualche minuto la vide di nuovo, più in là, nella distesa al di fuori. Rimase perplessa però: la donna non appariva più disperata, lei e la sua famiglia si allontanavano di buon passo, senza mostrare esitazioni. Meglio così. Quattro di meno.

    Quando finalmente le ultime auto furono entrate ci fu improvvisamente silenzio. Non nella Città, dove continuava il trambusto della gente che stava prendendo possesso delle proprie case, ma fuori. La folla, che ora era molto più numerosa, si era improvvisamente acquietata. Tutti erano immobili, e apparentemente zitti, anche se forse Daniela, dalla sua terrazza, non avrebbe sentito se qualcuno avesse detto qualcosa.

    Sulla strada che conduceva alla Città si stava avvicinando un’automobile, tra due pulmini militari. Daniela strinse gli occhi togliendosi gli occhiali scuri per vedere meglio: era un’auto molto grande, nera, una di quelle limousine blindate. Poteva essere finalmente lui? Quando l’auto fu più vicina potè scorgere le insegne sui pulmini: era il marchio della Sovrana S.p.A., un’aquila bianca con un’ala verde e una rossa, che sorgeva da una fiamma. No, non era un’aquila, era una fenice, così le aveva detto qualcuno. Un uccello, comunque. Allora sì, era davvero lui!

    Amedeo Meda, il leggendario fondatore di Città Italia. «Arriverò per ultimo alla nostra Città, e il mio arrivo sancirà la fine dei nostri problemi. Finalmente la gente per bene potrà essere libera, non dovrà più sopportare la presenza di chi non rispetta i nostri valori, la nostra identità, il nostro popolo, le nostre tradizioni. Il nostro dio.» Così aveva detto Meda, Daniela ricordava quella frase, pronunciata in conferenza telefonica e poi riportata in rete e sui notiziari qualche giorno dopo. Aveva fatto scalpore, c’era chi lo aveva insultato, naturalmente. A lei era rimasta impressa perché così bene la rappresentava, così bene diceva quello che avrebbe sempre voluto dire. Daniela pensò che forse avrebbe dovuto scendere in strada a dargli il benvenuto, anche se probabilmente lui non sarebbe mai sceso dall’auto, e stava già per avviarsi quando con la coda dell’occhio vide qualcosa che non si aspettava.

    Il convoglio di Meda si era fermato. Ma era ancora fuori dalla Città.

    Passarono due minuti. Due lunghissimi minuti. Ora la tensione era palpabile, se ne stavano rendendo conto anche dentro la Città, dove il rumore era cessato. Squadre di miliziani stavano correndo verso il portone, per essere pronti a ogni evenienza. Se la folla avesse dato segno di voler sfondare ed entrare a forza, il portone sarebbe stato chiuso immediatamente.

    Poi la portiera dell’auto si aprì. Ne uscì l’autista, si spostò sulla destra dell’auto e andò ad aprire la portiera posteriore, facendosi da parte.

    Amedeo Meda uscì dall’auto.

    Daniela sbiancò. La sorpresa di vedere quell’uomo che nessuno aveva mai visto di persona fu nulla rispetto a quella che provò quando lo vide meglio.

    Amedeo Meda era un negro.

    Cosa significava? Amedeo… Am… Ahmed! Che il suo vero nome fosse Ahmed? A questo punto tutto era possibile.

    La folla rumoreggiò, in un urlo di acclamazione. Meda alzò le braccia al cielo, e l’urlo della moltitudine che gli rispose fu terrificante. Le milizie uscirono dal portone per formare una barriera contro un eventuale assalto della folla, mentre le due grandi porte di acciaio cominciavano a chiudersi. In quel momento di confusione un pensiero assurdo passò nella testa Daniela: il portone di apriva verso l’esterno, non verso l’interno. Più sicuro in caso fosse stato necessario fuggire dalla Città, certo, quella era stata la spiegazione. Ora però vedendolo chiudersi le appariva strano.

    Altri veicoli comparvero sulla strada. Grossi camion. La folla ora urlava slogan incomprensibili. Striscioni e bandiere cominciarono ad apparire, quelli che lei aveva sperato di non dover vedere più: rosse, arcobaleno, viola, verdi, azzurre cerchiate di stelle. I camion avanzavano a velocità sostenuta verso la Città, ma ormai il portone era quasi chiuso, i miliziani erano tutti rientrati. Se i camion avessero tentato di sfondare il portone, avrebbe retto? Così le avevano assicurato, ricordò. Ma era terrorizzata lo stesso.

    I camion si fermarono. Fecero manovra, e a uno a uno scaricarono tonnellate di pietre e di cemento davanti alla porta di Città Italia, mentre la folla rimasta fuori ululava con cori da stadio.

    Ah, pensò Daniela tranquillizzata. Vi siete fregati con le vostre mani. Così non riuscirete mai più a entrare.

    Illustrazione di Luca Vergerio

    NARRATIVA

    Se non si rompe non si vola

    Brooke Bolander

    Traduzione di Marco Crosa

    Brooke Bolander è americana ma ha studiato storia e archeologia in Inghilterra, all’Università di Leicester. Come tanti autori emersi negli ultimi anni, è una diplomata del Clarion Workshop, che ha frequentato nel 2011. Suoi racconti sono apparsi, tra gli altri, su Lightspeed, Uncanny Magazine e Strange Horizons; è stata già più volte finalista allo Hugo e al Nebula, finendo per vincere quest’ultimo nel 2018 con il racconto lungo The Only Harmless Great Thing, che sarà compreso nella sua prima antologia, di prossima pubblicazione. Nella storia tutta al femminile che qui presentiamo, dello stesso anno, Bolander, oltre a esibire notevoli doti di scrittura, mostra di aver imparato la lezione di Ursula Le Guin. (FL)

    Fingi di essere la terra. Fingi di essere un luogo molto lontano, l’ultima rigogliosa V di verde e oro e roccia squadrata prima che mare e cielo striscino a sud senza controllo per tremila solitarie battute d’ala disterna. Una volta le acque salivano a tagliarti fuori dal tuo continente madre, generando una migliore indipendenza tramite l’annegamento. Un giorno, presto, quando i ghiacci al di là dell’oceano si trasformeranno in onde affamate, tutto il resto le seguirà, scivolando sotto una superficie oleosa tiepida e vuota come la stretta di mano di un imbalsamatore.

    Questo però non ci interessa… ancora. Tu sei la terra, e oggi sei qui per assistere a una storia lunga quattro milioni di anni mentre lei chiude gli occhi per l’ultima volta, fianchi striati che si alzano e si abbassano sempre più lentamente, mano a mano che l’entropia inalbera l’ennesimo, lacero vessillo di vittoria.

    Thylacinus: dal greco thýlakos, che significa tasca o sacca. L’hai creata a tua immagine, una bestia unica né lupo né tigre, ma con una propria singolarità striata. Nessuno allo zoo è qualificato per definire il sesso di una simile creatura. La chiamano Benjamin, perché le loro corte mandibole da scimmie onnivore non sarebbero equipaggiate per pronunciare il suo vero nome nemmeno se qualcuno avesse mai pensato di chiederlo.

    La gabbia è molto calda. Non c’è ombra. Quando cala la notte non vi sarà riparo dal freddo fuori stagione. Lei cammina e ansima, la sua ombra scrive con grafia angolosa il futuro sul cemento. Dietro la rete metallica da pollaio sbirciano facce inespressive, incapaci di decifrare l’avvertimento nel suo trotto, la vetrosità del suo sguardo fisso.

    Ma tu sei la terra e leggi il messaggio forte e chiaro: una missiva dal luogo tra l’essere e il non essere; un segnale dallo spazio tra l’ultimo respiro e ciò che viene dopo.

    Zietta Ben stende il fondotinta sulle sue strisce ogni mattina. Gli ultimi vicini se ne sono andati anni fa e le uniche persone rimaste a farle visita sono Martha e Doris e Linnea, ma zietta Ben ha le sue abitudini. Alla fine l’unico senso che devi avere, dice a Linnea, è per te stessa. E perciò: piccole spennellate delicate lungo la flessuosa linea scura della mandibola, risalendo gli zigomi aguzzi come coltelli da impagliatore e su fino alla fronte, dove il pelo color sabbia sporca penzolacascante, stoffa su filo spinato. Nessuno sa dove ha trovato il fondotinta. Nessuno lo chiede. Forse era già lì quando le tre sono arrivate, come la toletta e i tre letti e la stessa fattoria gialla.

    – Tutti i mammiferi hanno le strisce – dice lei. – Persino tu. L’ha scoperto un tizio di nome Blaschko. In qualche momento della storia la vostra gente se l’è tolte con la stessa facilità con cui io mi posso spellare, le ha sepolte nell’entroterra in una scatola di sigari. Se trovassi la scatolaci scoprirestidentro le vostre strisce, sicuro come le pulci e il sangue fresco.

    Linnea chiede a Doris se è vero. Doris è robusta e allegra, e delle tre ziette è quella più incline a dare rispostevere. Lei cucina, rigoverna, guida il camioncino fino a quella che di questi tempi passa per una cittadina per fare provviste. Non lavora alla nave. Le manca l’immaginazione, dice; non è mai stata brava a volare, del resto. Il bauletto in cedro ai piedi del suo letto rimane il più delle volte chiuso.

    – Con Benny non si può mai dire – dice lei, grattandosi il naso piatto, rotondo e affusolato. – È sempre stata una lettrice, lei. A me non sembra che dovresti avere le strisce, però. Gli umani hanno forme e taglie di ogni tipo(e la maggior parte sono pelosi o affamati, tremendamente affamati; come fanno esseri così magrolini a ingozzarsi tanto?) ma non credo di averne mai visto uno con le strisce. D’altro canto, non è che ce ne siano più così tanti da poterli studiare, a parte te, piccolo pulcino.

    Lei non si dà nemmeno la pena di salire sul tetto per chiederlo a zietta Martha, che se ne sta lì a fissare tristemente un cielo vuoto che sbiadisce nel bronzo e nel viola come la sua pelliccia. Invece, Linnea si avventura dentro e si ferma davanti allo specchio della toletta, cercando strisce invisibili. La luce che filtra dalle tende della camera da letto è di un giallo slavato, come carta o pelle conservata alla fine di una lunga giornata afosa.

    Non dicono mai come sono finite insieme, le tre ziette di Linnea, o da dove venivano prima di trovarla, nutrirla e portarla a casa, un’orfana fortunata tra le sudicie centinaia sul ciglio della strada. Lei non ricorda altre facce prima delle loro. C’era una stazione di servizio con le finestre sfondate. C’era una macchia piena di graffi nel terriccio sotto le vecchie pompe dove lei dormiva di notte. C’erano unto di patatine, capelli arruffati e ogni tanto una tempesta di sabbia. Al di là di quello, la memoria di Linnea è come un teschio completamente scarnificato: scuotilo e da dentro sentirai un fruscio di foglie.

    Va bene così. Ora va bene. Ai Vecchi Tempi probabilmente le cose non andavano tanto bene. E per quanto riguarda ciò che attende in futuro… No. Linnea tiene quella solitudine saldamente chiusa come il petto di qualsiasi zietta. Ora va bene; il resto non conta.

    I Figli della Fine sono strani compagni, dice sempre zietta Ben mentremartella lastre di latta arrugginita in cima alla scaletta di corda malconcia. Legata sulla fronte ha una bandana rossa ormai sbiadita nel colore di gengive scoperte. La sua tuta da lavoro è talmente rattoppata e coperta di pezze tutte storte (Doris fa del suo meglio, ma ha le dita troppo tozze e forti e i suoi occhi ci vedono troppo poco per non rovinare un lavoro così delicato) che sembrauna trapunta gettata alla meglio sul suo lungo corpo affusolato. Tiene tutti gli attrezzi in unmarsupio di denim sulla pancia, seghe e chiodi e una foresta fantasma di stuzzicadenti che continuano a cadere e sparpagliarsi sul terreno polveroso molto più in basso. Zietta Ben ha un sacco di denti da tenere puliti. Quando c’erano ancora ossa fresche da rosicchiare, dice malinconica, non c’era bisogno di stuzzicadenti.

    – Piedi di vombato – dice. – Quelli facevano sempre il lavoro migliore. Ossicini minuscoli, ma robusti. – Un sospiro, una scrollata del capo. Poi torna a saldare una giunzione, gli occhiali protettivi prudentemente abbassati, la mandibola impossibile fermamente serrata.

    Zietta Martha per lo più disegna carte stellari, seduta con carta e penna sulla sommità della fattoria. Ogni tanto canta. La sua voce è roca e dura e le parole non hanno senso alle orecchie di Linnea: infinite ripetizioni dello stesso suono che si susseguono senza melodia, kiho kiho kiho ki! Ogni tanto piega il collo dopo aver cantato, quasi come in attesa di una risposta. Ma nulla lancia mai un richiamo di ritorno. Solo il cigolio del mulino a vento, lo sbattere della porta a zanzariera, il bang-bang-bang-bang del martello di zietta Ben che fa a pezzi la calma purpurea del crepuscolo come un uovo deposto senza cura.

    Fingi di essere il cielo. Fingi di essere un cielo color pesca tenue e ardesia polverosa come un’ala di colomba, protettivamente ripiegatosu campi scuriti di frumento e città dove luci gialle ammiccano come lucciole scrupolose. Un giorno, presto, avvizzirai e prenderai fuoco. Quei comignoli appena spuntati all’orizzonte scivoleranno sotto le piume, la pelle e il muscolo subclaviale con una letale precisione ipodermica, un carico utile d’ittero iniettato con un rutto e unavoluta, e il risultante accumulo di tossine garantirà che nulla di più grosso di un moscerino oscuri mai più il tuo orizzonte. La tua rovina soffocherà il mondo, un uccello morto rannicchiato sopra un nido vuoto.

    Presto, ma non oggi. Oggi sei pieno di vita: folaga e civetta, zanzarone e pipistrello. Essi conoscono gli spazi tra le stelle. Persino quelli rinchiusi nelle gabbie e nelle casse percepiscono il movimento della ruota, stagioni che sgomitano in metropolitana.Devoandar via, dicono alle sbarre e ai lucchetti, al freddo ferro che toglie il respiro alle loro ossa cave. Sono stato bene qui, ma la primavera non aspetta nessuno e devo proprio insistere…

    Anche quando tutti gli altri se ne sono andati, milioni spazzati via dal tuo petto e tornati sotto forma di fumo, lei sente l’attrazione e ti chiama. Ogni autunno da ventinove anni, fino al giorno esatto del suo infarto. I custodi dello zoo le appendono alla zampa come un messaggio di guerra il nome della moglie di un presidente morto, confidando nella familiarità, ma lei è ancora una Ectopistes migratorius, viaggiatrice di nome e di fatto.

    Lei sente il frullio di ali spettrali e si lancia contro il soffitto, cercando disperatamente di occupare il suo posto nel tuono. Il suo corpo vecchio e stanco ha il colore dei lividi.

    Arrivo, freme lei ancora e ancora. Aspettami! Io conosco la strada!

    – C’era una volta una gabbia – dice zietta Ben, seduta accanto al letto di Linnea – Ma adesso quella gabbia è tutta arrugginita e gli uomini che la costruirono sono ossa nella polvere, così secche che nemmeno un cucciolo di un anno dai fianchi ancora scuri si fermerebbe ad annusarle. Nessuno ricorda un accidente di quegli uomini. Nessuno ricorda i loro polli, le loro armi o la loro stupida gabbia col pavimento di cemento. Ma ricordano noi, mia piccola cangurina nuda, orgoglio dai denti aguzzi del mio marsupio. Eravamo belle e forti. Le nostre strisce lasciavano lunghe ombre nelle loro menti. Ne sono rimasti più che a sufficienza per ricordarsi di noi, ma chi rimarrà per ricordare la tua specie?

    – C’era una volta – dice zietta Doris – e, oh, fu tanto tempo fa, frutta fresca ed erba verde e i Ratti e i Cani che non erano ancora arrivati… c’erano i nidi! Nidi sul terreno, riesci a immaginarlo, sotto alberi che lasciavano cadere noci così vicine che non dovevi neanche allungare troppo il collo per prenderle. Deponevamo le uova dove ci pareva. Ma poi giunsero gli Uomini – sìsì, e i Ratti, e i Cani, quei terribili Cani sbavanti – e le armi facevano bau bau bau tutto il santo giorno. I nostri nidi e le nostre uova e i nostri bei corpi grassi, sminuiti fino a sparire.

    "Ma ora si ricordano di noi, dolce latte del mio campo? Benedetti siano il mio ventriglio e i miei artigli, lo fanno! Quegli uomini affamati hanno smesso di avere fame, oh, secoli fa, e le loro armi e i loro randelli sono marciti come piume fradicie di pioggia. Nessuno ricorda gran che di loro e delle loro pance gonfie, ma si ricordano il nostro nome, meglio che tu ci creda. Ne sono rimasti più che a sufficienza per rendere il nostro nome grasso e tondo, ma misericordia, chi rimarrà per ricordare la tua specie?

    – C’era una volta – dice zietta Martha, e la sua voce è così bassa che devi abbassare l’orecchio per udire le parole, un suono esitante molto più dolce del suo canto serale – noi, ed eravamo migliaia. Eravamo un milione. Eravamo molti e riempivamo il cielo con Noi Stessi. Volavamo dovunque ci pareva e dove volavamo era bello. Seguivamo le carte stellari, l’impulso nelle nostre teste che diceva Vieni qui! Vieni qui!

    "Ma le armi ci abbatterono, a migliaia e milioni e più. Perdemmo le stelle. Perdemmo noi stessi. Ma pensi, colombella del mio cuore, che loro potessero scordare il rumore di tante ali che oscuravano il sole? C’erano tantissime voci e ricordi da trasmettere su quel battito di un milione d’ali che era il nostro nome. E chi o cosa resterà per ricordare la tua specie, a languire senza ali che lo trasportino lontano…

    Zietta Martha scuote il capo.

    – Eravamo tanti anche noi, una volta – ripete, a stento un sussurro. – E mi dispiace davvero.

    Anche Linnea ha una voce, ma non la usa molto. L’interno della sua testa è un luogo sicuro, pieno di futuri che non si avvereranno mai fintanto che tiene le sue parole sotto chiave. Si aprono porte quando si dicono le cose. Non c’è modo di sapere cosa ne uscirà, o dove ti porteranno tra le loro fauci. A Linnea piace stare lì; non

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