Trinciato Forte
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Trinciato Forte - Salvatore Molinari
Capitolo 1 – Maggio 1997.
Diego Bonfanti, alla guida della vecchia Campagnola Fiat 1102 percorse piano la SS-340 superando Porlezza costeggiando il lago nel tratto a nord della provincia di Como. Lasciò la statale e prese in direzione Valsolda; dopo una serie di tornanti si fermò appena fuori dalla frazione di Dasio, poco distante dalla vecchia baita di famiglia acquistata nel 1965. Si soffermò ammirato a guardare la vecchia jeep, teneva ancora bene la strada nonostante gli anni. L’abitazione, un piano terra e un primo piano, era ancora in buone condizioni, ma il tempo e le intemperie avevano fatto il loro lento lavoro.
Alle spalle dell’abitazione il bosco si estendeva lussureggiante lasciando alla vista lo spettacolo dei monti con le cime ancora innevate tra i quali si incuneava il Passo Stretto a 1102 metri. Non metteva piede in quel luogo da anni, dal 1972. Aprì il cancello, parcheggiò la vecchia jeep all’inizio del vialetto in salita che portava alla baita e si avviò con passi lenti. Si diresse deciso alle spalle dell’abitazione; il giardino era incolto, le erbacce non rimosse da tempo permettevano appena di intravedere i rovi delle rose che sua moglie amava curare.
E giunse lì, dove la sua mente era tornata costante ogni giorno e ogni notte a ricordargli che aveva una promessa a cui tener fede.
Rimase fermo davanti al gruppo di alberi di Carpino dopo i quali, oltre il recinto, la foresta si estendeva fitta insieme ai grandi pini Silvestre. La croce in ferro battuto era arrugginita e non portava nessuna iscrizione; si era inclinata, la raddrizzò toccandola delicatamente.
Poco dopo raggiunse il piccolo cimitero del paese attraversando a piedi la fitta boscaglia che si estendeva alle spalle della baita.
Anche qui, con gesti delicati pulì con un panno la vecchia lapide in marmo grigio infossata da un lato sulla quale si leggeva con qualche difficoltà:
A PETRA BONFANTI
FANCIULLETTA DI POCHI LUSTRI
SPENTA DAL CRUDO ED ASSASSINO MORBO FASCISTA
IL XXVII AGOSTO MCMLXXII
INCONSOLABILI ED OPPRESSI I GENITORI ED IL FRATELLO
QUESTA LAPIDE IN TRIBUTO DI AMORE POSERO
Restò lì davanti per una buona mezz’ora solo con i suoi pensieri fissando quel pezzo di marmo grigio.
Poi a passi lenti tornò verso la baita. Aprì la porta ed entrò. Non fumava più da tempo ma meccanicamente si diresse verso il ripostiglio sotto le scale che portavano al primo piano. Sollevò il coperchio di una vecchia cassa di legno impolverata e ritrovò le tante confezioni di tabacco che amava tenere di scorta quando ne faceva uso.
C’erano ancora più di un centinaio di pacchetti che si erano conservati bene, e quell’odore forte gli mise voglia di prepararsi una sigaretta. Quando ancora fumava, preparare le sigarette era per Diego un rito che gli teneva compagnia durante la guerra partigiana nelle lunghe giornate sulle montagne dei dintorni. Quanti ricordi.
Si sedette fuori ad aspirare lentamente quella sigaretta che aveva preparato con cura.
Poi l’aria si rinfrescò nonostante fosse già maggio e decise di entrare. Si coprì con una coperta presa dall’armadio della camera da letto al primo piano e si addormentò sulla poltrona accanto al camino spento.
Dormì per diverse ore. Sognò sua moglie Rada che zappettava nel giardino e la piccola Petra che giocava sull’altalena. Si svegliò poco dopo mezzanotte, fumò ancora una sigaretta e ripartì per rientrare alla villa in Brianza.
Il giorno dopo in tarda mattinata fece visita a Rada presso la clinica per lungodegenti dove era ricoverata ormai da tempo e nel tardo pomeriggio si recò ancora una volta a Milano presso gli uffici della ditta dove aveva lavorato suo figlio Renato prima che partisse. Renato era partito per gli Usa da diversi anni e non aveva più dato notizie di sé, ma Diego non aveva mai perso la speranza che un giorno o l’altro si rifacesse vivo.
Passava spesso da lì, fiducioso che qualcuno della ditta potesse sapere qualcosa su Renato, ma nessuno era in grado di aiutarlo, non sapevano nulla. Anche il giorno dopo effettuò la consueta visita a Rada.
In serata, appena tornato si chiuse in camera sua, prima scrisse una lettera per suo figlio Renato, poi con decisione si sparò un colpo alla tempia con la sua vecchia rivoltella.
Capitolo 2 – Diego Bonfanti.
Diego era nato nel 1920 a Sesto San Giovanni, un importante centro industriale alle porte di Milano. Cresciuto in una famiglia operaia, nell’ottobre del 1943 lavorava con le mansioni di elettricista in una fabbrica tra Sesto e Monza. Sesto era soprannominata La Stalingrado d'Italia
, soprannome derivante dalla presenza sul territorio di una massiccia componente operaia e dall’opposizione decisa al nazismo e al fascismo, prima attraverso i numerosi scioperi tra il 1942 e il 1944 e poi con il contributo elevato della città alla lotta partigiana. Nei primi anni del 900 la cittadina milanese
aveva visto fiorire sul suo territorio un elevato numero di industrie pesanti, una crescita tale da essere spesso chiamata anche la Piccola Manchester
, città del Nord-ovest dell'Inghilterra ricca da tempo di una grande eredità industriale. Negli ultimi mesi del 1943, l’opposizione alla neonata RSI iniziava ad organizzarsi, anche se l’inquadramento dei primi gruppi partigiani non era affatto semplice e privo di rischi. Diego Bonfanti entrò in contatto nel novembre del 1943 con un operaio ed un caporeparto della fabbrica, già membri di un gruppo partigiano che operava tra Desio e Seregno. Il gruppo raccoglieva persone di Monza, Macherio, Besana, Biassono, Carate, con squadre operative anche a Sovico, Albiate e Lesmo. I due, dopo aver capito di potersi fidare, gli proposero di partecipare ad una riunione operativa a Seregno, e così Diego Bonfanti entrò a far parte del movimento partigiano. Dopo un brevissimo periodo di addestramento alle armi, diventò subito operativo partecipando a diverse azioni di sabotaggio a Milano, nel Lodigiano e nella Bassa Brianza. Una delle prime azioni a cui Diego partecipò fu a Monza dove operava dal 1920 un famigerato squadrista fascista responsabile di diversi omicidi nei dintorni. Diego e altri tre partigiani lo attesero una sera a Milano alla stazione di Porta Garibaldi, dove tutte le sere prendeva il treno per tornare a casa dopo aver passato la sua giornata in una caserma della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana). Entrarono in azione pochi chilometri prima che il treno arrivasse nella stazione di Monza. Il vagone era semivuoto e i tre partigiani erano seduti in posti diversi proprio dietro lo squadrista. Questi intuì che quei tre gli stavano alle costole e riconobbe anche uno dei partigiani che era di Monza. Si alzò cercando di passare nella carrozza successiva ma non ne ebbe il tempo, Diego Bonfanti gli saltò addosso mentre gli altri due aprivano una delle porte del treno in corsa. Lo scaraventarono fuori dal treno. Subito dopo i tre partigiani si divisero e alla stazione di Monza scesero da carrozze diverse dileguandosi immediatamente. Il giorno dopo trovarono il cadavere dello squadrista sfigurato per la caduta sul pietrisco dei binari e orrendamente mutilato alle gambe tranciate dalle ruote del treno in corsa che lo aveva risucchiato.
I rischi della semi-clandestinità erano tantissimi; nelle fabbriche le spie fasciste erano parecchie e quasi tutte le settimane qualcuno veniva arrestato perché aderente o semplicemente sospettato di far parte di gruppi partigiani. Nei primi mesi del 1944 Diego Bonfanti decise di lasciare la fabbrica. Entrò in clandestinità e si unì ad una formazione partigiana dislocata al Pian dei Resinelli, altopiano delle Prealpi lombarde, in provincia di Lecco. Successivamente il coordinamento dei gruppi partigiani di quella zona, notato il suo impegno e l’abilità con cui aveva agito in decine di azioni, gli proposero di assumere il comando di una formazione partigiana a nord di Como. Diego accettò con grande entusiasmo, era già conosciuto con il nomignolo di Valanga
e quello divenne il suo pseudonimo da comandante della formazione. La zona montana in cui erano operativi i reparti partigiani, compreso quello comandato da Diego, era di considerevole importanza strategica, vi passavano le statali dello Spluga e dello Stelvio, vie di transito per la Svizzera e la ferrovia della Valtellina. L’attenzione del comando tedesco era alta, tanto che fece affluire nella zona due battaglioni di alpini germanici di stanza a Bassano del Grappa dando inizio a numerose azioni di rastrellamento. Per tutto il 1944 Diego e il suo gruppo di partigiani si impegnarono in numerose azioni in tutta la zona a nord del lago di Como lasciando sul campo numerosi morti da entrambe le parti. Altri furono catturati e condannati a morte per fucilazione, altri ancora internati nei campi di sterminio in Germania. Nell’ottobre del 1944 arrivò in montagna un gruppetto di quattro persone che dovevano aggregarsi alla formazione comandata da Diego Bonfanti. Due di loro erano già conosciuti da Diego, ragion per cui nessuno ebbe alcuna remora nell’accettare gli altri due. Uno dei nuovi era un ex tenente, Silvio Bonacini, disertore del regio esercito molto esperto nell’utilizzo di armi ed esplosivi, e per questo Diego pensò bene di utilizzarlo subito in un’azione di sabotaggio ad una caserma della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana); mancavano una quindicina di giorni all’azione, c’era quindi tutto il tempo per vedere Silvio Bonacini all’opera e rendersi conto se potevano fidarsi di lui. L’occasione arrivò due giorni dopo. La formazione aveva ricevuto ordini da Milano di rendere difficile il transito delle truppe naziste sul fiume Adda nei pressi di una frazione di Calolziocorte. Diego e una decina di partigiani del gruppo dovevano sabotare un ponte sul fiume utilizzato spesso da reparti tedeschi per i loro spostamenti. Il ponte era pattugliato giorno e notte da un nutrito gruppo di militi fascisti per cui l’azione diventava molto pericolosa e di esito per niente scontato. Stabilirono che, mentre la maggior parte dei partigiani del gruppo tenevano impegnati i fascisti di guardia in una sparatoria, Silvio Bonacini e altri due uomini dovevano adoperarsi sull’accesso opposto per minare il ponte piazzando cinque cariche esplosive che avrebbero distrutto un’arcata. Il giorno stabilito per l’azione il gruppo di partigiani comandati dal comandante Diego partì di buon mattino dal rifugio in montagna.
Tre ore dopo, non senza difficoltà per aggirare i posti di blocco, raggiunsero il ponte. I tre partigiani addetti a piazzare le cariche esplosive si staccarono dal resto del gruppo e si spostarono ad un paio di chilometri più a sud, dove due collaboratori del posto li trasportarono sull’altra sponda del fiume con la loro barca. Dovevano piazzare le cariche da quella parte del ponte potendo lavorare con più tranquillità essendo la sorveglianza in quel punto meno serrata. Diego e gli altri partigiani rimasero in attesa, sarebbero intervenuti solo se i militari fascisti si fossero accorti di quanto stava accadendo. Silvio Bonacini e gli altri due, una volta giunti nel punto stabilito iniziarono a piazzare le cariche indisturbati. Non c’era nessuna sorveglianza da quella parte. Avevano quasi terminato di piazzare le cariche quando notarono sulla strada che correva lungo l’argine l’avvicinarsi di una moto militare tedesca munita di sidecar e una mitragliatrice leggera. I due militari nazisti si accorsero subito dei tre uomini aggrappati alla struttura sotto il ponte e iniziarono a sparare contro di loro. Mentre uno dei partigiani rispondeva al fuoco, Bonacini e l’altro continuarono a lavorare sull’ultima carica. I due nazisti non si erano accorti della barca che piano si avvicinava lungo l’argine. I due uomini sul barcone tirarono fuori due mitra, e colti di sorpresa i due militari tedeschi caddero uccisi lungo la scarpata sul fiume. Le cariche erano state piazzate e i tre iniziarono a scendere per preparare il detonatore. Nel frattempo i partigiani sull’altra sponda avevano ingaggiato una violenta sparatoria con i militari fascisti creando uno sbarramento di fuoco che non permetteva loro di muoversi dai ripari sul ponte e poter correre in soccorso degli alleati tedeschi. Poi, con una violenta esplosione la prima delle arcate del ponte saltò in aria. I tre partigiani che avevano minato e fatto saltare il ponte raggiunsero poi i loro compagni come stabilito.
Qualche giorno prima dell’azione alla caserma, Bonacini chiese a Diego di poter effettuare delle ricognizioni nella zona in modo da poter annotare eventuali spostamenti ed orari dei nazifascisti. Il comandante Valanga
non ebbe nulla in contrario, dopo l’azione al ponte si fidava di lui. La notte dell’azione Diego affidò il comando al Bonacini che a capo di un gruppo di otto partigiani scesero a valle per portare a termine il sabotaggio alla caserma della GNR.
La mattina successiva, alle 10.00 non era tornato ancora nessuno del gruppo e Diego iniziò a sospettare che qualcosa non fosse andata per il verso giusto. Una decina di minuti dopo fu avvistato un uomo che risaliva il costone verso il rifugio del gruppo di partigiani. Era Bonacini e non c’era nessun altro con lui. Trafelato e spaventato raccontò che erano stati colti in una imboscata da una squadra di fascisti e tedeschi in perlustrazione e che solo lui era riuscito a sfuggire nascondendosi per molte ore nella boscaglia prima di poter risalire verso il rifugio. Gli altri erano stati feriti gravemente e catturati. Era un duro colpo per il gruppo.
Diego passò tutto il giorno da solo nei suoi pensieri, c’era qualcosa che non quadrava nel racconto del Bonacini e voleva capire cosa fosse. Dopo le ricognizioni di pochi giorni prima, Bonacini era sicuro di aver annotato con cura tutti gli orari delle pattuglie e questo lasciava Diego molto perplesso. I suoi dubbi divennero certezze il giorno dopo quando due partigiani scesero a valle per dei rifornimenti. Al ritorno, per sicurezza risalirono da un sentiero diverso e, quasi a metà strada udirono un lamento. Subito si acquattarono tra la vegetazione avvicinandosi con circospezione al punto da dove proveniva. E si accorsero subito che era uno dei partigiani partiti due giorni prima con Bonacini per l’azione di sabotaggio. Era ferito gravemente. Nell’agguato subìto due giorni prima, era riuscito a buttarsi in un torrente e farsi trascinare dalla corrente. Lo avevano creduto morto e nessuno dei militi fascisti si era presa la briga di sincerarsene. Da un bel po’ cercava di risalire ed era sfinito. Raccontò tutto ai due compagni: Silvio Bonacini era una spia fascista. Le sue ricognizioni erano state utili per prendere accordi con i suoi camerati. E così la notte dell’azione non aveva fatto altro