Sara è scomparsa
By Luisa Rosa
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About this ebook
Romanzo d’esordio, s’inserisce in maniera autorevole in quel filone del noir mediterraneo che, sulla scia di Jean-Claude Izzo, coniuga la luce, i sapori, gli odori, la musica dei paesi, nel caso la Grecia, che si affacciano su questo mare con il crimine, l’intrigo, il mistero.
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Book preview
Sara è scomparsa - Luisa Rosa
COLOPHON
Tutti i diritti riservati
Copyright ©2019 Oltre edizioni
http://www.oltre.it
ISBN 9788899932527
Collana *gialli
Titolo originale dell’opera:
Sara è scomparsa
di Luisa Rosa
SOMMARIO
Autore
Prologo
da capitolo 1 a capitolo 9
da capitolo 10 a capitolo 19
da capitolo 20 a capitolo 29
da capitolo 30 a capitolo 39
da capitolo 40 a capitolo 51
Epilogo
Note dell’autrice
autore
Luisa Rosa
Luisa Rosa nasce a Torino nel 1959. Ex analista finanziaria, nel 2004 decide di dare una svolta radicale alla propria vita e di trasferirsi, insieme al marito, nell’isola greca di Naxos per dedicarsi alle sue vere passioni, in primis la scrittura.
Da sempre appassionata di letteratura di ogni genere, predilige il giallo, in cui si cimenta anche come scrittrice. I suoi racconti brevi hanno ottenuto diversi premi e riconoscimenti in concorsi letterari nazionali; con il racconto Il segreto di Kazantzakis è finalista al Premio Gran Giallo di Cattolica 2018, in collaborazione con Il Giallo Mondadori.
Attualmente si occupa di traduzioni dalla lingua olandese e divide la sua vita tra Paesi Bassi, Grecia e Italia. Sara è scomparsa è il suo primo romanzo.
A Katia
Quest’è Bacco e Arianna,
belli, e l’un de l’altro ardenti:
perché ’l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe ed altre genti
sono allegre tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza."
(da La canzona di Bacco
- 1491
di Lorenzo de’Medici)
Avvertenze per il lettore
Le parole in greco sono state traslitterate nel modo più intuitivo per renderle facilmente leggibili. Il dittongo ou
si pronuncia u
. Le parole non accentate sono da pronunciarsi come parole piane, ovvero con l’accento posto sulla penultima sillaba.
PROLOGO
La donna è ancora svenuta quando due uomini la trascinano, legata mani e piedi, all’interno della miniera abbandonata. Sulla tempia, un ciuffo di capelli castano chiaro è scurito da una macchia di sangue raggrumato.
In questa zona sperduta tra le alte montagne non si corre il pericolo di essere visti, soprattutto a quest’ora del pomeriggio quando in giro non s’incontra nessuno.
Indossano tute blu da lavoro e parlano tra loro in una lingua dell’Est europeo. Entrano nel tunnel, scavato nella roccia almeno un secolo prima per estrarre lo smeriglio – sostanza abrasiva utilizzata in passato. Seguono i binari che gradatamente si tuffano nell’oscurità della miniera, attenti a non inciampare nel terreno pietroso, sbilanciati dal peso della donna che sorreggono in due.
Dopo qualche decina di metri, dove la luce esterna s’è quasi dissolta, giungono in prossimità di una grotta naturale scavata nella roccia. È sbarrata da una porta di legno, chiusa da una robusta serratura. La aprono e, guardandosi intorno nella penombra, decidono di posare il corpo privo di sensi sopra una pila di sacchi di juta. La puzza penetrante di umidità aggredisce le narici.
Dopo essersi scambiati un paio di frasi, uno di loro taglia con una lama i lacci che le immobilizzano i polsi e le caviglie. Con uno strappo brusco le staccano anche il nastro adesivo che le copre la bocca. La donna emette un flebile gemito di dolore e accenna un movimento, ancora in stato di incoscienza.
Richiudono la porta girando la chiave nella pesante serratura e, seguendo il fascio di luce, ritornano sulla strada dove hanno lasciato il furgone bianco.
Come da istruzioni ricevute, prima di mettere in moto, il conducente estrae il cellulare e conferma di aver eseguito la missione a loro affidata.
CAPITOLO 1
Mercoledì, 19 aprile 2006
La gente intorno a me si sta preparando all’imminente sbarco al porto di Naxos, annunciato con fragore dagli altoparlanti.
Io scendo nel garage per recuperare il trolley dalla gabbia dei bagagli e, facendomi largo a fatica nella ressa, cerco di avvicinarmi il più possibile al portellone di uscita posteriore.
In un frastuono di motori accesi dei veicoli pronti allo sbarco, di urla di comando da parte degli addetti, dell’assordante sirena lampeggiante che annuncia la messa in moto di grosse catene, la folla dei passeggeri attende in silenzio. Il loro sguardo è fisso sul portellone, come all’inizio di una rappresentazione teatrale. Trepidante di curiosità, resto in attesa che l’enorme sipario di metallo si abbassi per poter finalmente vedere la mia nuova meta.
La scena che si sta aprendo davanti a noi viene anticipata dall’abbagliante luce dell’Egeo che fa strizzare gli occhi, seguita dall’odore della fresca brezza marina.
Ed ecco apparirmi di fronte, inondata dal sole, una morbida collina di casette bianche su cui svetta una cittadella medioevale color pietra. Una cornice di alte montagne la separa dal blu intenso di un cielo senza nuvole. Ai suoi piedi, un brulicante lungomare.
Sono impaziente di rivedere Sara, mia sorella, che a quest’ora mi starà sicuramente aspettando sul piazzale del porto. Non la vedo da anni, e il suo inaspettato invito è arrivato al momento giusto per fuggire da una quotidianità e da un’inquietudine diventate ormai insopportabili. Il nostro punto di ritrovo, secondo la sua ultima email, è davanti a un obelisco bianco alla fine del lungo molo.
Il flusso chiassoso e caotico dei passeggeri, eccitati dallo sbarco, mi risucchia verso l’uscita della nave. Circondata da una folla di greci di tutte le età, alcuni ricurvi sotto il peso di borse e valigie, m’incammino con lo zainetto in spalla trascinando a fatica il trolley. In mezzo alla calca, si muove anche un lento serpentone di veicoli: auto stracolme, motorini con carichi improponibili ed enormi autotreni pilotati dai fischi assordanti della polizia portuale.
Avanzo in questo preordinato caos cercando di non finire sotto le ruote di qualche veicolo e, finalmente, scorgo da lontano l’obelisco bianco. Man mano che mi avvicino, fra saluti e abbracci dei viaggiatori a parenti e amici in attesa sulla banchina, mi fermo ogni tanto per alzarmi in punta di piedi, impaziente di individuare mia sorella. Purtroppo non riesco ancora a vederla.
Proseguo per un altro tratto e, ora che sono più vicina, mi rendo conto che non c’è nessuno davanti all’obelisco: Sara è sicuramente in ritardo.
Noi rappresentiamo uno di quei casi di sorelle del tutto diverse tra loro, sia fisicamente sia come carattere e stile di vita. Lei, mia sorella maggiore: minuta e chiara di carnagione, curiosa, estroversa, incostante, amante dei viaggi e dell’archeologia, in giro per il mondo ormai da molti anni. Io, sei anni più giovane: alta e bruna, dai lineamenti forti, metodica, egocentrica, laureata in scienze economiche, di professione analista crediti, nonché oltremodo timorosa di ogni cambiamento.
Giungo al luogo dell’appuntamento e provo a chiamarla al cellulare, ma è staccato. Mi siedo allora su un muretto ad aspettarla, osservando il lento defluire del traffico verso l’unica stretta via di uscita dal porto che si snoda in mezzo alla città vecchia.
Dopo circa mezz’ora di attesa sotto il sole sono madida di sudore, ma rimango ad aspettarla nel posto concordato: non voglio rischiare che al suo arrivo lei non mi trovi. Il piazzale si è ormai svuotato, sono rimasti soltanto i taxi e alcuni pulmini degli alberghi in attesa del prossimo traghetto. Ma di Sara ancora nessuna traccia.
Riprovo a chiamarla, ma il cellulare è sempre muto.
Nell’attesa rifletto sulla mia vita a Milano. Uno stato di apparente, felice stabilità: un impiego in banca, un appartamento decoroso, qualche amicizia e, talvolta, fugaci relazioni amorose. In realtà, il costante sottofondo di una solitudine disperata e la frustrazione di non riuscire a dare un senso alla mia esistenza, sempre affacciata sull’orlo di un abisso, hanno reso questa condizione fragile come una bolla di cristallo pronta a esplodere in mille pezzi. E questo è accaduto con la recente perdita di mia madre: un mostro invisibile e inarrestabile che ha divorato anche lei dopo mio padre, solo un paio di anni prima.
Guardo l’orologio: sono le due. Mi rendo conto che è trascorsa più di un’ora e inizio a preoccuparmi. A questo punto decido di recarmi da sola a Mili, il paesino in cui lei vive, dove so che ha affittato una casetta economica da un’affabile coppia di anziani, Nikos e Dèspina Koufòpoulos. Non conosco l’indirizzo; mi ha soltanto scritto che è situato nell’entroterra dell’isola.
Nella vicina biglietteria dei bus, un cubetto bianco con gli infissi blu, mi rivolgo al ragazzo dietro lo sportello per ottenere indicazioni sulla mia destinazione. Smette di digitare sul telefonino, mi sorride e, prima di rispondermi, prende senza fretta un sorso da un enorme bicchiere di Nescafè freddo. In un inglese un po’ stentato mi indica una corriera verde, ferma di fronte al capolinea. La raggiungo e carico il trolley nel vano bagagli aperto su un lato.
Salgo dalla porta anteriore e saluto in inglese l’autista: un omone abbronzato, con folti baffi neri. Fuma con il finestrino aperto, ascoltando alla radio una musica locale a volume molto alto. Sopra di lui, attaccate alle alette parasole, una serie di icone di santi, foto di familiari ingiallite dalla polvere, un crocefisso e un rosario che penzola sul parabrezza.
"Mili?" gli chiedo, accentuando il tono interrogativo.
È evidente che parla solo greco perché, dopo aver udito la mia destinazione e senza dirmi una parola, mi fa intendere di prendere posto. Quindi, con un’efficace ampia mimica, battendosi il petto con la mano, mi fa capire di non temere: mi avviserà lui quando scendere. Rassicurata, prendo posto qualche fila dietro di lui e mi rilasso godendomi il piacevole refrigerio dell’aria condizionata.
Un’anziana signora vestita di nero si siede accanto a me, appoggiando in grembo la borsa della spesa. Le sorrido e accenno un timido "Hello!". Mi sento piuttosto impedita a non capire nemmeno una parola di greco.
Lei non ricambia il mio saluto. Fruga con le mani rugose in un sacchetto di carta bianca, estrae un biscotto e me lo offre. Rimango sorpresa dal gesto spontaneo, non abituata a tali gentilezze da parte di estranei. La ringrazio con un cenno del capo.
Mi osserva sorridente, molto interessata alla mia reazione dopo l’assaggio.
Si tratta di un fagottino di fragrante pasta frolla al gusto di cannella, con un morbido ripieno di ricotta e miele: delizioso!
"Melitinia" mi dice.
"Me-li-ti-nia" ripeto insicura, scandendo le sillabe con la bocca piena.
Mi dà un leggero buffetto sul ginocchio in segno di approvazione, e scoppiamo a ridere insieme.
CAPITOLO 2
La corriera finalmente parte con un rumore roboante del motore, acuito dalle forti vibrazioni dei finestrini. Esce dalla zona del porto e, sulla destra, intravedo per una manciata di secondi l’affollato e vivace lungomare.
Dopo un centinaio di metri, si apre a sinistra uno scorcio di intensa bellezza: imponenti faraglioni si tuffano a picco nel mare, dove alte onde si frantumano in un ribollio di spuma bianca. Con una repentina svolta a destra, che di colpo costringe tutti i passeggeri ad aggrapparsi alla prima cosa che capita, la stretta via si snoda di nuovo fra casette bianche situate ai piedi del borgo medioevale.
Superati un paio di incroci senza semafori, dove la frenetica circolazione si svolge senza apparenti regole di precedenza, ci fermiamo di fronte a una maestosa chiesa bianca con le cupole azzurre. Una scalinata di marmo conduce a tre imponenti portoni di ingresso.
L’anziana signora me la indica con il dito. "Aghios Nikòdimos!" mi dice, facendosi più volte il segno della croce.
A questa fermata, la corriera si riempie all’inverosimile di donne cariche di borse della spesa e di studenti appena usciti da scuola con i loro zainetti colorati. L’allegro vociare e la musica dell’autista sono ora piuttosto frastornanti, ma sorrido se penso al contrasto con la noiosa e triste metropolitana di Milano.
Adesso stiamo attraversando una zona periferica, uscendo dal centro urbano.
Le colline, con le alte cime sullo sfondo, si avvicinano sempre più. I bordi della strada sono un’esplosione colorata di margherite bianche e gialle, alternate da papaveri rossi. L’intenso profumo del finocchietto selvatico s’insinua dal finestrino aperto. Una verde pianura di campi coltivati si estende tutto intorno, divisa in appezzamenti da canneti fluttuanti al vento. E poi ancora: prati con mucche al pascolo, capre, pecore e galline libere un po’ ovunque. A dire il vero non mi aspettavo di trovare un paesaggio tanto rigoglioso e verdeggiante dopo aver visto quelli aridi delle altre isole durante la traversata in traghetto.
D’un tratto mi rendo conto che le bellezze di Naxos mi hanno distratto per qualche minuto dal problema di Sara. La chiamo di nuovo al cellulare, ma è sempre spento.
Provo allora a supporre cosa potrebbe esserle accaduto oltre all’ipotesi di aver dimenticato il nostro appuntamento, improbabile però considerato il tono entusiasta del suo messaggio di invito. Forse ha avuto un incidente mentre veniva al porto, oppure si è solo fermata per un guasto dimenticando il telefono a casa. Mah... non so, cerco di tranquillizzarmi ma rimango comunque inquieta.
La corriera inizia ad arrancare su per le colline perdendo velocità. Attraversiamo un paio di candidi villaggi dove, all’unica fermata, scendono parecchie persone. L’autista ne approfitta per fare tappa in un piccolo kafeneìo. Esce con una sfoglia avvolta in un tovagliolo e il solito caffè freddo. Risale con tutta calma al posto di guida e, mentre è impegnato con lo spuntino, riprende la corsa su per i tornanti conducendo incredibilmente il mezzo con una mano sola. Alla fermata successiva, scende e ritira dei pacchi da un negozio consegnandoli a una signora nel paese seguente, sempre senza fretta e senza alcuna lamentela da parte degli altri passeggeri.
Dopo circa una ventina di minuti, durante i quali il baffuto conducente guida stavolta parlando al cellulare, mi rendo conto che dovremmo essere quasi arrivati al capolinea dai pochi passeggeri rimasti a bordo. Infatti, poco dopo, la corriera si ferma con una brusca frenata.
L’autista si alza, si avvicina e mi fa capire a gesti che è la mia fermata. Lo seguo fino al portellone laterale del bagagliaio. Lo apre per prendere il mio trolley e me lo porge gentile. Lo ringrazio in italiano nella speranza che lo capisca più dell’inglese, e difatti esclama sorridendo: "Ah… italiano? Una faccia, una razza!"
Mi saluta cordiale alzando la mano e riparte. Dopo pochi secondi, sparisce dietro una curva che costeggia il ripido versante della montagna.
Rimango sul ciglio della strada guardandomi attorno spaesata.
E ora dove vado? mi chiedo.
Da un lato, la carreggiata è delimitata da una parete rocciosa, mentre dall’altro, guardando verso la valle dal punto in cui mi trovo, mi accorgo che il paesino si sviluppa in discesa sul pendio della montagna. È raggiungibile da una ripida scalinata ed è quasi impossibile scorgerlo da quassù, nascosto com’è dalla rigogliosa vegetazione.
Mentre mi accingo a riprendere il bagaglio, da dietro la curva, sul lato opposto della