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Le cronache di Ledrariel
Le cronache di Ledrariel
Le cronache di Ledrariel
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Le cronache di Ledrariel

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Coal Idì è un giovane sognatore che spera di unirsi al più grande avventuriero di tutti i tempi: Meriond Larcks, i cui occhi custodiscono un segreto che non appartiene del tutto a questo mondo e che solo Alyssa può comprendere. Lo strambo Doc Pok conversa più con gli animali che con gli uomini; l’arpa d’argento della principessa Idralyel suona melodie che vengono da tempi lontani. E intanto gli occhi di Lennon vegliano su Emberdil e la spada di Mianar è al servizio di un’umanità adesso corrotta, ma un tempo incontaminata e felice.Vite diverse, eppure una corda le stringe in un unico destino: risvegliare l’Armonia e salvare l’umanità dalle mire dei Draghi.
LanguageItaliano
Release dateJul 3, 2019
ISBN9788893691925
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    Le cronache di Ledrariel - Valeria Maggesi

    MicrosoftInternetExplorer4

    Prefazione

    Un tempo esisteva un’umanità incontaminata che, prospera e felice, sapeva danzare, cantare e respirare all’ unisono con la flora e la fauna.

    Ogni creatura di Emberdil viveva in uno stato di perpetua abbondanza e salute, legata alle altre da una forza invisibile ma potente quanto quella di gravità: l’Armonia.

    Dimentichi ormai del loro passato e asserviti al volere dei Draghi, gli umani hanno adesso il cuore gonfio di veleno e la gola arsa di una sete ingiustificata di vendetta e potere. Eppure il legame non si è spezzato, non del tutto.

    La speranza vive ancora in una memoria antica che giunge alle anime come la melodia lontana di ciò che fu un tempo, nei pochi spiriti indomiti che hanno rifiutato di piegarsi al plagio dei Draghi e nelle mani dei Guardiani che da secoli vegliano su di loro. Da soli non sono niente, insieme possono tutto... ma chi potrà ricordare?

    Ledrariel

    Il vento soffiava forte gonfiando le vele. Coal Idì osservava la sua mano accarezzare i contorni ondulati della statua posta a prua della nave. La sua nave, quella che gli aveva regalato Meriond Larcks. Era esattamente come se la era immaginata fin da bambino: un vascello elegante, grande, robusto che avrebbe solcato mille mari. La Promessa, così aveva battezzato la tanto sognata imbarcazione e a tutti i costi aveva voluto quella statua a dirigerne lo sguardo: una ragazza splendida, dai capelli dorati sparsi nel vento e con il dito puntato verso un orizzonte ancora troppo timido per mostrarsi.

    «Sono contento che ti sia piaciuta, Coal Idì» una voce lo distolse dalla contemplazione. Il ragazzo sorrise. Non aveva bisogno di girarsi per riconoscere Meriond.

    «Non penso di aver mai meritato qualcosa del genere» gli rispose. Si girò brevemente, sbirciando oltre la sua stessa esile spalla, il tesoro che aveva raccolto dalla sua ultima spedizione e tutti i marinai e aspiranti avventurieri che festeggiavano contenti il ritorno a casa con i loro sguardi carichi di ammirazione e gratitudine. Gli pareva quasi di non ricordare dove e quando ma era certo di aver appena vissuto una grandiosa avventura, così bella da poter eguagliare la leggenda del suo stesso mentore. Più di tutto, pensava però Coal Idì, la sua fortuna risiedeva in quella statua o in ciò che lei rappresentava. Non gli sarebbe mai importato della minaccia delle onde o delle urla del vento fin quando avrebbe seguito quel dito gentile e la sua direzione.

    «Tutti meritano di vedere realizzati i propri sogni. E tutti possono riuscire a trasformarli in realtà. In fondo, siamo nati per questo. Peccato che nessuno lo ricordi.»

    Che frase strana, pensò Coal Idì, e una fioca luce penetrò sulla scena rendendone i contorni sfocati come se dal cielo già limpido si fosse aperto uno squarcio da chissà dove.

    «A proposito di questo, ricordati di forzarmi la mano» aggiunse Meriond con un sorriso criptico quanto il significato delle parole.

    «Forzarti la mano?» ripeté Coal Idì. «Per cosa? Meriond...  non capisco.»

    «Non devi capire» intervenne ora una voce femminile che pareva sorgere dalle acque del mare. A Coal Idì sembrò di non essere mai stato capace di amare tanto qualcosa come il suono di quella voce. «Devi solo ricordare» lasciò quelle parole come una carezza nella mente del ragazzo e poi tutto svanì facendosi buio.

    Un’altra mattina è iniziata.

    Questi i primi pensieri di Leyron Costonbert mentre ancora albeggiava al di là delle sottili tendine color ocra. Di sole non se ne vedeva tanto da quelle parti, affossate come erano le abitazioni, tanto che ci si poteva salutare da una casa all’altra mentre gli uni mangiavano e gli altri andavano a coricarsi. Erano così tutti vicini nella caotica cittadella di Ledrariel che sembrava impossibile sentirsi soli. Era difficile, quasi, trovare una propria identità quanto era difficile trovare un paio di calzini appaiati nell’armadio di un maschio adolescente.

    «Coal Idì Costonbert, sveglia!»

    Il ragazzo si rigirò nel letto portandosi il cuscino sull’orecchio scoperto. La voce di sua madre sapeva essere alquanto penetrante e soprattutto sgradita quando si trattava di sognare mari lontani, orizzonti sconosciuti a bordo del Segreto. Proprio in quel momento, nelle sue visioni oniriche, c’era una schiera di donne adoranti intorno a lui che camminava avvolto in un mantello broccato da avventuriero con in mano una spada argentea e lucente e nell’altra un bottino ricolmo di ricchezze. Ecco un sedicenne che non sapeva che farsene dei suoi calzini appaiati o di un’identità voluta dai suoi genitori.

    Fabbricanti di funi da prima che nascessero i draghi, era questo il loro motto. Leyron grugnì un po’ grattandosi la pancia sotto la camicia del pigiama. Rosamara era già nella stanza accanto, il tinello, e fantasticando su un vestito damascato come quello indossato dalla regina Alyssa, preparava uova e pane abbrustolito su cui dopo poco avrebbe spalmato un velo di senape dolce e miele, come ogni mattina. Ma questa di primavera era una mattina speciale. Proprio il giorno prima erano arrivati in città dei barili carichi di latte e burro e ce ne sarebbe stata una tazza ricolma per ciascuno. «Anche le più piccole cose devono essere celebrate» aveva appena detto sistemando le stoviglie sul tavolo.

    Quando Leyron entrò nella stanza, Rosamara si prese un secondo per guardarlo. Era un essere assai singolare il suo consorte: magro, ma con una pancia tonda che quasi di profilo poteva sembrare una donna gravida. Il naso leggermente storto, ma all’insù, solcava baffi e barba incolti di un colore che una volta era nero, così le sembrava di ricordare, e che ora era sale e pepe in perfetto accostamento con una massa di riccioli indisciplinati e ancora corvini che spuntavano ovunque fino alla nuca. E gli occhi. Due occhietti vispi color della bruma mattutina ma dolci e rassicuranti come neanche il focolare di casa poteva risultare. Rosamara trattenne un sorriso compiaciuto e i suoi sogni su vestiti dorati e turchesi sembrarono dissolversi nella serenità di un singolo istante. «Eccolo qui! Il funaiolo che è riuscito a legarmi» lo salutò mettendogli il piatto di terracotta davanti e appoggiò la padella su una specie di spesso centrino di corda. Molti arnesi e decorazioni erano di questo materiale in casa Costonbert, le stoviglie stesse ne erano ricoperte, i mobili ne erano avvolti per conferir loro maggiore stabilità e addirittura Leyron stava lavorando su una poltrona ultimamente. Sedendosi al tavolo lanciò uno sguardo estremamente orgoglioso al suo manufatto.

     «Coal! Coal Idì» ripeté di nuovo inutilmente Rosamara.

    «Coal Idì Costonbert» recitò all’unisono con la madre rigirandosi sul fianco ormai rassegnato ad alzarsi.

    «Possa io essere fulminato da Rock!» imprecò e sbuffò appoggiando i piedi a terra e poi li trascinò entrambi uno con un calzino e l’altro senza. Non aveva ancora potuto gioire della bontà e della consistenza cremosa del suo latte caldo quando Leyron prese a parlargli.

    «Oggi dobbiamo far presto» iniziò Leyron, «al mercato c’è il grano di Bane! Dobbiamo muoverci a piazzar le funi prima che ci brucino sul tempo gli Adovas e giuro su Coal e su Sable che stavolta non me la faranno sotto il naso. So già a chi chiedere nella roccaforte. Ah no! Stavolta gli faccio vedere io che le funi dei Costonbert sono le migliori della cittadella!»

    «Sì, padre» si limitò ad annuire il giovane rampollo della famiglia con entrambi i gomiti appoggiati sul tavolo e la testa tra le mani, lo guardo vacuo e assonnato. Probabilmente stava ancora sognando l’Isola delle Nebbie e i suoi incredibili tesori, le donne di Lachrymosa, le gemme di Suspyria o le frastagliate coste del Talon. Difficile capirlo per i suoi genitori che si limitavano a commentare i malinconici silenzi del ragazzo con sospiri rassegnati e sguardi al cielo. Poco dopo la colazione e una sciacquata gelida al viso, padre e figlio s’incamminarono per la cittadella scuotendo in un moto ininterrotto il capo per salutare a destra e a manca. Si fermarono dal fornaio e dal fattore a pagare il conto e proseguirono per il sentiero del Suxur, lungo la montagna, chi reggendo le funi piccole, chi le grandi che andavano vendute ai marinai.

    «Ah, gli avventurieri! Metri e metri di corda e con le più particolari richieste!» trillò Leyron gioioso, stringendo tra le mani callose un sacchetto ricolmo di monete. «Solo Coal e Sable sanno cosa ci debbano fare!» sospirò poi, sollevando gli occhi al cielo e vedendo il ragazzo nuovamente distratto, gli porse le mani. «Passami una parte delle tue figliolo, dividiamo il carico.» aggiunse con fare sbrigativo. La giornata era lunga: dopo il litorale e la roccaforte sarebbero tornati di nuovo alla cittadella a barattare le funi restanti con miele e vino.

    «Figliolo?» Lo richiamò ancora una volta, ma lo sguardo di Coal Idì era ormai perso all’orizzonte, la sua attenzione totalmente devota al racconto di un ultimo viaggio pronunciato da due labbra sottili. Era Meriond Larcks a parlare. L’avventuriero più famoso della città, l’uomo più amato da tutte le donne e al tempo stesso il peggior partito esistente: non si vedeva che due volte all’anno quando in genere tornava con ceste traboccanti di ogni genere di segreta ricchezza che consegnava solo e unicamente al Re in persona. Indifferente agli sguardi innamorati e agli effetti del vino o dell’idromele, Meriond sembrava non aver mai provato nulla per nessuna donna sulla Terra destinando se stesso alla sua unica amante: l’avventura. Era assolutamente quanto di più vicino esistesse al Dio Sable, almeno lo era agli occhi di Coal Idì che altro non avrebbe voluto che essere come lui. Era a due passi da lui eppure non muoveva un passo. Così era sceso per le strade seguendo il padre quella mattina e così aveva lasciato la tazza di latte fumante lì sul tavolo a un centimetro dal suo labbro assetato. Tutto nella vita di Coal Idì sembrava muoversi in questo modo: per inerzia.

    «Ancora a incantare i ragazzini con le tue storie! Non ti bastano gli sguardi adoranti di tutte le ragazze? Vieni qui, amico mio. Qual buon vento rincontrarti!» disse Sun Tel, il quinto custode del tempio di Coal, avvicinandosi a braccia aperte al celebre avventuriero.

    «Sono vivo» gli sorrise Meriond. «E tanto mi basta» concluse, portandogli una mano sulla spalla.

    «Sia lodato Coal» gli rispose il sacerdote. «Ho sempre paura di non vederti più tornare»

    «Se dovesse capitare, allora vuol dire che mi sono sposato e le tue preghiere sono finalmente esaudite, vecchia donnicciola piagnucolona.» Risero entrambi. «Piuttosto, notizie del regno? Cosa mi sono perso? Quale giovane fanciulla ha appena compiuto l’età ufficiale per essere considerata da matrimonio?» sogghignò divertito, scaricando i bauli. Conosceva troppo bene il suo vecchio amico e sapeva che desiderava accasarlo più della sacerdotessa di Brier in persona. Sun Tel aveva già aperto bocca per prendere parola quando si accorse del sarcasmo di Meriond.

    «Però... vai e vieni ma lo spirito non lo perdi mai. Dovresti ringraziarmi, sai? Sono anni che trovo scuse per te»

    «E sono anni, amico mio che ti ricompenso con le più succose mele di Bane» gli sorrise l’altro, posandogli una cesta ricolma di frutti tra le mani, e s’incamminò appena dietro i carri che si avviavano a corte. «Senza contare che il consolarle ti porterà un gran sollievo, immagino.»

    «Ah ah ah, niente affatto divertente, mastro avventuriero» lo canzonò spintonandolo alla peggio.

    «E per tua informazione si chiamano Rosadele e Albadesta. E sono molto, molto carine.»

    Gli corse dietro per coglierne la risata divertita.

    «Vai a corte? La Regina è sempre più impensierita» aggiunse, bisbigliando appena non appena riuscì a farsi a portata di orecchio. Catturata finalmente la sua attenzione, lo fissò profondamente facendosi serio. Gli occhi castani del sacerdote si fusero nell’azzurro compatto e scintillante delle pupille di Meriond. Un malsano bagliore li attraversò furtivo.

    «Devi fare attenzione!» concluse e ritornò al tempio senza voltarsi. Meriond restò fermo con lo sguardo basso per qualche secondo come la cima di un grande scoglio nel mezzo del mare. Il vento soffiava alle sue spalle sollevando il mantello blu della sua divisa da avventuriero. Seguitò a camminare silenzioso e torvo per le terrazze dei giardini reali, giungendo sino alla roccaforte dove, come di consueto, si lasciò perquisire dalle guardie: di anno in anno i controlli diminuivano o forse la stima di tutti in Meriond Larcks aumentava in modo esponenziale, ma lui non sembrava nemmeno farci caso.

    L’aria della roccaforte era decisamente diversa da quella della cittadella, più fresca, libera dagli odori e dagli umori di troppa gente, silenziosa e pacifica, eppure alle orecchie di Meriond, abituate alla sola voce del mare e di pochi marinai scelti al suo seguito, ogni rumore era una ferita per i timpani e la terra sotto i suoi piedi fin troppo stabile e dura.

    Superato il palazzo dell’Hembass, il consiglio reale costituito dai rappresentanti delle famiglie nobili e di mercanti più illustri del regno, dove sarebbe andato solo per riscuotere la ricompensa, stranamente il suo passo fiero cominciò a farsi incerto. Le ciocche nere dei suoi capelli sfuggiti alla consueta coda bassa, incorniciavano gli occhi azzurri come il mare, stretti in un ciglio ansioso, preoccupato, e un bizzarro fremito gli scorse tra le dita. Le guardie lo scortarono sino alla sala del trono dove lo attendeva Handorien Revodad, il sovrano di Ledrariel, il più grande e ricco dei regni del Grindail. Nessuno avrebbe potuto negare la bellezza e la virilità di Re Handorien con la sua mascella squadrata, le labbra sottili, gli occhi scuri e penetranti incorniciati da una chioma e una barba argentea, la regalità del suo portamento, la fierezza della voce e dello sguardo. Sollevò lentamente l’indice e gli fece cenno di avvicinarsi dopo aver ricevuto gli omaggi dovuti e l’inchino. Il passo di Meriond si fece pesante, fin troppo sui marmi bianchi della Torre. La struttura luccicava come una perla al sole, visibile nella sua maestosità anche dal più lontano dei mari, così alta che sembrava un ponte costruito tra Emberdil e la dimora azzurra degli Dei. Mai da ragazzino aveva pensato di poter mettere piede a Sua Maiestatis, né di poter interloquire con il sovrano o con i suoi figli finché non tornò per la prima volta trionfante dalle lontane sponde del Talon e di Suspyria. Ma Meriond pareva dimentico del suo successo e delle sue avventure e persino di trovarsi in presenza del suo sovrano: il suo sguardo continuava a vagare irrequieto e ansioso scrutando ogni angolo, ogni colonna intarsiata lungo la navata. Aguzzava le orecchie per cogliere il più piccolo dei suoni, ma nulla pareva rassicurarlo o soddisfarlo.

    «Mastro Larcks, il vento ti riconduce alla mia casa. Cosa porti in dono al tuo Sovrano?» furono le uniche parole che il sovrano gli rivolse, tenendo lontano il suo sguardo.

    «Dieci casse per la corona del Re» rispose altrettanto asciutto, facendo cenno di aprire le più grandi, contenenti manufatti d’oro e d’argento, gemme rosse grosse come lacrime di drago e gemme bianche di una luce così pura da sembrare scaturite direttamente dalle stelle. Il sovrano annuì contenendo la meraviglia che per i figli, giovani e inesperti, era impossibile trattenere. Meriond diede dunque ordine di procedere all’apertura di altre tre casse contenti spezie, erbe mediche e tessuti sfarzosi, tenendo tra le braccia uno scrigno d’oro che avrebbe consegnato con cautela e con occhi bassi direttamente nelle mani di Handorien. Le dita affusolate del Re sfiorarono gli intarsi mentre il suo sguardo guizzava di taciturna quanto irrequieta curiosità. Con lentezza fece scattare i ganci sul davanti e un sorriso compiaciuto finalmente comparve sul suo viso. «Lava di drago» si lasciò scappare un gemito di ammirazione il secondo dei figli maschi, Taron, un giovane di diciotto anni da poco ammesso negli affari legali. Lo zittì subito il primogenito, Kevit, con un cenno autoritario e risentito.

    «Era questo che il mio Re desiderava dal mio viaggio?» domandò con riverenza Meriond, indietreggiando. Il Re richiuse lo scrigno e dopo averlo passato al figlio rivolse a Meriond uno sguardo finalmente amichevole.

    «Devo ammettere di aver dubitato della tua perizia, Meriond Larcks. Non credevo che saresti riuscito a portarmi il tesoro che ti ho chiesto eppure hai trionfato. Dimmi, come hai potuto vincere le resistenze che i miei stessi messi non hanno vinto?» Si sporse appena dal seggio.

    «Anni di esplorazione, sire, amici in tutti i porti dell’Emberdil ed eque ricchezze da scambiare» disse stringendosi nelle spalle, come se l’impresa fosse stata affare da poco. «Devo però avvertire il mio Re di astenersi dall’uso del suo potenziale. Grande è il potere della lava di drago in battaglia quanto grave è il pericolo che incombe su chi la usa. Essa ha l’effetto di annebbiare la mente di interi eserciti, ma oscuri sono gli effetti sullo spirito e folli ombre sembrano vagare negli occhi di chi ne viene a contatto. Il mio sovrano saprà di certo discernere tra cosa è giusto e cosa non lo è» lo avvertì sollevando di poco lo sguardo. Niente di quel bagliore negli occhi azzurri di Meriond sembrava sostenere ciò che aveva appena pronunciato.

    Handorien parve contrariato. Un ghigno di risentimento gli strinse le sopracciglia e le labbra in un’espressione torva, ma era troppo tardi per parole di rimprovero.

    «Sua maestà, la Regina Alyssa» annunciò una voce sulla sinistra del trono.

    Il passo della donna era talmente gentile da perdersi del tutto nel fruscio dell’abito ampio di seta azzurra e intarsi cobalto. Le labbra color del corallo si allargarono velocemente in un sorriso dolce come il miele, mentre gli occhi di zaffiro, alla vista di Meriond, si illuminarono di una luce così abbagliante da poter scacciare via le nebbie dalle montagne. La chioma castana intrecciata in una sofisticata acconciatura adorna di inserti preziosi e lucenti lasciò scappare un ricciolo ribelle e le dita di Meriond tremarono visibilmente a guardarla. Anche se costretto a inchinarsi per la presenza della consorte, a Handorien non sfuggì l’intensità lacerante dell’aria, satura dei loro respiri affannati. E non appena le labbra di Meriond furono in procinto di sfiorare il dorso della mano della regina, si affrettò a privarli del momento terminando alla svelta la conversazione.

    «Va’ ora, Mastro Larcks, e lasciaci alla nostra quiete familiare. Quando raggiungerai il palazzo del Consiglio, fra tre giorni esatti, troverai la ricompensa dovuta dalla Corona a così generosi amici. Addio Larcks, che Coal e Sable possano proteggerti.»

    La sua voce si perse per qualche istante nel buio e nel silenzio, risucchiata in un vortice lontano, mentre le mani di Meriond e della Regina si lasciavano, essendosi a malapena sfiorate.

    «Lunga vita al Re e alla sua famiglia.»

    Disse inchinandosi sotto il peso del congedo obbligato e indietreggiò fino a voltarsi, diretto all’uscita.

    «Sta diventando troppo potente, padre. Oltremare tutti lo acclamano come il vero Re di Ledrariel così come in seno al nostro stesso regno c’è chi dubita degli ambasciatori del Re o della sua personale influenza» borbottò Kevit, seguendo l’uomo con lo sguardo.

    «Non c’è male alcuno a meritare il proprio successo, mio caro.» lo corresse la voce della Regina, di nuovo affranta, di nuovo grigia come un mare in tempesta. Appariva distratta mentre, sedendosi, prendeva posto accanto al consorte e si apprestava a partecipare alla conversazione. Kevit invece appariva sempre più contrariato e avrebbe osato rispondere alla madre, ma un cenno della mano paterna lo fermò.

    «Concordo» rispose il Re.

    «E hai intenzione di restare a guardare?» incalzò il figlio maggiore, facendo ridere il padre.

    «Cosa proponi tu, allora, Kevit? Quali sagge decisioni prenderesti tu se fossi seduto sul trono di Ledrariel?» controbatté divertito, come se si trattasse di un gioco.

    Kevit esitò qualche istante diventando paonazzo al solo pensiero di indossare la medesima corona d’oro rosso indossata dal padre.

    «Credo che mi libererei di lui» disse infine con voce incerta.

    «E perderesti così tutti i beni preziosi che riesce a dare alla tua corte? Cosa penserebbero gli altri avventurieri vedendo il loro idolo condannato a morte o ucciso per volere del Re?»

    «Potrei affidare le sue missioni ad altri. Magari ridistribuendole equamente.»

    «Mio sciocco erede, mi rallegro che non sia ancora giunta l’era del tuo regno.» Scosse piano il capo in senso di diniego e il sorriso si fece via via più spento raggelandosi in un’espressione seria e conturbante. «Gli avventurieri devono la loro fortuna non alle imprese che vengono loro affidate e nemmeno alla generosità delle concessioni reali. Gli avventurieri famosi come Meriond Larcks devono la loro fortuna unicamente alle loro doti personali. Privarsi di un uomo simile sarebbe un errore che solo un pivello viziato e malato di orgoglio come l’attuale primogenito del Re può commettere.» disse paralizzando all’istante qualsiasi protesta di Kevit, il quale arrossì e si fece da parte per restare totalmente in silenzio.

    «Cosa proponi tu, invece, Taron?» Sollevò un sopracciglio rivolgendosi al secondogenito. Il ragazzo era timido e insicuro. Arrossiva non appena gli venisse rivolta la parola e il suo sguardo ricordava tanto quello dei bambini appena rimproverati dalle madri.

    «Forse» iniziò balbettando, «il Re di Ledrariel potrebbe elargire maggiori concessioni ad altri promettenti avventurieri, per incoraggiarne il successo, padre.»

    Handorien annuì con un cenno del capo.

    «Saggio consiglio, figlio. Di sicuro più illuminato di quello del tuo fratello maggiore. Peccato che nessuno ascolterebbe mai una donzella parlare di politica commerciale.» aggiunse con velenoso sarcasmo e a Taron salirono le lacrime agli occhi per la mortificazione. Lentamente il sovrano di Ledrariel, Handorien Revodad, si alzò dal suo trono ergendosi in tutta la sua statura e magnificenza. Camminava lento, accompagnato a ogni passo dal fruscio del suo mantello di velluto. Si fermò dinanzi a una finestra della navata ammirandone il mosaico di colori vividi e brillanti. Fu allora che come da molti anni la voce che era solo nella sua testa parlò. Ed egli la sentì.

    Meriond Larcks. Non ti fidi di lui. I suoi occhi azzurri e infidi sfuggono al tuo sguardo troppo spesso. Non si lasciano esaminare... e intanto il suo potere e le sue ricchezze si accrescono.

    Handorien rabbrividì. Iniziava sempre così: un fremito gli accarezzava le spalle e le tempie. Sentiva il suo sguardo staccarsi dal mondo dove viveva e dove il suo regno prosperava. Tutto si faceva sfocato, come assopito in un ricordo lontano. Inutili le difese del suo corpo la cui resistenza finiva per privarlo di tutte le energie. La sua anima impietrita come un serpente incantato restava inerme ad ascoltare. Poi tutto si fermava. E la voce parlava fredda, determinata, insolente, facendosi beffa della sua impotenza, lo avvelenava, plasmava la sua mente a suo piacimento decidendo il giusto e l’ingiusto, il bello e il brutto, il fausto e l’infausto secondo logiche completamente estranee. E più proseguiva a plasmare la sua volontà più la fitta nel cranio aumentava quasi come se una freccia invisibile premesse al suo centro per aprirlo da parte a parte.

    Anche le attenzioni della Regina sono tutte per lui. E per lui i suoi splendidi sorrisi. I suoi sguardi dello stesso prezioso zaffiro.

    «Hai notato anche tu con quanto ardore si guardavano? Mi sono quasi sentito in colpa nel volerli separare. Ella è mia moglie, la madre dei miei figli, eppure... eppure ella non mi appartiene. Alyssa! Non le ho mai dato motivo di tradirmi. Devo essermi sbagliato. Non può essere...» provò inutilmente a resistere a quell’orda selvaggia che devastava il suo animo deturpandolo con gelosie e depravazioni. Ricorda la dolcezza del suo sorriso, il tocco anelato delle loro mani. Ricordala e guardala ora gli suggerì la voce maligna. Handorien si voltò di scatto. La regina pareva disorientata e triste con lo sguardo fisso sulla porta al finale del corridoio che Meriond aveva appena percorso. Sembrava rincorrere con lo sguardo i suoi passi. E le sue mani si massaggiavano l’un l’altra come in cerca di un conforto impossibile da ottenere.

    Non ha mai riservato questi sguardi a te. Meriond te li ha rubati. Meriond ti ha privato dell’amore di tua moglie e forse della tua stessa progenie.

    «Smettila! Sono anni che mi tormenti con questo dubbio.»

    E sono anni che rifiuti di ascoltare questo mio consiglio. Devi liberarti di lei. Non è tua.

    «E di chi sarebbe allora?»

    Appartiene a lui. E anche tu lo sai.

    «E come lo sai? Come fai a esserne certo?»

    Ah, Handorien. Così violi il nostro patto. Io ordino, tu non domandi. Io dispongo e tu obbedisci. O vuoi forse vedere la fine dei tuoi giorni e la fine dei giorni di tutto ciò che ami? Vuoi davvero sfidare il mio potere?

    Handorien sentì tutto il corpo gelarsi e stringersi in una morsa mortale. Scosse la testa e si sorresse al davanzale per non cadere.

    «Ma non posso ucciderla, non puoi chiedermi questo»

    Lo so, sei troppo debole per

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