Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Lo spettacolo della mafia: Storia di un immaginario tra realtà e finzione
Lo spettacolo della mafia: Storia di un immaginario tra realtà e finzione
Lo spettacolo della mafia: Storia di un immaginario tra realtà e finzione
Ebook256 pages10 hours

Lo spettacolo della mafia: Storia di un immaginario tra realtà e finzione

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

A che cosa pensiamo quando parliamo di mafie? Come nascono le rappresentazioni della criminalità? In che modo realtà e racconto delle mafie si intrecciano nel dar forma a un immaginario in continua evoluzione? Le organizzazioni criminali negli ultimi decenni sono state protagoniste di una massiccia esposizione mediatica. Modelli, miti e codici si sono adattati e integrati con la società dei consumi e dei mezzi di comunicazione di massa, sono entrati prepotentemente nel cinema, nel web, nel marketing, sino a conquistare il centro della scena. Un fatto, questo, essenziale per l’analisi e la comprensione del fenomeno mafioso nel suo complesso, poiché stereotipi e rappresentazioni sono per le stesse organizzazioni criminali un potente strumento per affermare la loro esistenza e il loro potere.
LanguageItaliano
Release dateJul 10, 2019
ISBN9788865792162
Lo spettacolo della mafia: Storia di un immaginario tra realtà e finzione

Related to Lo spettacolo della mafia

Related ebooks

Popular Culture & Media Studies For You

View More

Related articles

Reviews for Lo spettacolo della mafia

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Lo spettacolo della mafia - Marcello Ravveduto

    Marcello Ravveduto

    Lo spettacolo della mafia

    Storia di un immaginario tra realtà e finzione

    Edizioni Gruppo Abele

    © 2019 Associazione Gruppo Abele Onlus

    corso Trapani 95 - 10141 Torino

    tel. 011 3859500 - fax 011 389881

    www.edizionigruppoabele.it

    edizioni@gruppoabele.org

    isbn 9788865792162

    In copertina fotografia di Pablo Galeano

    Pablo Galeano Photography

    Il libro

    A che cosa pensiamo quando parliamo di mafie? Come nascono le rappresentazioni della criminalità? In che modo realtà e racconto delle mafie si intrecciano nel dar forma a un immaginario in continua evoluzione? Le organizzazioni criminali negli ultimi decenni sono state protagoniste di una massiccia esposizione mediatica. Modelli, miti e codici si sono adattati e integrati con la società dei consumi e dei mezzi di comunicazione di massa, sono entrati prepotentemente nel cinema, nel web, nel marketing, sino a conquistare il centro della scena. Un fatto, questo, essenziale per l’analisi e la comprensione del fenomeno mafioso nel suo complesso, poiché stereotipi e rappresentazioni sono per le stesse organizzazioni criminali un potente strumento per affermare la loro esistenza e il loro potere.

    L’autore

    Marcello Ravveduto insegna Digital Public History alle Università di Salerno e di Modena e Reggio Emilia. È componente del Consiglio direttivo dell’Associazione italiana di Public History; del comitato scientifico della Biblioteca digitale sulla camorra e sulla cultura della legalità dell’Università Federico II di Napoli; direttore scientifico della Galleria virtuale sulle mafie e l’antimafia nella Casa/Museo Joe Petrosino. Tra i suoi scritti, Il sindaco gentile. Gli appalti, la camorra e un uomo onesto. La storia di Marcello Torre (Melampo, 2016), La nazione del miracolo. L’Italia e gli italiani tra storia, memoria e immaginario (Castelvecchi, 2018).

    Indice

    Prefazione, di Enzo Ciconte

    Premessa. La storia, l’immaginario, le mafie

    I. Scrivere di mafie

    II. Buio in sala

    III. Mentre la Tv

    IV. E la musica va

    V. Google generation

    VI. Made in Mafia

    VII. Il paradigma delle stragi

    VIII. Vivi

    IX. Conclusioni. Mediumafia

    Ringraziamenti

    Filmografia italiana su mafie e criminalità

    Bibliografia

    Prefazione

    di Enzo Ciconte

    C’è stato un tempo in cui l’equazione mafia = omicidio e sangue era un dogma indiscutibile. In realtà, si trattava di un luogo comune molto diffuso, utilizzato da chi, per negare l’esistenza della mafia nel Nord Italia, sosteneva che non essendoci morti ammazzati non si poteva dire che anche lì ci fosse la mafia. Un luogo comune di successo e che ebbe una lunga durata.

    Altre convinzioni svolsero una funzione analoga, per lo più consolatoria, come quella che sosteneva che essendo la mafia un prodotto di un Mezzogiorno povero, arretrato, plebeo e sottosviluppato essa non avrebbe potuto infiltrarsi e tanto meno radicarsi al Nord, dove notoriamente c’erano ricchezza e opulenza. Tutte queste erano rappresentazioni non veritiere.

    Si potrebbe stilare un lungo elenco per dimostrare come tutto ciò abbia avuto la funzione di non far comprendere cosa stesse succedendo al Nord, e quanto in definitiva abbia favorito un processo di radicamento in territori dove la mafia non era storicamente presente.

    Un’altra idea lungamente circolante era quella di definire l’uso dei rituali come il frutto d’una mafia arcaica e arretrata che sarebbe scomparsa con la modernità. Era un abbaglio che molti storici, sociologi, giornalisti, intellettuali contribuirono ad alimentare.

    I rituali sono molto importanti per l’identità di un mafioso. Un picciotto calabrese conosce la storia dei mitici cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso, Carcagnosso, con i loro nomi terribili, spaventosi, impronunciabili ma anche intriganti e accattivanti e che suscitavano curiosità, che accendevano fantasie. Secondo la leggenda, erano cavalieri spagnoli appartenenti a una società segreta di Toledo chiamata Guarduña e sarebbero venuti in Italia attorno al 1412. Erano in fuga dal proprio paese perché avevano difeso l’onore della loro famiglia vendicando con il sangue l’offesa arrecata a una sorella. Si racconta che se ne stettero nell’isola di Favignana per ventinove lunghi anni. Lì, di nascosto da tutti, lavorando nelle grotte, approntarono le regole sociali delle più grandi organizzazioni mafiose. Mafia, ’ndrangheta e camorra, dunque, secondo la leggenda avrebbero nobili origini. Questa favola richiama subito sangue, onore e vendetta, gli elementi costitutivi dell’identità mafiosa, a cui dà anche i blasoni della nobiltà spagnola.

    L’immaginario dei malandrini è popolato da fantasie potenti che esaltano il loro essere mafiosi. Si pensi all’importanza dei Beati Paoli per i mafiosi siciliani. Tutti – i mitici cavalieri spagnoli e i Beati Paoli – non sono mai esistiti, sono un’invenzione, sono il frutto della fantasia. Ma non per questo sono meno importanti che se fossero esistiti veramente. Il loro tempo immaginario è più potente del tempo storico realmente vissuto.

    Se oggi si vuole comprendere perché le mafie sono sopravvissute provenendo da un lontano passato dobbiamo guardare al loro immaginario e alle rappresentazioni che ne abbiamo dato noi, che mafiosi non siamo.

    Insomma, dobbiamo prepararci a guardare con spirito critico Lo spettacolo della mafia, come Marcello Ravveduto ha pensato di chiamare questo suo libro importante e accattivante che introduce con sobrietà e rigore scientifico l’analisi di un territorio ancora in gran parte sconosciuto e inesplorato, quello di un immaginario che vive tra realtà e finzione.

    Un tempo si pensava che la questione mafiosa fosse un problema criminale e che sarebbe stato risolto dalla magistratura e dalle forze dell’ordine. Forze in campo appositamente pagate per assicurare la nostra sicurezza, mentre noi non dovevamo fare altro che sederci in poltrona come se fossimo davanti alla Tv e applaudire quando si catturavano i malviventi: una delega in piena regola. Era un errore, questo modo di fare, e per superarlo ci fu bisogno di comprendere che era necessario un impegno delle istituzioni e della società civile. E fu così che entrarono in campo anche Comuni, Regioni, associazioni varie diffuse sul territorio nazionale.

    Adesso è il momento di inoltrarci in un altro territorio, guidati dalle pagine di questo libro, popolato non da fatti, ma da immaginazioni, finzioni, narrazioni che spaziano dalla letteratura al cinema, dalla Tv alla musica, dalle rappresentazioni teatrali ai media che dominano la contemporaneità.

    In questo libro non agiscono i mafiosi in quanto tali con le loro azioni criminali, violente, selvagge e atroci, ma da una parte le rappresentazioni dei mafiosi fatte da loro stessi e dall’altra parte il modo in cui sono stati raccontati o inventati (perché molte cose sono invenzioni) o descritti o cantati da chi mafioso non è o da chi con la mafia convive o vi è strettamente imparentato, anche solo culturalmente. È il caso dei neomelodici napoletani o siciliani che sono una nuova versione dei primi, debitamente ricoperti di tatuaggi, o cantori di una onorata società calabrese, mai esistita come buona, che sarebbe diversa dalla mafia d’oggi, e che viene esibita nei Cd diffusi ampiamente persino in Germania. Questo mondo delle canzoni non è folklore e non va sottovalutato perché è un modo moderno di catturare simpatie e adesioni soprattutto tra i giovani che a volte sono affascinati, attraverso il ritmo incalzante della musica, dal racconto di eroi, miti, riti e da un immaginario vittimistico alla perenne ricerca della giusta vendetta.

    È un pezzo di storia della mafia che utilizza strumenti nuovi e diversi da quelli del passato quando, nella descrizione della realtà, predominavano i documenti cartacei. Questi non hanno perso la loro importanza, tutt’altro!, ma rischiano di essere obsoleti o parziali se non si sposano con quelli nuovi come ci documenta Ravveduto.

    Non è vero che i mafiosi non hanno mai parlato; è un altro luogo comune. In realtà chi non ha mai parlato è sempre stata la vittima, non il mafioso che ha trovato il modo di farsi sentire sempre, anche quando non ha pronunciato nemmeno una parola. Si pensi alla potenza simbolica del sasso in bocca trovato sul cadavere della vittima. Tutti capiscono il significato senza bisogno di spendere parole. Il silenzio è stato, ed è, un altro potente linguaggio mafioso.

    Così come tutti capivano l’importanza dei funerali per i mafiosi. Le esequie erano spesso una prova di forza e di potenza dei sopravvissuti che esponevano con il feretro la profondità dei legami, mafiosi e politici, nel paese e fuori di esso; ed è per questo che il divieto da parte dello Stato di fare funerali pubblici o la presa di distanza verso i mafiosi da parte della Chiesa colpiscono al cuore l’immaginario mafioso e il loro racconto pubblico.

    La simbologia ha un ruolo determinante, e Ravveduto ne decodifica contenuti e significati accompagnandoci a seguire anche la Google generation criminale, come è chiamata in un bel capitolo del libro, a scandagliare quelli che possiamo definire documenti di ultima generazione e che si manifestano sui diversi media, a partire da Facebook.

    Facebook ci mostra un lato oscuro e criminale, inimmaginabile fino a poco tempo fa, del mafioso che sembra rompere con la tradizione del silenzio e parla – parla a tutti, mafiosi e non mafiosi – per esporre le proprie idee, i simboli, i personaggi importanti, gli idoli, per mostrare tatuaggi, video, luoghi esotici dove trascorre beatamente la latitanza senza immaginare che quei video li guardano anche gli uomini delle forze dell’ordine, che a volte sono riusciti a localizzare i mafiosi latitanti proprio grazie a quei post.

    Se ne deduce, e deve essere detto in modo chiaro, che tra i mafiosi ci sono, e sono un numero sterminato, anche i cretini che nell’abbaglio dei nuovi media hanno dimenticato uno dei principi cardine della tradizione: ’a megghiu parola è chidda ca ’un si dici (la parola migliore è quella che non si dice).

    Ma il fenomeno della presenza dei mafiosi, dei loro parenti o dei loro estimatori sui media segnala una questione troppo spesso dimenticata: la questione del consenso. Nessun mafioso che si rispetti, sin dagli albori della loro presenza, ha mai abbandonato il pensiero che è necessario costruire attorno a sé consenso, adesione convinta, condivisione e convenienza, perché la paura e il terrore non sono mai stati sufficienti, da soli, a garantire la sopravvivenza. È una lotta per la conquista del consenso, perché, si sa, chi lo conquista vince la partita.

    Qualcuno potrebbe obiettare: è utile un libro come questo? Io penso proprio di sì. E lo penso perché sono convinto che questa lunga carrellata ci mostra come le rappresentazioni delle mafie siano state utili a far capire meglio la mafia e anche l’antimafia, e dunque ad attrezzarci meglio culturalmente. Ravveduto mostra, ed è uno dei tanti esempi che si potrebbero fare, come i film dedicati a Placido Rizzotto e a Peppino Impastato abbiano fatto conoscere e valorizzare, persino agli storici di professione, due personaggi che oggi sono significativi nella lotta alla mafia e che senza quei film probabilmente sarebbero stati destinati a un lungo silenzio o sarebbero rimasti in un cono d’ombra.

    In queste pagine è raccontato il modo in cui chi non è mafioso li ha messi in scena e il modo in cui si sono autorappresentati. Una questione, per loro, di primaria importanza, come indicano tracce del ritorno alle origini; e la sopravvivenza dei codici – l’ultimo sequestro di un rituale siciliano è avvenuto a Roma nel giugno 2019 – ne è la prova più evidente.

    Adesso, questo libro ci dice perché è successo tutto ciò e la lezione che occorre trarne.

    A Riccardo: certezza del reale, potenza dell’immaginario

    Premessa

    La storia, l’immaginario, le mafie

    La storia delle mafie italiane è un tipico caso di Public History.Un tema che si presta a essere analizzato nel «campo delle scienze storiche […] attinenti alla ricerca e alla comunicazione della storia all’esterno degli ambienti accademici […] con e per diversi pubblici»¹. Nasce e si afferma nel discorso pubblico come rappresentazione di un potere non decifrabile, misterioso e terrificante. Una storia scritta da specialisti per un pubblico di non addetti ai lavori, che adotta la memoria come manifestazione di un passato da custodire e promuovere. Una storia in contatto diretto con l’evoluzione della mentalità e del senso di appartenenza alla comunità locale, nazionale e globale e che traccia un passato a geometrie variabili. Una storia spettacolare prodotta e rappresentata anche grazie all’uso sistematico dei mass-media: un serbatoio inesauribile di percezioni e narrazioni che trasmettono valori, simboli, icone e miti della contemporaneità. Tutti elementi che creano immaginario, e «l’immaginario è storia tanto quanto la Storia»². E se «l’immaginario è storia», non possiamo ignorare il ruolo che i new media hanno assunto nel ridefinire gli orizzonti spaziali e temporali; hanno contribuito a ricodificare l’immaginario collettivo, mutando il nostro rapporto con la realtà. Dalla storia come ricostruzione degli eventi nel tempo a «un’altalena di immagini che hanno frantumato quella omogeneità […] che in epoche passate aveva caratterizzato univocamente lo sviluppo sociale del paese»³.

    Così, anche l’immaginario delle mafie si è frammentato modificando la percezione dei fenomeni criminali. Un immaginario liquido che attraverso la condivisione in tempo reale (multipla e simultanea) di immagini, parole e suoni ha ristrutturato la memoria sottraendo significato alle mafie in quanto fatto storico. Ripercorrere questo immaginario attraverso i media, quindi, può aiutarci a incastrare le tessere del puzzle disegnando una Storia circolare in cui i ricordi richiamano le immagini e le immagini stimolano i ricordi. Insieme, immagini e memoria, offrono una testimonianza della realtà e rivelano il potere mafioso mostrando il latente dietro l’apparente, il non-visibile dietro il visibile, ovvero le immagini che rendono accettabile la presenza delle mafie nella società e che guardiamo ormai senza stupore. Il visibile, ovviamente, non è il reale ma un insieme di frammenti del reale che il pubblico riconosce e accoglie contribuendo ad allargare il territorio della conoscenza⁴.

    Il testo che avete tra le mani è stato scritto da uno storico nato agli inizi degli anni Settanta. Come tutta la sua generazione, è cresciuto nel liquido amniotico dell’infosfera che ha modellato le società iperstoriche dell’Occidente⁵. Tra gli agenti di storia del Novecento (Stato, Chiesa, totalitarismi, partiti di massa etc.), nessuno al pari dei media è stato in grado di costruire una comunità illimitata di cittadini che sono allo stesso tempo ascoltatori, spettatori e pubblico interattivo. Un’audience che si riconosce, senza conoscersi, grazie all’intreccio delle storie locali vissute da ciascuno in una più grande Storia universale. I media hanno stravolto il laboratorio dello storico nel quale oggi affluiscono, oltre ai tradizionali documenti cartacei, anche i suoni, le immagini e gli oggetti della cultura materiale. Fonti che trasudano memoria e che concorrono a «fare gli italiani» scandendone l’esistenza collettiva⁶. Anche lo studio delle mafie, dunque, è travolto dalla straripante e inusitata sovrabbondanza di documentazione che può invertire l’ordine gerarchico tra storia e memoria. Ne è testimone chi è cresciuto nell’era della neotelevisione, a partire dagli anni Ottanta, quando la storia del crimine organizzato ha subito un’accelerazione. L’identità delle mafie, come quella nazionale, passa attraverso la letteratura, la cronaca, il cinema, la televisione, la musica «operando in direzione di una coesione sociale forte»⁷. Per lo storico del XXI secolo l’analisi dei media nel racconto delle mafie, con tutto il portato di stereotipi, cliché, falsificazioni, montaggi, slittamenti, presentificazioni e usi politici che se ne determinano, è parte sostanziale della sua formazione culturale, un aspetto fondante della propria educazione civile. È un modo per ampliare lo spettro della ricerca entrando in contatto con la storia che vive e si sedimenta fuori dai circui­ti accademici. I media rappresentano un varco per tornare alla Storia senza timore di agire in «un presente pressoché illimitato che assorbe gran parte del passato e del futuro respingendo ciò che non può incorporare»⁸. Ricostruire il presente è tanto difficile quanto lo è ricostruire il passato:

    È necessario un lavoro di individuazione e di contestualizzazione. Vanno identificati i differenti strati che costituiscono un momento o una scena. Bisogna rintracciare gli spazi e i tempi che convergono in uno stesso luogo, decifrando gli elementi fuori campo, accogliendo le reminiscenze evocate dall’immagine. Momenti, tutti, che invocano invariabilmente uno sguardo storico⁹.

    Affrontare la sfida dell’immaginario significa analizzare il passato che torna nel presente¹⁰. Una sfida tanto più cruciale se consideriamo che la rappresentazione delle mafie è ricca di reminiscenze e di riproduzioni derivanti dalle narrazioni (miti, leggende, favole) o dalla coscienza popolare (proverbi, superstizioni, folklore). L’immaginario da un lato partecipa alla costruzione della società che lo ha prodotto, dall’altro ne difende l’identità fissando ruoli e comportamenti. Si formano, così, gli stereotipi che si innestano nella memoria collettiva come deposito di immagini primordiali in grado di generare ricordi condivisi. Stereotipi e memoria collettiva selezionano le scene del passato garantendo la coerenza dell’immaginario nel presente. La selezione, però, acquista valore comunicativo se può essere tramandata oltre il limite della vita biologica, ovvero se diventa trasmissione culturale. I media, perciò, sono gli amplificatori transgenerazionali della memoria culturale, assicurando – insieme ai riti, ai testi sacri, ai monumenti, ai memoriali, ma anche alle biblioteche, ai musei e agli archivi – il permanere delle figure del ricordo che costituiscono punti fissi del firmamento memoriale, collocandosi sul piano della mentalità, degli usi e delle narrazioni mitopoietiche¹¹.

    1 Sulla definizione e sulle pratiche della Public History, si veda https://aiph.hypotheses.org/3193, consultato il 4 giugno 2019.

    2 Cfr. M. Ferro, Cinéma et Histoire, Denoël-Conthier, Paris, 1977.

    3

    Censis

    , Quattordicesimo rapporto sulla comunicazione. I media e il nuovo immaginario collettivo, Franco Angeli, Milano, 2017, p. 163.

    4 P. Sorlin, Sociologie du cinéma, Aubier Montaigne, Paris, 1977.

    5 Cfr. L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina, Milano, 2017.

    6 G. De Luna, La passione e la ragione, Bruno Mondadori, Milano, 2004, p. 195.

    7 F. Anania, I media motore della storia nel tempo presente, in Ricerche Storiche, maggio-dicembre 2009. Cfr. Id., I mass media fra storia e memoria,

    Rai

    -

    Eri

    , Roma, 2008.

    8 S. Gruzinski, Abbiamo ancora bisogno della storia? Il senso del passato nel mondo globalizzato, Raffaello Cortina, Milano, 2016, p. 11.

    9 Ivi, p. 17.

    10 Cfr. A. Abruzzese, L’intelligenza del mondo. Fondamenti di storia e teoria dell’immaginario, Meltemi, Milano, 2001.

    11 Cfr. J. Assmann, La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Einaudi, Torino, 1997.

    I. Scrivere di mafie

    Il canone letterario del crimine

    Tra mafie e media esiste un’attrazione fatale. Già negli anni Trenta dell’Ottocento il rispecchiamento della criminalità nella fiction letteraria è diffuso al punto da rendere indistinguibile la realtà dalla sua rappresentazione. Un gioco di specchi che si condensa intorno al discorso sulle «classi pericolose», ovvero quella parte di popolazione che, «a causa dei suoi vizi, della sua ignoranza e della sua miseria», gremiva la cosiddetta «armata del crimine»¹. Una congerie umana dedita alla depravazione morale e ai delitti, ben distinta da operai e artigiani, descritti invece come buoni, laboriosi, onesti e solidali. Una separazione necessaria, sul piano dell’immaginario, poiché entrambe le classi frequentano i medesimi luoghi e gli stessi teatri dove si rappresentano drammi che idealizzano «volgari mascalzoni in veri e propri eroi»². Inghilterra e Francia svolgono nel XIX secolo

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1