Il calice della vendetta
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Il calice della vendetta - Giulia Torelli
GIULIA TORELLI
IL CALICE DELLA VENDETTA
ISBN | 9788831629997
Questo libro è stato realizzato con PAGE di Youcanprint
Youcanprint.it
La calma non è indifferenza,
ma è una conquista a cui dobbiamo giungere
quando non possiamo cambiare la realtà.
IL CALICE DELLA VENDETTA
di
Giulia Torelli
Youcanprint
Titolo | Il calice della vendetta
Autore | Giulia Torelli
ISBN | 978-88-31623-12-4
© Tutti i diritti riservati all'Autore
Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore tramite la piattaforma di selfpublishingYoucanprint e l'Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.
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Regno della Goride, Contea di Kendor A.D. 1277
Non c'era molta intenzionalità nelle cose che faceva, ora camminava più o meno consapevole della strada e assolutamente incurante del mondo che lo circondava. Appena ne aveva avuto la forza si era alzato, aveva preso un mantello di chissà chi ed era uscito dalla tenda per avviarsi tra gli alberi. Gli uomini lo avevano visto allontanarsi pensando che si spostasse forse per i suoi bisogni senza di certo pensare a una eventuale fuga: non si scappa da chi ti ha salvato la vita. Ma questo era un concetto compatibile solo con chi riteneva di averla una vita e non era quello che pensava Esteban Garmond che in quel momento era un automa che trascinava in giro il suo corpo privato di anima e cuore.
Davanti ai suoi occhi tornavano impietose le immagini della morte risucchiandogli le poche energie che aveva, lo teneva in vita solo un fugace bagliore di rabbia che ogni tanto emergeva dai suoi pensieri reclamando vendetta.. Era debole e indolenzito, era stato tenuto due giorni ai ceppi, senza acqua e senza cibo, semi svenuto per il colpo ricevuto in testa.
Ricordava che il tempo era dilatato e che aspettava impaziente di morire nei momenti in cui era lucido, poi fortunatamente per lui gli capitava di perdere i sensi.
Era stato incatenato sul margine della piazza della sua città a quello che restava di un grande albero, era seduto a terra e ogni volta che sveniva la sua testa cadeva sul tronco, infatti ne aveva i segni sul viso. Quando quegli uomini sconosciuti lo avevano liberato era svenuto nuovamente, rinvenendo si era trovato a pancia in giù, legato al cavallo per non cadere e senza la forza di sollevarsi. Era rimasto così fino a quando non venne sistemato su di una branda in una tenda provvisoria e precaria che era stata tirata su in pochi minuti, dove era rimasto al riparo per un po' dalla pioggia che da giorni non smetteva di intervallarsi al vento. Ora oscillava con passi incerti in quella nebbia, che pur essendo densa, era poca cosa al confronto della foschia che era dentro di lui e che si estendeva inclemente dalla mente al cuore facendo dell’uomo un soffio di essenza vivente il cui unico moto era il camminare in quella sua amata terra che ora era diventata ispida e malevola. Era malevola perché non lo ingoiava e si ostinava a tenerlo in vita avvolgendolo in un groviglio di dolore oscillante tra rabbia e disperazione.
Prologo
«Organizza il tuo domani, poi smetti di pensarci e goditi il tuo oggi.»
Sua madre, la contessa Ilenia era nota per la sua saggezza e aveva donato ad Esteban innumerevoli frasi che affioravano alla di lui mente al momento opportuno. Questa era una delle sue preferite di cui comprendeva la lucidità e che tentava di mettere in pratica. Proprio quella sera sembrava riuscisse a farlo perfettamente: si godeva il suo oggi.
Se glielo avessero chiesto si sarebbe di certo dichiarato l’uomo più fortunato del mondo, la vita, assistita dalla sua caparbietà, era stata generosa con lui, gli aveva dato la donna che amava con cui condividere la propria esistenza, poi gli aveva dato una figlia bellissima e quattro mesi prima aveva esaudito il suo ulteriore desiderio di un erede donandogli un figlio maschio.
Era da un po’ che avevano terminato la cena e si era in quel periodo all’inizio dell’autunno in cui di sera sopraggiunge il primo freddo, tant’è vero che aspettavano che arrivasse il domestico a cui avevano chiesto di portare della legna. La piccola Marzia era seduta sul tappeto e giocava con Kiro, un cucciolo di cane lupo che le era stato regalato da pochi giorni e dal quale era inseparabile. Il piccolo Rinaldo si era appena addormentato ed Esteban e Rachele si ragguagliavano sulla loro giornata come facevano solitamente ogni sera. Erano una bella coppia ed avevano la fortuna di sapersi raccontare con ironia, sapevano ridere insieme rendendo più leggera la vita. Non c’era nulla che facesse presagire la tragedia che si stava per abbattere su di loro, tant’è vero che Esteban inizialmente non riconobbe neppure la provenienza del forte rumore che spezzò bruscamente la quiete dell’atmosfera. Credé inizialmente che il domestico avesse fatto cadere la legna, perché sentì un rumore assimilabile a quello, ci mise un po’ a comprendere che il rumore ligneo proveniva dalla stanza attigua ed era quello della boiserie che veniva spostata dall’esterno. Il suo sguardo andò immediatamente alla parete opposta al camino dove era appesa la sua spada che sperò di raggiungere in tempo mentre rivolto a Rachele disse:
«Nascondetevi nel camino.» Conoscevano entrambi l’esistenza della nicchia e Rachele vi nascose la piccola Marzia.
«Resta in silenzio, arrivo subito.» Disse alla figlia fingendosi calma per non spaventarla e si voltò diretta alla culla per prendere il piccolo con se e raggiungerla, cosa che però non accadde, purtroppo non ne ebbe il tempo, il suo tempo era finito.
La contea di Kendor era a sud della Goride, poco più su della Marvelia che confinava con il deserto e coincideva con la fine del regno. Oltre il deserto c’era altro deserto e c’erano i misteri di un popolo senza fissa dimora che aveva la capacità di apparire e sparire. Nessuno sapeva quante anime vivessero nel deserto, l’unica cosa che si sapeva era che avevano il potere di essere invisibili malgrado l’estensione dell’orizzonte. Quando anni addietro la superbia del re della Goride si spinse oltre il confine, con la convinzione di conquistare quel territorio, si scontrò con un popolo fantasma che apparve una sola volta e rapido sconfisse l’esercito così come uno tsunami distrugge velocemente interi campi coltivati. Fu quella l’unica e ultima volta che i goridiani tentarono di espandersi a sud. Fortunatamente non ci fu rancore per questo affronto e i rapporti commerciali proseguirono inalterati.
I kendoriani erano un popolo pacifico, sapevano difendersi ma non avevano nulla che li spingesse ad attaccare. La contea era ricca, aveva la fortuna di un clima mite e si estendeva dal mare fino all’entroterra collinare godendo di un territorio fertile e produceva grazie alla pesca, all’allevamento e all’agricoltura tutto quanto necessitasse.
La città di Kendor testimoniava la ricchezza del popolo, c’erano edifici importanti e un mercato fiorente e i Garmond governavano da sempre con saggezza raccogliendo la benevolenza del popolo che non aveva di che lamentarsi.
Quando otto anni prima Esteban era stato nominato Conte, succedendo a suo padre, era consapevole sia dei rischi che dei doveri a cui avrebbe dovuto fare fronte, soprattutto il rischio di essere attaccati. Era già successo in passato, era successo così tante volte che il castello e la doppia cinta muraria, nel corso degli anni, erano stati sempre più perfezionati al punto da diventare inespugnabili.
Ovviamente non mancava la caserma militare che garantiva uomini addestrati sia alla contea che al Re.
La religione voleva il suo spazio e i Conti per primi dovevano dare il buon esempio presiedendo alla messa della domenica, cosa questa che Esteban non faceva volentieri soprattutto da ragazzo quando, come tutti i giovani, aveva da fare cose più interessanti. Fu così fino al giorno in cui vide Rachele che con suo padre assisteva alla messa e, come poi ebbe modo di scoprire il giovane, assisteva anche al vespro serale che improvvisamente venne amato da Esteban che ne divenne assiduo frequentatore.
Aveva ventitré anni Esteban la prima volta che vide Rachele e credé che lei fosse una straniera perché non l’aveva mai vista prima. In realtà lei era sempre stata lì, lui non l’aveva notata prima perché lei era piccola. La prima volta che lui, per così dire, la vide lei aveva quindici anni. A differenza delle sue coetanee Rachele aveva avuto una crescita differente, o meglio, rapida ma in ritardo. Fino a quattordici anni fu magrissima e minuta, poi la sua crescita prese il via donandole finalmente le fattezze di donna, divenne anche alta a dispetto di quanto avevano previsto le sue amiche che vennero tutte superate sia in altezza che in bellezza.
A differenza di Esteban che non l’aveva mai notata, lei da sempre lo aveva visto e da sempre aveva pensato che fosse molto bello. Quello che le piaceva di più di lui erano gli occhi verdissimi che sembravano brillare, li conosceva bene malgrado non avessero mai incrociato i suoi. Lo vedeva seccato arrivare sempre in ritardo, si capiva che anche lui non aveva voglia di ascoltare le parole del prete ma che era costretto a farlo. Anche per lei era la stessa cosa, solo che lui lo dava a vedere, lei invece non poteva altrimenti sarebbe stata rimproverata a casa.
Rachele era figlia unica, sua madre morì dandola alla luce e fu in reazione a tale triste evento che il padre trovò conforto in Dio divenendo praticante e fedele. A lei sembrò un controsenso: come poteva suo padre trarre conforto da quel Dio che gli aveva portato via sua moglie? Questa domanda restò ferma nei suoi pensieri a lungo, anche se non la pose mai a suo padre. Confidò che il tempo le avrebbe portato una risposta, o forse l’avrebbe portata al padre, sta di fatto che uno dei due era in errore.
In quei giorni anche a lei accadde improvvisamente di diventare fervida credente e soprattutto praticante, così sembrò al padre quando la vide molto più interessata a frequentare la chiesa, non immaginava di certo che la di lei religione fossero un paio di occhi verdi che avevano incrociato finalmente quelli di nero velluto della ragazza. Questo scambio di sguardi durò per mesi. Era l’unico momento in cui avevano modo di incontrarsi. Non potendo voltarsi durante la messa a guardarla, Esteban si affrettava ad uscire per primo e si fermava nei pressi della porta della chiesa ad aspettare che lei gli passasse vicino. Quando dicono che gli occhi sanno parlare forse è proprio a questo che si riferiscono: trascorsero mesi in cui senza rivolgersi la parola si dissero tutto e ogni sguardo era un dialogo di conferma.
Venne ad ogni modo il giorno in cui Esteban, dopo ore di attesa nei paraggi della casa di Rebecca, riuscì a parlarle per un breve momento. Lei non usciva mai da sola ma in quella occasione venne mandata dal padre a chiamare il medico: sarebbe potuta andare la donna, ma lei era più veloce e quando lo fece presente all’uomo lui acconsentì, dandole da dedurre che stesse davvero male. Esteban era lì fuori, prese il coraggio da qualche parte del suo cuore e le si avvicinò:
«Non conosco il vostro nome.»
«Mi chiamo Rebecca. » Disse lei arrossendo.
«Io mi chiamo Esteban.»
«Lo so. So chi siete. »
«Ma voi non uscite mai?»
«Io esco spesso, ma sempre con mio padre.»
«E ora dov’è vostro padre?» Chiese lui camminandole al fianco.
«Mio padre non sta bene. Sto andando a chiamare il medico.»
«Mi dispiace. Spero niente di grave. Vi accompagno.»
«Lo spero anch’io.»
«Rebecca, come posso fare per rivedervi?»
«Io, da sola, esco solo in giardino a leggere o a ricamare. Subito dopo pranzo mio padre riposa, si addormenta sempre e io esco al sole. Se… »
«Ci sarò.» Disse lui senza lasciare che lei finisse la frase. Erano arrivati dal dottore e lui aveva capito che doveva sparire. Sorrise e si allontanò felice: aveva parlato con lei e aveva trovato il modo per poterlo fare di nuovo. Cosa poteva volere di più?
Aveva la testa piena di sogni Esteban, vedeva Rachele nel suo futuro e programmava già come sarebbero andate le cose. Si sarebbero incontrati per un po’ in segreto, poi lui sarebbe andato a chiedere la sua mano al padre che avrebbe acconsentito e nel più breve tempo possibile si sarebbero sposati. Niente di trascendentale, sapeva che si faceva così e lo avrebbe fatto, sentiva forte in lui la certezza che Rachele sarebbe stata la donna della sua vita ed era già pronto a dichiararsi ufficialmente, l’avrebbe potuto fare anche subito se solo fosse stato certo che a lei facesse piacere.
In realtà è così che si usava fare, ma la realtà dei due giovani era diversa e anche capricciosa, infatti si dovette fare diversamente.
Sembrava che tutto stesse funzionando come previsto, infatti per più di un mese i due si videro attraverso la siepe del giardino riuscendo anche a tenersi per mano.
Esteban seguiva il passo delle cose assecondando Rebecca, non la forzava in nulla consapevole di avere davanti una sognatrice poco più che bambina da cui era affascinato. Lei lo conduceva in una dimensione di amorevolezza incantevole, pura e delicata, cosa che era molto bella, era tutto diverso da quanto gli era noto tramite le ragazze che aveva conosciuto prima. Quando lei fosse stata pronta lui avrebbe ufficializzato il fidanzamento, non c’era alcuna fretta, si poteva restare nella fanciullezza e crescere con calma, se non fosse stato per la vita che invece cambiò le carte in tavola e li costrinse a crescere alla svelta.
Il primo colpo lo ebbe Esteban il giorno in cui decise di parlare con sua madre confidandole che desiderava sposarsi, cosa che parve molto gradita fin quando il suo desiderio si rivelò essere in contrasto con le aspettative della Contessa Madre. Andava bene il matrimonio, ma non era quella la sposa adatta ad un Conte, anche perché la scelta non competeva ad Esteban, sarebbero stati invece lei e suo marito a decidere con chi lui si sarebbe dovuto sposare, non di certo con la figlia di un commerciante: i nobili si dovevano sposare tra di loro.
Di fronte alla calma gelida della madre Esteban non profferì parola, ma, malgrado fosse ferito, rimase inalterato nel suo intento, premurandosi però di non riferire di quella conversazione alla piccola Rebecca, cosa che fu molto facile a farsi perché non ne ebbe più occasione.
Era accaduto che Il signor Gerard Marten, padre di lei, fosse preda di un improvviso quanto inopportuno innamoramento che stravolse completamente la serenità della sua vita e di quella della figlia.
Fu un’anziana bizocca che presentò a Gerard una certa Maruska, vedova straniera giunta in città da poco e combinò il matrimonio tra i due. Se Maruska fosse veramente vedova non era dato saperlo, ma il suo aspetto induceva a varie interpretazioni. Maruska era una donna alta e fisicamente prorompente che usava abiti sgargianti nei colori e provocanti, più che una contrita vedova sembrava una prostituta che metteva fine alla sua carriera sistemandosi con un uomo benestante.
Gerard, completamente preso dalla donna non era in grado di valutare con lucidità la situazione, chi li vedeva assieme restava molto perplesso dalla loro diversità. Lui non era molto alto e sembrava ancora più basso per via del suo pancione, il viso era rubizzo e gioviale a differenza di quello della sua fidanzata, alta un palmo più di lui. che aveva lo sguardo sbiadito dalla diffidenza, lo si intuiva dal modo con cui si guardava attorno costantemente allertata. Cosa cercasse quello sguardo ebbe la sfortuna di scoprirlo Rebecca quando uscendo in giardino vide Maruska consegnare qualcosa ad un uomo che la baciò appassionatamente prima di dissolversi rapido tra la folla. Purtroppo per Rebecca Maruska si era accorta della sua presenza.
«Tu non hai visto nulla. Se provi a dirlo a tuo padre te la vedrai con me.» Furono queste le parole con cui la minacciò. Ovviamente Rebecca non si intimorì minimamente e non appena il padre rientrò in casa, attese che restassero da soli e gli riferì quanto aveva visto.
«Lo so Rebecca, Maruska mi ha detto tutto. » Disse il padre sorprendendola. Poi aggiunse:
«Mi ha detto che è passato suo fratello a prendere dei documenti e che voi li avete visti insieme.»
«Padre quell’uomo non era suo fratello. »
«Da cosa lo deducete? »
«Da come si sono salutati. Non si baciano in quel modo i fratelli. »
«Non siate maliziosa, era suo fratello. Me lo ha detto lei e io le credo. » Rispose l’uomo mortificando la ragazza che cercò di replicare.
«Ma padre, credete a lei e non a me? »
Era così. L’uomo era invaghito a tal punto da non vedere la realtà, non si rendeva conto che la donna che lui adorava era una strega.
«Basta così. Ora andate in camera vostra. » Disse severo mettendola in punizione.
Ma il peggio avvenne quando due giorni dopo la punizione terminò, o meglio, si trasformò in altro. Fu Maruska che entrò in stanza a chiamarla:
«Piccola stupida, ti avevo avvisata di non dire nulla. Ora vai in salone, tuo padre deve dirti delle cose.»
Non piacque a Rebecca il tono con cui le parlò, sentiva che c’era qualcosa che non andava e quando ascoltò il discorso del padre comprese tutto, tentò di ribellarsi, cercò di persuadere l’uomo a ravvedersi, ma fu tutto inutile, l’uomo che aveva di fronte aveva le fattezze di suo padre ma era diventato un estraneo:
«Così ho deciso. Andrai in convento e diventerai suora, non c’è tempo per altre parole inutili perché sono già qui, sono venute a prenderti. Questo è quanto. »
Il povero Esteban, che si nutriva dei momenti in cui si vedevano segretamente in giardino durante il pisolino pomeridiano di Gerard, non trovava pace. Rebecca ora aveva una matrigna che non dormiva dopo mangiato e non era più possibile parlare con la ragazza. Si limitava amaramente a vederla in chiesa assieme al padre e alla di lui moglie e a seguirla con lo sguardo quando andava via con i suoi. Era triste e non pensava che le cose potessero andare peggio di così, i suoi piani stavano saltando, gli eventi prendevano una piega totalmente diversa. Scoprì dopo qualche giorno di essere in errore nel pensare che le cose non potessero andare peggio, potevano eccome: Rebecca era scomparsa.
In realtà lei era in chiesa, ma non più al fianco di suo padre, bensì nella navata laterale dove le suore si fermavano durante la funzione. Lei lo vedeva ma lui non guardava mai in quella direzione, tra l’altro la chiesa era enorme e sempre gremita. Al termine della funzione poi le suore uscivano dall’ingresso laterale e imboccavano il vicolo che permetteva loro di evitare di incontrare i fedeli che invece uscivano tutti dall’entrata principale, compreso ovviamente Esteban. Ci vollero cinque giorni per essere vista da Esteban e per riuscirci Rebecca dovette fingere di avere dimenticato il libro per poter tornare indietro con la scusa di riprenderlo. Invece si avvicinò al ragazzo a cui tirò la manica per attirare l’attenzione e quando l’ebbe ottenuta corse via sperando di non essere punita, ovviamente invano perché finì per tre ore in ginocchio sui ceci.
Non ci fu il tempo neppure per una sillaba, lei corse via lasciando il giovane senza fiato ad annaspare tra un susseguirsi di emozioni che non riuscivano a mettersi in ordine. Forse la prima fu la gioia di averla rivista ma ebbe poca vita questa gioia perché non serviva a nulla averla ritrovata vestita da suora, l’abito talare gliela faceva perdere nuovamente.
Nelle ore successive il suo cuore fu molto pesante, se non fosse stato un uomo avrebbe di certo pianto a causa di quell’ ingiustizia che distruggeva ogni sogno. La sua testa era così compressa di pensieri che la sentiva calda, come se da un momento all’altro potesse esplodere, avrebbe desiderato smettere di pensare almeno per un attimo, giusto il tempo di fare riposare la sua mente che sembrava dolere. Sapeva che finché non si fosse tranquillizzato non sarebbe riuscito a valutare la situazione che era disperata e definitiva, anche se in lui ribolliva una strana energia che trovava origine dallo sguardo di Rebecca in chiesa, in quegli occhi galleggiava un urlo silente che aveva udito forte e chiaro, quell’urlo si ribellava a tutto e chiedeva aiuto. Se Rebecca era lì non lo era di certo per una sua libera scelta, lui lo sapeva per certo, ragion per cui non trovava pace.
Decise che si doveva calmare e rientrò in chiesa andandosi a sedere nei banchi della navata laterale dove si mettevano le suore durante le funzioni. Tra i vari pensieri valutò l’eventualità di lasciare lì un biglietto per lei, ma ad uno sguardo più attento comprese che era troppo rischioso, sarebbe stato visibile a chiunque e dovette scartare quell’opzione. Riuscì ad ogni modo a rasserenarsi e finalmente sentì tornare la lucidità necessaria a valutare il da farsi. Sentì una voce dentro di se che gli parlava con chiarezza, era come se stesse parlando a se stesso, ma con una cognizione di causa superiore. Gli succedeva a volte di ascoltarsi, non lo sapeva spiegare, ma sapeva che quanto veniva fuori da quel ragionare tra se e se aveva sempre una profonda saggezza.
«Nella vita non tutte le cose sono gestibili, ma il successo dipende esclusivamente dal potere che decidiamo di avere. A volte decidiamo di accettare quanto accade perché riteniamo che sia la cosa giusta, altre volte invece per fare la cosa giusta dobbiamo esercitare il potere che ci appartiene ed opporci. Rebecca non é una suora, è una novizia e non ha scelto lei la vita del convento, non è un suo desiderio e per tanto nessuno dovrebbe costringerla ad eseguire i desideri degli altri. Il suo desiderio è il tuo, vivere il vostro futuro insieme e nei suoi occhi c’era una chiara richiesta di aiuto. Di fronte a questa richiesta tu hai il potere di intervenire o di lasciare che la tua vita sia piegata dalle decisioni altrui, decidere di agire va fatto ora assumendone i rischi e soprattutto mettendo da parte le paure, il come verrà facile strada facendo. »
Questo fu quanto disse la voce. Si alzò allora di scatto. Era pronto e sapeva cosa doveva fare.
L’indomani non andò in chiesa come suo solito suscitando l’apprensione di Rebecca, apprensione che si dissolse dopo la messa quando in fila per due stava tornando al convento